Fotogiornalismo di guerra
Con l’attentato dell’11 settembre 2001 al World Trade Center di New York la fotografia è entrata con decisione nel nuovo secolo accogliendo definitivamente i sostanziali cambiamenti della rivoluzione tecnologica, intervenuti nel suo passaggio di stato dall’analogico al digitale. A seguito dell’immensa produzione di fotografie realizzate il giorno della tragedia e in quelli immediatamente successivi al Ground Zero, tre scrittori (Alice Rose George, Michael Shulan e Charles Traub) e un fotografo (Gilles Peress) si proposero di costituire una sorta di archivio della memoria da restituire alla collettività, sottoponendo a una verifica pragmatica alcune delle molteplici opportunità offerte dall’incontro tra fotografia e digitale: «la fotografia è il medium perfetto per esprimere quanto accaduto l’11 settembre, perché è democratica per sua natura e riproducibile all’infinito» (M. Shulan, Images of democracy, 2004, in Here is New York, http://hereisnewyork.org/ about/democracy.asp, 27 marzo 2009). In base a questo assunto vennero acquisite sia fotografie prodotte dai professionisti sia, in modo molto più consistente, immagini scattate dai passanti e da tutti coloro che avevano risposto all’urgenza di raccogliere una partecipe testimonianza. I supporti pervenuti (file digitali, diapositive e negativi realizzati con attrezzature professionali ma anche con le ‘usa e getta’) subirono il medesimo trattamento tecnologico in modo da uniformarne gli standard e produrre stampe digitali da esporre, con lo stesso formato e allo stesso prezzo, al fine di raccogliere fondi destinati ai figli delle vittime. La mostra, dall’eloquente titolo Here is New York – A democracy of photographs, fece il giro del mondo ed è tuttora fruibile on-line: a un’accurata osservazione distinguere tra produzione professionale e amatoriale è pressoché impossibile, in quanto le immagini proposte condividono la stessa drammatica e fotogenica scenografia (così forte ed evocativa da richiamare il potere dell’arte), e un provocatorio anonimato.
In questo primo decennio del 21° sec. altri eventi di diversa natura, ma di fortissimo impatto mediatico, come la guerra USA-῾Irāq o lo tsunami nel Sud-Est asiatico del dicembre 2004, hanno imposto alla fotografia, in particolare a quella d’informazione, una rivisitazione complessiva di tutti i suoi ambiti di riferimento. Da quelli strettamente tecnologici, connaturati al mezzo fotografico, a quelli storici, interpretativi e infine commerciali della produzione fotografica e del suo utilizzo, fino alle più recenti frontiere del multimediale. Novità, sollecitazioni e rovesciamenti di equilibrio turbano l’identità stessa della fotografia, coinvolgendo così in un interessante dibattito fotografi, operatori dei vari settori del mercato, firme prestigiose del mondo intellettuale. E contemporaneamente, novità assoluta del nuovo secolo, acquista un significativo rilievo la sconfinata produzione amatoriale, sollecitata dall’impiego del digitale domestico e contenuta, riorganizzata e resa fruibile dalla rete. L’offerta abnorme di immagini fotografiche genera circuiti e cortocircuiti che, da un lato, alterano la nostra percezione del reale e, dall’altro, favoriscono la capacità di dialogo con una comunicazione visiva più sofisticata. In termini di educazione visiva, invece, non sono trascurabili la preoccupazione per la tendenza a utilizzare in modo acritico la rete come ambiente principale di formazione, come pure la difficoltà a mantenere alta la soglia di attenzione nella lettura delle immagini digitali, cui è attribuibile una corresponsabilità nella trasformazione dei codici di rappresentazione, con una semplificazione dettata dalla tirannia della velocità e dell’immediatezza.
Analizzare i percorsi contemporanei della fotografia documentaria e giornalistica, in particolare le testimonianze dal mondo in conflitto, offre in questo senso un osservatorio privilegiato per leggere questo cambiamento epocale. Se non altro perché attribuiamo a questo genere fotografico una maggiore consapevolezza di quel reale dal quale tendiamo ad allontanarci favorendone le rappresentazioni virtuali. Il fotogiornalismo in particolare, da sempre mezzo probatorio e al tempo stesso manipolabile dell’informazione, nato e poi cresciuto sulla carta sensibile e riproposto per tutto il secolo scorso sulla carta stampata, dopo aver condiviso le sorti con il giornalismo nella precedente rivoluzione mediatica generata dall’avvento della televisione, continua a condividere con esso molte problematiche dello scenario attuale.
Eppure l’inizio del nuovo secolo vede riconfermare al fotogiornalismo non solo «il ruolo di testimone più efficace del nostro passato, ma certamente anche la prova di registrazione più potente del nostro presente e, finora, il più conciso schema per comprimere informazione per gli usi futuri. La fotografia, inoltre, è il più aperto dei sistemi in quanto può essere letta indipendentemente dalla lingua, il sesso, l’età e la razza e può essere interpretata in pratica da tutte le culture, religioni ed ideologie» (T. Ang, Fragility of the image, «Dispatches», apr. 2008, http://www.rethink-dispatches.com/essays/fragility-of-the-image-tom-ang-on-image-manipulation-april-2008, 27 marzo 2009).
Il fotogiornalismo da testimonianza a icona
La sfida della fotografia documentaria del 21° sec. risiede nel confermare la sua peculiarità rispetto agli altri media visivi, nel pieno di un cambiamento tecnologico epocale e nella consapevolezza di aver cambiato, negli ultimi centocinquanta anni di produzione, il modo in cui la storia contemporanea è stata documentata e rielaborata. Spostando l’attenzione su soggetti e luoghi prima trascurati dalla storiografia ufficiale, essa ha di fatto prodotto un ampliamento degli ambiti di indagine della storia stessa e di quelle discipline che si occupano delle collettività umane, come l’antropologia e la sociologia. Il fotogiornalismo in particolare, con la proposta di immagini-icona dei maggiori eventi del mondo contemporaneo, contribuisce alla formazione di una memoria collettiva, definita più criticamente «un’istruzione collettiva» (Sontag 2003; trad. it. 2003, p. 74), sulla quale si sono elaborate riflessioni di diversa natura.
Le immagini-icona del Novecento devono parte di questo status alla loro esposizione sulla carta stampata, quindi alle politiche dell’informazione messe in atto a seconda delle circostanze, ma in modo determinante anche alla loro successiva archiviazione, che favorisce o meno la possibilità di ulteriori riutilizzi e citazioni. La prospettiva che la memoria del nostro pianeta sia affidata sempre più a ristrette e potenti imprese private (come Corbis, Getty o Hachette), in grado di accogliere in banche d’immagini il ricco e articolato patrimonio visivo acquisito dagli archivi delle piccole e medie agenzie fotogiornalistiche, estromesse dalla globalizzazione del mercato, è quanto meno preoccupante. È una questione di numeri e non solo: nell’operare una selezione di questo patrimonio la scelta di contenuti avviene sulla base di valutazioni necessariamente anche di mercato.
Eppure, tenuto presente l’intero processo, ciò che determina la forza dell’immagine-icona e permette di negoziare la costruzione di una memoria condivisa e, quindi, l’identità della nostra civiltà contemporanea mantiene pur sempre un margine di mistero, anche se affidiamo principalmente alla felice congiunzione tra documento dell’evento e metafora universale la relazione significante ed emotiva che intratteniamo con essa. Il riferimento all’iconografia pittorica gioca un ruolo di assoluto rilievo nello stabilire questo legame, come pure l’adesione a stilemi o la citazione di icone fotografiche già consolidate e accettate. Nel caso specifico della fotografia nei luoghi di conflitto, un peso particolare assume il riferimento all’iconografia religiosa nel restituire quel sentimento di compassione verso i sofferenti nel quale, sin dalla seconda metà del Novecento, si è identificato il grande fotogiornalismo impegnato.
L’estetizzazione del fotogiornalismo contemporaneo è un dato riferibile a un processo ancora in corso che negli ultimi vent’anni ha visto la fusione dei confini tra i generi fotografici e, più in generale, tra le arti visive. Un processo che tende a essere letto altresì come una delle manifestazioni dei cortocircuiti del nostro presente quando vengono affrontati gli scenari della sofferenza umana. Al consueto giudizio di sfruttamento del dolore, che riposa sull’idea della bellezza come piacere e distrazione, si vanno sostituendo letture che sostengono il riconoscimento e la difesa dei valori espressi dalle immagini-icona del nostro presente. Valori tra i quali assume rilevanza la necessità di riflettere sulla violenza come categoria pervasiva del nostro mondo in conflitto e di favorire, per quanto possibile, una presa di posizione attiva e responsabile.
Regarding the pain of others (2003) della scrittrice americana Susan Sontag resta un riferimento imprescindibile per questo dibattito che è stato avviato proprio all’inizio del 21° secolo. Interrogandosi sul potere dell’arte, sulla spettacolarizzazione della sofferenza tanto quanto sugli strumenti espressivi del reporter di guerra, Sontag individua attraverso lo sguardo dell’osservatore «il valore etico delle immagini da cui siamo assaliti» e aggiunge che «non spetta a una fotografia il compito di rimediare alla nostra ignoranza della storia e delle cause della sofferenza che essa individua e inquadra. Tali immagini non possono che essere un invito a prestare attenzione, a riflettere, ad apprendere…» (trad. it. 2003, p. 101). L’insidia dell’utilizzo di un certo manierismo iconico autocelebrativo e accattivante riguarderebbe, secondo questa visuale, più le intenzioni del fotografo che la tendenza alla spettacolarizzazione propria del mondo della comunicazione. Semmai tale manierismo avalla il sospetto (spesso espresso nell’attuale dibattito su pericoli e limiti della libertà di informazione) di essere funzionale al mantenimento di una forma di controllo sull’informazione stessa, piuttosto che concorrere alla sua costruzione. Perché la pratica della ricerca di effetti visivi, anticipando l’esperienza sul campo, falsa l’incontro con la realtà. Secondo questa prospettiva quindi, cultura, sensibilità e, non ultimo, il mistero del talento espressivo del fotogiornalista-autore devono essere sostenuti dall’etica della consapevolezza e del rigore. In quanto sono all’origine della prima fondamentale scelta, quella dello scatto.
Dall’immagine fissa al multimedia
L’evoluzione delle tecnologie digitali ha reso Internet il luogo deputato alla comunicazione veloce, accessibile e interattiva. Mentre i tradizionali intermediari dell’informazione perdono il decisivo ruolo di trasmissione delle notizie di prima mano, specialmente dai luoghi dei conflitti (come si è visto durante l’offensiva israeliana del gennaio 2009 nella Striscia di Gaza interdetta agli operatori dell’informazione internazionale), l’ambiente digitale, ulteriormente implementato con il Web 2.0 dal 2004, è diventato a tutti gli effetti il luogo dove maggiormente si comunica, si elabora e si manifesta l’informazione giornalistica. Nell’ambito della stretta attualità, il fotogiornalismo si è sempre dimostrato fortemente ricettivo ai cambiamenti tecnologici. La sperimentazione che ha coinvolto il medium fotografia ha sostanzialmente spezzato l’assioma dell’immagine fissa a favore del contesto cosiddetto multimediale, incoraggiato dalla nuova frontiera del digitale: i servizi fotografici montati per ottenere un breve filmato video sono diventati nel giro di qualche anno il modo prevalente in cui il fotogiornalismo è fruito on-line. Ne esistono diverse possibili declinazioni, dai più semplici audio slideshows (sostanzialmente una semplice sequenza di fotografie con didascalia e sottofondo sonoro), ai più complessi interactive features, che vedono interagire documenti differenti (registrazioni video e audio, grafica, fotografie, testi giornalistici, dati) e in cui l’ipertesto interattivo permette più letture a diversi livelli. Tutti appaiono comunque accomunati da un efficace e scorrevole montaggio delle immagini e dalla rivoluzionaria presenza del sonoro, che aggiunge profondità e ulteriore testimonianza all’informazione visiva, in una combinazione di forte e coinvolgente emotività (K. Jenkins, The best of multimedia photojournalism. The era of the ear, «PoynterOnline.», April 2007, http://www.poynter.org/content/content_view.asp?id=120572, 27 marzo 2009).
Questa nuova identità del fotogiornalismo è sottolineata anche da alcuni significativi aggiustamenti operati nel settore. Nell’ambito dei premi internazionali, il Best photojournalism della statunitense NPPA (National Press Photographers Association), tra i più prestigiosi e rilevanti nel dichiarare la necessità di adattare il concorso alle nuove forme di racconto fotogiornalistico introdotte dalle più recenti tecnologie, a partire dal 2007 ha articolato ben quattro categorie per il web photojournalism, che sono a loro volta declinate in ulteriori sottosezioni.
I siti on-line delle più accreditate agenzie fotogiornalistiche offrono un’apposita sezione multimedia che assume caratteristiche diverse a seconda della loro tipologia. Le grandi agenzie internazionali di informazione (per es., AP-Associated Press, Reuters, AFP-Agence France Press) applicano lo stesso stile redazionale a tutte le notizie offerte (a stampa, video, audio e foto) e il multimedia altro non è che la più recente espressione tecnologica, prodotta per la fruizione on-line. Altra connotazione è invece riscontrabile in agenzie di forte carattere autoriale, come nel caso della storica e prestigiosa Magnum Photos. Consapevole di essere stata un riferimento imprescindibile della storia del fotogiornalismo e tuttora espressione esemplare di un preciso stile, l’agenzia presenta un sito interattivo dove, accanto alla possibilità di fare ricerca di immagini in archivio, un forte rilievo acquistano le singole personalità, in linea con le attuali sollecitazioni del mercato. Esse divengono accessibili attraverso le biografie, i portfolios personali, brevi interviste e informazioni riguardanti le attività e le iniziative editoriali ed espositive sulla loro produzione. A tutto ciò si aggiungono nuovi spazi quali il blog, aperto alle discussioni con gli utenti appassionati di fotografia e alle riflessioni degli stessi fotografi, e la sezione In motion, che accoglie dal 2004 la versione multimediale della produzione Magnum. I photo essays propongono una qualità documentaria di approfondimento che guarda più a collaudate esperienze cinematografiche che alla sperimentazione, per valorizzare, nel racconto del dato giornalistico, lo stile di riflessione e interpretazione già presente nell’originaria indagine fotografica, con l’aggiunta ricercata di suoni ambientali, musiche, testi, testimonianze registrate e voci dei fotografi. Allo scopo di favorire una successiva fruizione nei musei e nei workshops di fotografia, quindi oltre gli ambiti della rete e dell’informazione, come viene suggerito dalla proposta in DVD nel sito.
L’eredità dell’esperienza Magnum Photos è avvertibile nelle scelte di alcuni dei suoi esponenti che, con percorsi indipendenti e proprio all’inizio del 21° sec., hanno contribuito alla nascita delle due più interessanti nuove realtà autogestite, ossia le agenzie VII e Noor, accomunate dall’intento di affrontare il libero mercato difendendo uno sguardo indipendente e principi condivisi per un fotogiornalismo incentrato su tematiche difficili ed emergenze sociali.
Stephen Mayes, il direttore dell’agenzia fotografica VII fondata nel settembre 2001 (il nome deriva dal numero dei suoi membri fondatori: Alexandra Boulat, Ron Haviv, Gary Knight, Antonin Kratochvil, Christopher Morris, James Nachtwey e John Stanmeyer), esorta la comunità del fotogiornalismo a «reinventarsi», abbandonando atteggiamenti conservatori e riferimenti ancorati al passato. Secondo il suo parere «non è sufficiente animare una sequenza di fotografie con un po’ di grafica e una musica d’atmosfera». Il ripensamento deve partire dalla valutazione dei cambiamenti della società e della socialità delle ultime generazioni: modi e contenuti, quindi, devono essere proposti e sperimentati, con speciale attenzione alle questioni più impellenti del mondo occidentale, soprattutto nel nuovo contesto che vede le voci del mondo sempre più attive (The King is dead. Long live the King!, «Dispatches», April 2008, http://www.rethink-dispatches.com/essays/the-king-is-dead-long-live-the-king-april-2008, 27 marzo 2009). La qualità alta del fotogiornalismo dell’agenzia Noor tiene conto di uno scenario mutato dalle prime avvisaglie della recessione: quando è nata (2007) si è costituita in fondazione per trovare anche altrove sostegno finanziario alle proprie indagini e garantirsi quindi un’indipendenza d’azione, oltre il sistema dell’informazione. Nel settore multimedia sperimenta la possibilità di arricchire l’identità delle proprie proposte attivando ulteriori link che permettono di contestualizzare contributi, utilizzi e riscontri in una rete più ampia, e non solo virtuale, di collaborazioni e contatti.
Il fotogiornalismo nell’editoria d’informazione on-line
La storia del fotogiornalismo è ricca di esempi e aneddoti sul rapporto vincolante e conflittuale con il sistema dell’informazione e sul ruolo subalterno e didascalico riservato alla fotografia rispetto alla notizia scritta. Sono noti gli scenari di dipendenza con interessi altri che concorrono a delineare la qualità fortemente manipolatoria di questo universo, dove il dibattito sulla deontologia professionale è stato e rimane sempre vivace: basti pensare alle insidie della propaganda novecentesca come ai nuovi scenari di intervento digitale sulle immagini. Questo primo scorcio del nuovo secolo vede inedite collaborazioni tese alla valorizzazione della produzione fotogiornalistica autoriale, in termini di visibilità e di incoraggiamento anche finanziario. In questo nuovo contesto, l’editoria d’informazione, che pure mantiene il primato di principale vetrina e referente economico più accreditato per quanto riguarda il mercato della fotografia di attualità (comunemente definita di news), torna a dedicare attenzione e spazio all’indagine fotogiornalistica nei suoi esempi migliori e di maggior successo. Infatti, nonostante le politiche di sopravvivenza tese all’infotainment («informazione-spettacolo») siano state responsabili, nel tempo, dell’emarginazione dei soggetti difficili propri della concerned photography («fotografia impegnata» o «partecipe», secondo la definizione del fotografo Cornell Capa, pseud. di Kornél Friedmann, 1918-2008), un nuovo interesse motiva oggi le scelte editoriali nel commissionare la lettura dei conflitti contemporanei allo sguardo impegnato dei più prestigiosi ‘testimoni del nostro tempo’, poi visibile nelle versioni cartacee e on-line dei maggiori quotidiani e magazine americani ed europei. Anche se queste scelte sembrano riconoscere la qualità estetica più che la posizione etica di una certa produzione autoriale, in accordo con il linguaggio fotografico pubblicitario predominante. In questa direzione, l’attenta costruzione del ‘fotografo-testimone’, investito di un ruolo glamour che ne sottolinei il successo sostenuto da riconoscimenti e premi, permette spazi editoriali di approfondimento come mai in passato.
Internet ha imposto cambiamenti radicali al mondo dei grandi media dell’informazione, sostanzialmente non preparato a ridefinire la propria identità, i propri poteri ed equilibri, e disorientato dalle manovre di spostamento dei capitali degli investitori pubblicitari dalla carta stampata alla rete. Determinanti sono state le nuove abitudini del pubblico, acquisite anche dalla fascia dei lettori dei giornali cartacei, di ricercare l’aggiornamento delle notizie nelle proposte individuate attraverso i motori di ricerca del web e di apprezzarne la pluralità di voci presenti e accessibili, diventando, in certi casi, essi stessi produttori di informazione, anche visiva.
Già dalla seconda metà degli anni Novanta le testate americane più ricche e prestigiose, come «The New York Times» e «The Washington Post», nel progettare le loro edizioni on-line avevano destinato alla fotografia e al reportage d’autore il ruolo di arricchire l’offerta d’informazione e attirare l’attenzione dell’utente. A dieci anni di distanza si può riscontrare quanto, mediamente, l’offerta sia stata ulteriormente implementata e il settore multimedia abbia assunto una rilevanza ancora maggiore, concorrendo alla ripresa di una domanda di fotogiornalismo nelle sue diverse declinazioni digitali e generando in tal modo, di conseguenza, maggiori preoccupazioni finanziarie riguardo ai budget di spesa destinati alla produzione diretta o all’acquisto dei servizi e all’organizzazione interna delle redazioni fotografiche.
Le nuove fonti della rete
Mentre da più parti si segnala la crisi della versione cartacea dei giornali quotidiani, nuove realtà produttive trovano visibilità nelle parallele versioni on-line, cui è attribuibile in buona parte tale crisi e la messa in discussione delle future configurazioni e delle prospettive del fotogiornalismo internazionale e di tutta l’informazione professionale occidentale. L’opportunità di dare voce ai soggetti e alle realtà periferiche del pianeta è stata tra le novità più fertili e stimolanti del sistema di comunicazione web generato dal digitale. Aggirando la mancanza di infrastrutture e le fragilità economiche, emerge in questi contesti un professionismo diffuso che produce informazione e si propone in maniera dialogica con l’esterno, con particolare riguardo al mondo occidentale. Generalmente i media di informazione del vecchio e del nuovo continente hanno avviato rapporti di collaborazione con fotografi e agenzie fotogiornalistiche di quei Paesi verso i quali è rivolta l’attenzione per seguirne il rapido cambiamento (come, per es., la Cina) o perché coinvolti da conflitti ed emergenze. Allo stesso modo le voci emergenti dalle nuove frontiere del citizen journalism, alimentate dalle possibilità di collaborazione, discussione e scambio tra comunità offerte da Internet, sono sotto osservazione da parte del giornalismo ‘alto’ in una fitta relazione di link e rimandi reciproci, fino a profilare la possibilità di veri e propri spazi di informazione condivisa.
E ancora, le potenzialità della produzione fotografica presente nei contesti informali dei siti di social network, come Facebook, o di photo sharing come Flickr, vengono indagate come risorsa di informazione interessante ed economica. Diverse iniziative condividono la stessa dinamica: You Witness News, sinergia tra il motore di ricerca Yahoo e Reuters, tra le maggiori agenzie internazionali di informazione al mondo, si offre come luogo virtuale nel quale chiunque può inviare fotografie o filmati relativi a ciò che ritiene rilevante, e sentirsi così (solo virtualmente) attivo testimone. L’elaborazione di una selezione delle immagini finalizzata all’utilizzo commerciale esplicita invece una nuova frontiera, virtuale, del controllo dell’informazione stessa, dove la modalità di rapporto basata esclusivamente sulla distribuzione – così come proposto attualmente a una produzione casuale, individuale e carente di strumenti critici e professionali – determina per il distributore l’assunzione del ruolo di censore e di garante.
La crisi delle risorse finanziarie sembra inevitabilmente deprimere valori professionali come l’autorevolezza dell’informazione e la qualità della comunicazione visiva, quando si vedono sostituire al fotogiornalismo nuove fonti alternative o amatoriali più economiche, o semplicemente quando le varie fonti vengono poste in un’inevitabile competizione tra di loro; così come accade nel sollecitare nuove professionalità, per es. il mojo (mobile journalist, così definito negli Stati Uniti), ovvero il giornalista fornito di macchina fotografica digitale o di cellulare per poter confezionare contemporaneamente notizia e testimonianza visiva. In questi contesti la tendenza ad affidare l’informazione visiva sempre più al multimedia tradisce una generale scarsa qualità della fotografia in sé – poco più di una istantanea amatoriale di taglio didascalico – che richiede perciò di essere sostenuta dal suono e dal movimento della sequenza. Come se la tendenza a sostituire in qualche modo l’immagine fissa non fosse altro che la conseguenza diretta della rinuncia alle buone immagini fotografiche, cioè quelle che tendiamo maggiormente a ricordare perché particolarmente evocative e significative (A. Quart, Flickring out. Photojournalism in the age of bytes and amateurs, «Dispatches», July-August 2008, http://www.rethink-dispatches.com/essays/flickring-out-photojournalism-in-the-age-of-bytes-and-amateurs-july-august-2008, 27 marzo 2009).
Consapevole che nella cronaca del nuovo secolo l’accento è posto sull’esposizione alla tragedia, alla violenza, alla sofferenza, il fotogiornalismo occidentale assume con difficoltà la sfida proposta da realtà vitali e motivate come il citizen journalism o il ‘nuovo professionismo’ che si va attestando sempre più in tutto il pianeta. La conseguente messa in discussione del proprio ruolo di ‘testimone nel mondo’ viene condivisa all’interno delle associazioni di categoria, in quella rete autoreferenziale di scambio attiva nel web (dai blog dei singoli fotografi e delle agenzie fotografiche fino alle riviste specializzate) e nelle occasioni pubbliche di incontro, come, per es., le manifestazioni e i festival internazionali.
Il conflitto in vetrina
Festival, workshops e premi fotografici dedicati al fotogiornalismo, come il World press photo o il Visa pour l’image, sono luoghi privilegiati di incontro e discussione in cui l’autoreferenzialità rappresenta un valore: le politiche e gli investimenti dell’informazione, così determinanti per la visibilità del fotogiornalismo, sono lasciati, per così dire, fuori dalla porta e l’attenzione si concentra sulla qualità del mestiere e della produzione. Questi contesti confermano la valenza iconica della produzione autoriale, condivisa in una relazione quanto mai spettacolare, cosicché la concentrazione di sofferenza offerta in queste occasioni è quasi insopportabile. L’esposizione dell’immagine potente e spesso inedita di eventi di cronaca o di approfondimento sulle tante emergenze del nostro pianeta avviene attraverso le mostre, dove il grande formato delle immagini e la possibilità di un tempo lento di lettura dilatano il carico d’informazione ed emozione; come anche nelle proiezioni, che determinano un’esperienza percettiva diversa, ma non per questo meno coinvolgente.
Fuori dal contesto digitale l’aspetto emergente della fruizione del fotogiornalismo del 21° sec. riguarda infatti la messa in cornice della guerra nei musei, nelle gallerie specializzate, negli spazi autogestiti di agenzie e fotografi. E ciò pone una sfida problematica in termini di scelte ed equilibri (cfr. J. Stallabrass, Rearranging corpses, curatorially, «Photoworks», Oct.-April 2008-09, 11, pp. 4-9), nonché evidenti contraddizioni nel rispettare contenuti di sofferenza e di violenza e regole del mercato della fotografia d’arte, come la richiesta, per es., delle edizioni limitate delle stampe fotografiche dal medesimo negativo.
Da queste vetrine emerge inoltre una contaminazione di sguardi che indagano il conflitto. Negli stessi luoghi e sugli stessi avvenimenti convivono infatti diversi approcci: quello del fotogiornalismo contemporaneo e quello di autori provenienti da pratiche differenti, che ne leggono prevalentemente le conseguenze e le tracce nel paesaggio e nella popolazione una volta cessata l’emergenza. È quest’ultimo tipo di fotografia (sia essa di paesaggio o di ritratto, oppure documentaria e quindi caratterizzata da un taglio antropologico e sociale) ad aver scandito nel corso della seconda metà del Novecento la presenza dell’immagine fotografica negli spazi dell’arte, sperimentandone gli ambienti e creando in tal modo i presupposti della recente accoglienza del fotogiornalismo.
La conseguente ripresa nella produzione di cataloghi delle attività espositive e di libri fotografici sul fotogiornalismo indica, nella lentezza di questo medium tradizionale, un’apertura verso nuove direzioni per esplorare storie in profondità e affrontare aspetti per i quali non esiste spazio nei media convenzionali (magazine e quotidiani). A un’editoria raffinata e specializzata si affiancano le autoproduzioni, connotate in molti casi dal fecondo rapporto di scambio e da sinergie con le istituzioni attive nel campo del sociale e delle politiche umanitarie che hanno dimostrato di apprezzare l’attenzione e il valore comunicativo di tale fotografia, offrendo in cambio opportunità di accesso e logistica in realtà difficili e pericolose.
Gli esempi del migliore fotogiornalismo di guerra hanno spesso assunto una connotazione militante, antimilitarista e attiva nella difesa dei diritti umani. Essere esposti al rischio della guerra per testimoniarla è una scelta esistenziale e un’esperienza di vita di non facile gestione, come testimonia il grande fotogiornalista inglese Don McCullin (n. 1935) con il suo coinvolgente esempio e con la decisione di smettere, a cinquant’anni, per dedicarsi alla fotografia di paesaggio (cfr. D. McCullin, Sleeping with ghosts. A life’s work in photography, 1994). Un’altra modalità di reazione può consistere nella scelta di rimanere in contatto con i luoghi documentati, per contribuire a una cultura della pace con un lavoro sulla memoria e i traumi del conflitto volto a sensibilizzare le nuove generazioni. War photo limited è un’iniziativa autogestita da fotoreporter internazionali coinvolti nella guerra dei Balcani, che nel 2004 ha dato vita alla prima galleria al mondo di fotografia di guerra, individuando significativamente come sede Dubrovnik, bombardata nel 1991 a pochi mesi dall’inizio della guerra. Durante l’anno vengono prodotte attività espositive esportabili, dedicate soprattutto al pubblico dei giovani delle scuole e delle università. L’operazione di riflessione sulla memoria del conflitto, iniziata con i Balcani, si è andata allargando ad altri luoghi dolenti del mondo, offrendo spunti per dibattiti non convenzionali, come, per es., quello sullo sguardo femminile nella mostra autoprodotta nel 2006 Women war photographers.
La presenza delle donne fotoreporter nelle zone di guerra (attestata a partire dalla Prima guerra mondiale) ha ormai raggiunto numeri significativi, riscontrabili peraltro anche nel caso delle colleghe giornaliste, e ha contribuito ad allargare le prospettive di lettura dei conflitti. In tal senso sono da menzionare le rilevanti personalità professionali di Alexandra Boulat (1962-2007), cofondatrice dell’agenzia VII, tra le presenze più attive durante i conflitti nell’ex Iugoslavia, in ῾Irāq e soprattutto nei Territori palestinesi; di Susan Meiselas (n. 1948), da trent’anni nell’agenzia Magnum Photos, che con determinazione esemplare ha divulgato, attraverso le sue immagini e la sua presenza militante nelle occasioni di dibattito, le tematiche più scottanti dei conflitti da lei seguiti, dalla rivoluzione nicaraguense del 1978-79 fino al genocidio dei Curdi, tema al quale si sta dedicando dal 1991.
Testimonianze dal mondo in conflitto
La fotografia di guerra ha una propria storia, profondamente connessa all’evoluzione tecnologica dei media d’informazione, e continua ad alimentare un dibattito molto attivo. Opportunamente recepiti, tutti questi riferimenti potrebbero aiutare a evitare un pericolo che viene indicato da più parti, ossia la tendenza a un esercizio della professione fuori da un contesto etico, e quindi esso stesso vittima della barbarie.
In questo senso il lavoro e l’esempio di Robert Capa (pseud. di Endre Ernő Friedmann,1913-1954), definito il più grande fotografo di guerra al mondo e tra i fondatori dell’agenzia Magnum Photos, resta imprescindibile per i professionisti contemporanei e la sua affermazione «se una fotografia non è buona vuol dire che non eri abbastanza vicino» offre ancora spunti di riflessione nella lettura della produzione odierna.
Delegare la comunicazione del dolore a una visione individualistica ed esaltante delle proprie sensazioni, rispondendo così alla necessità essenzialmente espressiva del fotografo-testimone, è una tendenza dell’attuale editoria in quei prodotti (magazine d’approfondimento o femminili, principalmente) dove l’immagine suggestiva vince sulla cruda cronaca, anche nel racconto del conflitto. Tra gli stili di ripresa maggiormente apprezzati del fotogiornalismo autoriale predominano accorgimenti tecnici (l’uso del mosso, l’esposizione non corretta, l’out of focus) per contrastare formalmente l’oggettività e l’invadenza dell’immagine televisiva e della fotografia di attualità, ma anche per costruire immagini estetizzanti, disponibili per possibili e ulteriori utilizzi artistici.
As I was dying (2007) è l’eloquente titolo del libro fotografico dell’italiano Paolo Pellegrin (n. 1964), tra i più autorevoli rappresentanti del fotogiornalismo estremo (come sancito anche dai numerosi riconoscimenti e premi internazionali ottenuti), nonché membro dell’agenzia Magnum Photos. Il libro raccoglie le immagini realizzate in più di dieci anni nei teatri di guerra, dal Kosovo al Medio Oriente, dall’Afghānistān all’Irāq. Con una formazione maturata nell’Europa degli anni Ottanta e improntata a una profonda attenzione ai valori estetici e formali della visione e alla loro resa in fotografia, Pellegrin esprime un approccio vincente al fotogiornalismo di guerra. La qualità della sua fotografia, fortemente emozionale, dimostra un’elaborazione tecnica sofisticata in cui il bianco e nero giocato sui forti contrasti, l’uso del fuori fuoco, l’attenzione alle ombre e ai colpi di luce, si accompagnano a riprese estremamente ravvicinate, fino quasi a sovrapporsi agli stessi soggetti. Oppure, quasi fosse uno sguardo in fuga, a visioni laterali della scena. L’esito è una fotografia sapiente che, se pure ha alimentato il dibattito sull’etica della professione e sul confine tra interpretazione e registrazione dei fatti, riesce a dare voce alla sofferenza.
Soggettiva ed emotiva, questa fotografia produce visioni di guerra dalla drammatica impronta letteraria, che sembrano prendere ulteriore vigore quando vengono fruite in contesti artistici, piuttosto che giornalistici. È il caso della felice collaborazione con la musicista Patti Smith, autrice della canzone Qana, scritta nel 2006 in risposta all’attacco israeliano alla città libanese durante la guerra dello stesso anno: una potente sintonia caratterizza il video in cui le fotografie di Pellegrin, tratte dal suo libro Double blind. War in Lebanon 2006 (2007), prendono vita proprio dalla voce dell’artista newyorkese.
Inferno
«Sono stato un testimone e queste fotografie ne sono la prova. Gli eventi che ho documentato non dovrebbero essere dimenticati e non devono più ripetersi»: con questa affermazione si apre il sito di James Nachtwey (n. 1948), riconosciuto come il più autorevole e antimilitarista reporter di guerra vivente. Nel 2001 il film documentario War photographer di Christian Frei, vincitore di numerosissimi premi internazionali, lo ha reso una sorta di leggenda, celebre più delle sue stesse, potentissime immagini realizzate dall’inizio degli anni Ottanta nei luoghi più critici del pianeta. Il suo stile e le sue scelte riflettono le caratteristiche di una generazione che si è formata sulle immagini della guerra del Vietnam, la prima guerra dell’informazione televisiva. All’epoca il lavoro di grandi fotoreporter pubblicato dai giornali e dai magazine illustrati (tra gli altri Philip Jones Griffiths, Larry Burrows, Nick Ut, Eddie Adams) ha segnato un ulteriore sviluppo dell’uso della fotografia, intesa come contributo decisivo per un’informazione militante contro la guerra, e nutrita dalla terribile spettacolarità e soggettività del vissuto delle truppe al seguito delle quali i fotogiornalisti documentavano il conflitto.
Questa partecipazione presente in tutta la fotografia sociale americana degli anni Settanta (per es., nella documentazione del movimento per i diritti civili) è stata determinante per la posizione che Nachtwey, con una formazione in storia dell’arte e in scienze politiche, ha assunto sin dagli esordi, agendo consapevolmente e con dedizione assoluta su quella che ritiene la forza peculiare della fotografia, ossia la capacità di evocare un senso di umanità. E il contesto in cui ha verificato tale capacità è proprio quello in cui l’umanità viene annientata, ossia la guerra. Si può correre il rischio della morte quando l’obiettivo finale è la costruzione di immagini-icona che contrastino gli effetti dell’informazione diluita dei media, se la reazione alla loro vista arriva a scuotere le coscienze e induce a un confronto con le nostre responsabilità e il nostro silenzio. A chiusura del secolo e in controtendenza rispetto all’avanzata del digitale, Nachtwey ha pubblicato il voluminoso ed eloquente Inferno (1999), definito per dimensione, peso e contenuto «un cenotafio delle vittime dell’avidità umana verso il potere e la violenza e del suo istinto distruttivo» (B. Chalifour, From Inferno to war, a few considerations on James Nachtwey, VII, and war photography, «Afterimage magazine», May-June 2004, 31, 6, pp.4-5), che raccoglie dieci anni di dolore e ingiustizie nel mondo in una fotografia in bianco e nero il cui senso è inequivocabile e al tempo stesso universale. La straordinaria qualità iconica della sua fotografia è ottenuta attraverso un impianto compositivo che rimanda decisamente alla pittura classica, cui si accompagna un altrettanto deciso rigore tecnico che non può non investire il campo etico. Come nel caso dell’inquadratura originale dello scatto, sulla quale non interviene mai in fase di stampa nel rispetto dell’evento fotografato. Questo lavoro di pulizia nell’atto del fotografare non è solo formale, ma è sorretto da una forte concentrazione sul soggetto e sul dominio delle emozioni primarie, nella sfida, vincente, a non distogliere lo sguardo.
Fotografo a contratto della rivista «Time magazine» dal 1984, dopo aver collaborato con le agenzie Black Star e Magnum Photos, Nachtwey assieme agli altri colleghi dell’agenzia indipendente VII (con i quali condivide l’idea di una responsabilità etica nel comunicare i più importanti e difficili avvenimenti del nuovo secolo) nel 2004 ha pubblicato War: USA-Afghanistan-Iraq. Il volume e i fotografi affrontano, con la stessa proposta editoriale di Inferno, la complessa sfida di una testimonianza collettiva, articolata attraverso la scelta e il montaggio di circa trecento immagini, al fine di riflettere su uno dei capitoli più drammatici di questi primi anni del nuovo secolo, iniziato l’11 settembre 2001. Quest’opera presenta soggetti molto variegati: dall’attacco alle Twin Towers alle sue conseguenze sul quotidiano, fino agli eventi provocati dalla politica estera statunitense, ossia la guerra in Afghānistān e l’occupazione dell’Irāq.
La guerra USA-῾Irāq
Iniziato nell’aprile 2003, il conflitto USA-῾Irāq può essere definito la prima guerra testimoniata dall’era digitale. In una sorta di fatale meccanismo consequenziale sono emersi contemporaneamente più fattori: dalla disponibilità di una tecnologia favorevole, come nel caso del telefono satellitare (per la prima volta ampiamente impiegato nella cronaca del conflitto e perfettamente rispondente alla necessità da parte dei media di una copertura dell’informazione ‘24 ore su 24’) al sistema di giornalisti embedded, cioè al seguito dell’esercito, costruito per rispondere sul campo alla richiesta di notizie. Tutti elementi che hanno prodotto un’intensa, spettacolare, quanto mai inquietante, ma limitata visione del conflitto.
Le maggiori peculiarità dell’immagine di guerra nel nuovo secolo risultano evidenti nei suoi due estremi: la produzione del fotogiornalismo professionale embedded da un lato e quella amatoriale dei soldati e dei civili dall’altro. A conti fatti, nonostante la guerra in ῾Irāq sia stata in assoluto la più documentata (con la presenza del doppio dei giornalisti rispetto a quella del Vietnam), alla valanga di fotografie prodotte dal fotogiornalismo per soddisfare l’informazione a getto continuo di televisioni e testate giornalistiche (carta stampata e siti web) non ha invece corrisposto, in Occidente, una significativa produzione di immagini-icona condivisibili nella nostra memoria collettiva e rappresentative di questa guerra. Mentre, di contro, quelle amatoriali scattate dai soldati americani ad Abū Ghraib nel 2003 si sono significativamente imposte, contro la volontà dei loro produttori, in entrambe le zone in conflitto: come icone contro la guerra e la sua oscenità per la sensibilità occidentale, oppure come icone delle umiliazioni inflitte dal nemico per molti media arabi.
Alla luce dei più recenti e profondi cambiamenti intervenuti nei rapporti tra strategia militare, conduzione della guerra, uso dei media e delle loro tecnologie, l’embedding agreement – l’accordo che regola la presenza dei professionisti dell’informazione sul territorio, ‘incardinandola’ all’interno delle truppe militari per garantirne la mobilità anche nelle zone più rischiose – è stato definito «la maggiore innovazione militare del Pentagono nei confronti dei media» (J. Stallabrass, The power and impotence of images, in Memory of fire, 2008, p. 5). Per la comunità giornalistica internazionale l’esempio degli Stati Uniti delinea un preoccupante scenario dell’informazione nei contesti bellici, che vede sostituire il controllo fisico degli operatori (e quindi del loro punto di vista) alla censura esplicita di vecchia memoria. Una strategia che incoraggia la visione partecipe e univoca, attraverso la condivisione di circostanze pericolose e in una stretta e forzata convivenza, e inevitabilmente induce nei giornalisti una forte identificazione e senso di gratitudine verso quei soldati che vedono impegnati nel doppio ruolo di aggressori e protettori. L’elevato rischio dell’incolumità fisica e la conseguente crescita esponenziale del numero di morti nel corso del conflitto hanno sottoposto gli operatori del settore a un alto fattore di stress. A dicembre 2008 l’organizzazione di Reporters sans frontières riportava il bilancio complessivo, dall’inizio della guerra, di 222 morti, 2 scomparsi e 14 sequestrati tra giornalisti e collaboratori dei media d’informazione; mentre il rapporto del CPJ (Committee to Protect Journalists) permetteva di analizzare i propri dati per categorie molto articolate, lasciando quindi aperto il bilancio complessivo alla valutazione della casistica. Se ciò rende complessa la comparazione tra le due fonti, il dato significativo condiviso è che la gran parte delle vittime tra i giornalisti sono collaboratori freelance locali, sotto contratto con i media arabi oppure utilizzati da quelli occidentali per superare ostacoli linguistici, logistici e non da ultimo finanziari.
Il ricorso alle risorse locali, e di conseguenza l’inevitabile riduzione dei corrispondenti inviati, è in assoluto una delle grandi novità dell’attuale giornalismo di guerra. Nel caso del fotogiornalismo le maggiori agenzie di stampa hanno implementato il loro staff con fotografi locali, contribuendo in questo modo alla loro maggiore visibilità e a una più diffusa professionalizzazione del territorio. Tale tendenza è testimoniata anche dai riconoscimenti internazionali che molti fotogiornalisti di quell’area del mondo hanno ottenuto negli ultimi anni.
Le difficoltà del lavoro embedded in ῾Irāq sono state testimoniate in modo critico da diversi e autorevoli giornalisti occidentali (ricca la bibliografia a riguardo sin dal 2003). Forzato nella documentazione unilaterale del conflitto, il corrispondente embedded, pur esponendosi al rischio della testimonianza ravvicinata, ha implicitamente assecondato il meccanismo di censura, messo in atto dagli stessi media americani nell’osservare regole che riguardano più il controllo dell’informazione che lo spirito di servizio; ciò ha influenzato pesantemente la produzione fotografica, anche quella unembedded, e quindi l’immagine stessa del conflitto. Inoltre, poiché il mercato americano è l’interlocutore principale sia per le agenzie fotogiornalistiche internazionali sia per i fotogiornalisti indipendenti in assignment, queste scelte hanno avuto un impatto considerevole su tutta l’informazione visiva occidentale. In questo contesto una luce particolare assume la decisione di assegnare, nel 2005, il prestigioso premio Pulitzer (la massima onorificenza statunitense per il giornalismo), per la sezione Breaking news photography, all’intero staff di fotografi dell’AP-Associated Press di stanza in ῾Irāq «per la sua impressionante serie di fotografie sul sanguinoso anno di combattimenti nelle città irachene». Una menzione quantomeno in controtendenza, che valorizza un’immagine del conflitto estremamente vivida, così come testimoniato dagli archivi on-line dell’agenzia.
Gli interrogativi sul futuro dell’Irāq e la negoziazione in corso per porre fine all’occupazione militare non riguardano il fotogiornalismo di guerra, che lascia un Paese non ancora pacificato richiamato da altre emergenze nel mondo. Nel processo di analisi e ricostruzione storica del conflitto, così come nelle scadenze commemorative ricordate dai media, emerge però la necessità di rileggere contesti e contenuti della produzione giornalistica, oltre i limiti imposti dall’embedding. Questa riflessione favorisce la valorizzazione dell’esperienza giornalistica effettuata, in un processo che consente il recupero dei materiali che a suo tempo non trovarono spazio e visibilità. Uno degli esiti auspicabili potrebbe essere quello di riconoscere a posteriori le immagini-icona più significative per collocare nella storia e nella nostra memoria un conflitto percepito erroneamente come molto, troppo virtuale.
Rispetto alla produzione fotogiornalistica acquista un particolare significato il meccanismo di rilettura e selezione che avviene attraverso la riconsiderazione degli ‘scarti’ (le fotografie accantonate di situazioni comunque documentate) che possono arricchire i servizi fotografici di inedite sequenze e nuovi racconti per un quadro più completo del conflitto. È il caso dell’agenzia internazionale Reuters, presente durante i cinque anni di guerra nel Paese considerato più pericoloso per l’informazione, con oltre cento persone in vari ruoli, e che ha autoprodotto nel 2008 un progetto di rivisitazione delle testimonianze dei suoi corrispondenti fruibile in rete (Bearing witness: five years of the Iraq war). Emergono inoltre tante iniziative individuali significative, in cui fotogiornalisti di chiara fama prendono posizione sul conflitto proponendo, in contesti più informali e interdisciplinari, una scelta personale della propria produzione, dando visibilità a quelle fotografie cercate e scattate nonostante tutti gli impedimenti. È il caso dell’italiano Francesco Zizola (n. 1962), pluripremiato e riconosciuto esponente del fotogiornalismo indipendente internazionale e cofondatore dell’agenzia Noor. Della sua articolata esperienza in ῾Irāq, dove si è recato più volte come giornalista indipendente, ha scelto di valorizzare il difficile e pericoloso lavoro svolto nei primi tre mesi del conflitto in cui, unembedded, ha testimoniato i devastanti effetti della strategia militare americana dalla prospettiva della popolazione irachena. Nel 2007, in collaborazione con l’organizzazione umanitaria Amnesty international, ha pubblicato il libro fotografico Iraq, e una parte delle immagini è stata esposta a Roma nel 2009 durante l’evento Funerale della guerra – War funeral, organizzato in occasione dell’insediamento del 44° presidente degli Stati Uniti Barack Obama.
Una guerra contro le immagini di morte
A cinque anni dall’inizio del conflitto e a fronte di oltre 4000 militari americani deceduti, negli Stati Uniti sono state pubblicate non più di una mezza dozzina di fotografie che presentano corpi senza vita di soldati americani. Eppure i divieti dell’embedding agreement hanno riguardato piuttosto il rientro delle bare coperte dalla bandiera americana e non, come si potrebbe pensare, le immagini esplicite di cadaveri, rispetto alle quali è stato solo indicato di controllare i tempi della loro diffusione per consentire la comunicazione ufficiale dei decessi alle famiglie. Nel corso del conflitto, le regole create dal comando militare americano prima dell’invasione sono state continuamente messe in discussione dai militari in azione e dagli stessi responsabili dei media, e sono andate mutando nel tempo in funzione dell’esercizio di un maggiore controllo. Dalla primavera del 2007, per es., nel caso di immagini che ritraggano soldati feriti, anche gravi, è diventato necessario che coloro che appaiono nelle fotografie ne autorizzino la diffusione. Ciò che sembrerebbe rientrare in un’interpretazione scrupolosa del diritto alla privacy rende di fatto il diritto di cronaca inapplicabile nei teatri di guerra e contribuisce a quell’autocensura collettiva, i cui meccanismi sono complessi e non chiaramente individuabili nel loro svolgersi. Negli Stati Uniti, nonostante il vasto movimento di opposizione sostenuto da avvocati per le libertà civili e da giornalisti, non solo il diritto all’informazione sui costi umani del conflitto non è stato rispettato, ma è risultato sempre più sgradito nei sondaggi, che in più occasioni hanno definito l’argomento impopolare. Nel discriminare tali immagini si avverte quanto giochi un ruolo rilevante il fattore emotivo, sia per i militari sul posto, che si appellano a motivi di sicurezza e rispetto per i compagni caduti e per le loro famiglie, sia per i giornali, che non le pubblicano adducendo questioni di strategia condivisa.
Il caso del fotogiornalista freelance statunitense Zoriah Miller (n. 1976), disembedded nel luglio 2008, ossia espulso da tutte le postazioni militari in ῾Irāq e immediatamente rimpatriato, è stato riportato dal «New York Times» come emblematico dei continui sforzi operati dal comando militare americano per tenere separata l’opinione pubblica americana dal resto del mondo. Non si tratta del primo giornalista disembedded, ma del primo che ha sfidato apertamente il sistema di controllo osservandone scrupolosamente le regole scritte. I fatti indagati da un’apposita inchiesta militare appaiono sostanzialmente chiari: Miller durante un pattugliamento si trova sulla scena di un attentato suicida a Garma, nella provincia di al-Anbār, in cui muoiono venti civili e tre marines e, pur ostacolato nelle riprese, ne produce una testimonianza. Si opporrà alla prima immediata richiesta di distruggere i file di alcune fotografie dove sono presenti le vittime americane, dopo averle sottoposte ai compagni dei militari morti e verificato che non siano riconoscibili. Seguendo le regole, attende tre giorni per pubblicarle on-line sul suo sito e a una nuova richiesta del comando militare di toglierle oppone un ostinato rifiuto. L’approccio deontologico arriva a scontrarsi con l’interpretazione militare, svelandone l’assoluta discrezionalità: le immagini vengono giudicate offensive della memoria e del sacrificio delle vittime e il dibattito mediatico a riguardo liquidato in quanto pretestuoso. L’embedding agreement di fatto è solo una cornice di riferimento poiché «esiste un margine affinché i comandanti possano esercitare il loro giudizio e prendere le loro decisioni sulla base di una valutazione fatta sul momento con le informazioni disponibili, il che fa parte di quello che (normalmente) fa un comandante», come ha dichiarato il colonnello Steve Boylan, ufficiale addetto ai rapporti con il pubblico per conto del generale David H. Petraeus, comandante in capo in ῾Irāq (M. Kamber, T. Arango, 4000 U.S. deaths, and a handful of images, «The New York Times», July 26, 2008). A oggi nel territorio iracheno assieme a 150.000 soldati americani sono presenti una mezza dozzina di fotogiornalisti occidentali.
Esempi di concerned photography negli Stati Uniti
Tra i fotogiornalisti rimasti a casa, diversi hanno sentito l’urgenza di superare le costrizioni dell’informazione embedded, indagando i costi bellici e gli effetti del conflitto su alcuni valori condivisi, come, per es., il patriottismo. Il divieto di fotografare il rientro delle vittime (quindi di mostrare bare coperte dalla bandiera americana) è stato superato dalla scelta di Andrew Lichtenstein (n. 1965) di dar voce alla propria rabbia verso questo conflitto fotografando in tutto il territorio nazionale circa sessanta funerali, dal novembre 2003 alla fine del 2006, periodo in cui la guerra era ancora popolare e sostenuta dall’idea di una vittoria vicina, i media poco critici e il Pentagono meno sulla difensiva. Dei funerali di Stato ai quali ha assistito riporta l’intensità dell’evento personale e pubblico, la coreografia e il simbolismo fortemente codificati della cerimonia come la reazione sempre diversa dei familiari di questi giovani soldati. Si tratta di immagini dal forte impatto emotivo, scioccante e inedito per il pubblico americano abituato a un’immagine edulcorata del conflitto: Lichtenstein, infatti, non ha trovato nel suo Paese sostegno per la pubblicazione di Never coming home, destinato a divenire una pietra miliare della documentazione del conflitto USA-῾Irāq. Significativamente è stata invece la sensibilità europea a confrontarsi con questo lavoro, esprimendo posizioni anche contrastanti: riconoscendone il valore (l’editore del libro, pubblicato nel 2007, è italiano) come pure sottolineandone l’eccesso emotivo, giudicato da alcuni non necessario, scontato, gratuito. A conferma del fatto che Never coming home risponde all’urgenza di far riflettere andando oltre l’immediatezza di una fotografia di guerra, definita dal suo autore pornografica perché solo virtualmente coinvolgente, ma sostanzialmente inefficace nel far comprendere cosa sia effettivamente la guerra e quali siano i suoi costi umani.
Lichtenstein appartiene a quella tipologia di fotografi americani che si collocano nella tradizione della documentary photography, noti per la loro lettura impegnata e politica del contemporaneo, e che lanciano un segnale in controtendenza nel rivolgere le loro indagini al mondo che li circonda, piuttosto che a realtà lontane. Ciò rappresenta un’indicazione rilevante per il fotogiornalismo in quanto la loro sperimentazione verifica sul campo le indicazioni più innovative provenienti dal dibattito che si tiene nelle più autorevoli sedi di riferimento della fotografia contemporanea, come la rivista on-line «Dispatches». Nina Berman (n. 1960), il personaggio più rappresentativo di questa tendenza per la sua attiva presenza in tale dibattito e nella divulgazione del fotogiornalismo, militante della comunità di giornalismo indipendente on-line Alternet.org, agli inizi della professione aveva lavorato sugli effetti della guerra sofferti dalle donne in Afghānistān. Dopo l’11 settembre 2001, la fotografa ha deciso di esplorare gli Stati Uniti e ciò che meno ama dell’identità americana: il militarismo, il patriottismo e la fragilità sociale espressi nelle misure speciali antiterrorismo stabilite dall’Homeland security act (2002). Homeland (2008) è appunto il titolo del libro che ne raccoglie un primo esito, dove il fantasma e il fantastico della guerra prendono forma nei comportamenti sociali, oltre le intenzioni degli stessi attori. Il precedente volume Purple hearts. Back from Iraq (2004) propone invece una lettura cruda e al tempo stesso compassionevole dei segni del conflitto USA-῾Irāq sui soldati rimpatriati perché gravemente feriti, attraverso i ritratti e le interviste. A guidare questo esempio di concerned photography è la volontà di dare una risposta politica alla scarsità di informazioni fornite dai media nazionali sulle ferite, non soltanto metaforiche, inflitte dalla guerra.
The Marlboro marine: un caso mediatico
Anche questa guerra ha avuto la sua vittima mediatica, il suo ‘soldato Ryan’. Conforme alle aspettative dell’embedding e ribattezzato in modo eloquente The Marlboro marine, il primissimo piano del volto bello e provato di un soldato, James Blake Miller, 21 anni, del Kentucky, con una sigaretta tra le labbra, fotografato dopo la dura battaglia di Falluǧa del novembre 2004 dal corrispondente del «Los Angeles Times» Luis Sinco, finì sulle prime pagine di ben 150 quotidiani americani, provocando la forte partecipazione emotiva dei lettori. L’icona della campagna irachena nelle sue prime fasi venne poi identificata e rimandata a casa per motivi di sicurezza personale, verso un destino non previsto di progressiva emarginazione e solitudine. Miller cominciò a bere e a soffrire di disturbi da stress post-traumatico, come migliaia di altri veterani di questa e altre guerre, e finì di nuovo sui giornali, a un anno di distanza, per un episodio di aggressione verso un collega mentre era in servizio nelle zone devastate dall’uragano Katrina. Sinco, nel frattempo tra i finalisti del premio Pulitzer 2005 proprio per la fotografia del marine, chiese di occuparsi del giovane per conto del giornale, fotografandolo nei momenti più intimi e registrandone la voce, nonché accompagnandolo personalmente nei centri di riabilitazione e seguendolo nelle fughe. Regolarmente documentato dal «Los Angeles Times», il caso paradossale del marine glorificato e poi rifiutato dallo stesso esercito ha avuto una risonanza internazionale: Miller è tornato a essere un simbolo, ma di segno opposto, di una guerra messa in discussione anche in patria. Frutto di una scelta di condivisione estrema tra soggetto e fotografo, il toccante photo essay (fotodocumentario) di 10 minuti che ne è infine derivato (e che ha ottenuto prestigiosi riconoscimenti) solleva un importante quesito. Ossia se la volontà di continuare a documentare dell’autore-fotografo sia conseguenza del suo ruolo nell’informazione embedded (le cui immagini mostrano spesso la speciale relazione con le truppe) oppure se riveli, invece, il suo forte legame con la concerned photography che proprio negli Stati Uniti ha avuto origine. Il prodotto, il racconto-sequenza delle fotografie animate dalla voce dolente del protagonista e da una struggente musica country, composta e suonata alla chitarra dallo stesso Miller, ha comunque ottenuto un indubbio successo mediatico, rivelandosi testimonianza giocata su un registro nello stesso tempo individualista ed epico.
Testimonianze involontarie
L’urgenza di restituire una realtà invece complessa e articolata come quella di un territorio in guerra, rinnovando gli strumenti del fotogiornalismo, ha guidato due diversi progetti (diventati libri, siti web e installazioni ospitate in musei) del fotogiornalista olandese Geert Van Kesteren (n. 1966), presente in ῾Irāq sin dall’inizio del conflitto come freelance per conto di magazine come «Newsweek» e «Stern». Nel libro Why mister, why? (2004), titolo che sottolinea l’incomprensione del popolo iracheno verso il proprio penoso destino di guerra, Van Kesteren propone, attraverso una vasta selezione di sue fotografie scattate tra il 2003 e il 2004, uno sguardo indipendente, concentrato sull’impatto del conflitto sui civili e volto a propiziare una lettura consapevole del contesto, secondo la migliore tradizione della concerned photography (Memory of fire, 2008). A rispondere con interesse è stata soprattutto la comunità del fotogiornalismo internazionale, che ha premiato in più occasioni il libro, mentre il fotografo ha ottenuto l’ingresso nella prestigiosa agenzia Magnum Photos. Più innovativo nell’articolazione dei materiali proposti, Baghdad calling (2008) è nato dall’attenzione di Van Kesteren verso i rifugiati iracheni costretti a lasciare il Paese, da lui fotografati in Siria, Giordania e Turchia nel 2007. Il tema, già affrontato da altri colleghi (per es., il fotogiornalista afghano Zalmai Ahad), in questo caso prende vita dalla frustrazione del fotografo posto di fronte a una sofferenza da lui stesso dichiarata ‘non fotogenica’, in quanto vissuta nell’anonimato dell’esistenza quotidiana e quindi fuori dal teatro della guerra e dalla drammaticità degli eventi. Accanto alle interviste, nel progetto trovano progressivamente spazio le fotografie scattate dai rifugiati con il telefono cellulare o con macchine digitali amatoriali di cui Van Kesteren intuisce la forza. Sollecitato da una infinita catena di contatti, il fotografo ha raccolto centinaia di foto digitali, anche attraverso siti on-line di informazione, social networks e blog, sottoponendole a una meticolosa verifica. In questo incontro il dialogo tra culture e supporti diversi, tra fotografia amatoriale e professionale riesce a far scaturire una visione più articolata e umana del conflitto, delineando così un’ulteriore possibilità del fotogiornalismo.
L’altro tipo di fotografia amatoriale che si è rivelata più che mai protagonista di questa guerra è quella prodotta dai soldati. L’informazione giornalistica internazionale ha dovuto fare i conti con tale produzione, ponendola sotto osservazione, in alcuni casi fino a riorganizzarla. Favoriti da una tecnologia sempre più economica e facile da usare, la maggior parte dei soldati cui è stato concesso, sin dall’inizio del conflitto, di portare con sé strumenti a uso personale come macchine fotografiche digitali, nonché di accedere liberamente a Internet per comunicare con i propri cari, ha potuto descrivere la sua esperienza della guerra mediante le immagini inviate alle famiglie, agli amici, ma anche alle comunità virtuali del web. «GQ», rivista americana leader del settore maschile, ha raccolto migliaia di fotografie mandate dal suo pubblico di soldati al fronte (amatori o fotografi in servizio), proponendone una selezione nel libro This is our war. A soldiers’ portfolio. Servicemen’s photographs of life in Iraq (2006). In questo caso l’operazione giornalistica appare discutibile perché tradisce una radice goliardica autoreferenziale, accolta e sublimata nei suoi riferimenti culturali e visivi, ma ripulita di ogni inquietudine e di ogni dubbio. A riprova di quanto manipolabili siano i contenuti dell’immagine fotografica, in particolare quando all’esercizio dell’obiettività si sostituisce l’atteggiamento acritico.
L’immagine oscena della guerra
Rispetto all’immagine offerta dal fotogiornalismo embedded, la produzione amatoriale può rivelare il lato oscuro della guerra. Il Pentagono non aveva previsto l’ondata d’urto di ciò: con preoccupazione e solo tardivamente è stato chiesto ai soldati di sospendere l’immissione in rete dei materiali visivi (foto e video) da loro prodotti. Di fronte a un vero e proprio fenomeno mediatico, quello del soldato dietro l’obiettivo, le autorità avevano, per un certo tempo, «chiuso un occhio» (come è stato riferito dalla BBC), mentre in rete circolavano immagini inoffensive accanto a oscenità, glorificazioni della guerra, violenze. Sottoposte al nostro sguardo, quelle immagini, definite dalle stesse autorità «di cattivo gusto», sono un’eloquente testimonianza della limitatezza di strumenti culturali e dell’assoluta mancanza di consapevolezza di chi le ha prodotte, veicolo di ideologie, stereotipi e pregiudizi. Prodotte senza filtri e autocensure, ma anche senza gli strumenti professionali del fotogiornalista.
Eppure, è stata proprio questa produzione fotografica autoreferenziale a fornire un’immagine assolutamente inedita e quanto meno dissonante dei soldati americani, a rendere intollerabili gli iniziali tentativi di copertura da parte del Pentagono circa il sistema di trattamento adottato verso i prigionieri di guerra iracheni nella prigione di Abū Ghraib. Involontariamente nel maggio 2004 si è consentito ai media di alzare il velo e coinvolgere l’opinione pubblica, non solo americana, in una dolorosa presa di coscienza, testimoniata dalla presenza di innumerevoli riflessioni individuali e di dibattiti in tutti i canali d’informazione e nel web. Mentre la foto del prigioniero incappucciato in piedi su una scatola con gli elettrodi in mano ha denunciato la pratica della tortura ed è divenuto il simbolo di un ampio dissenso verso la guerra, questo drammatico scenario ha provocato l’intervento di molte voci autorevoli. Tra le più stimolanti quella provocatoria di Slavoj Žižek: ricordando le dichiarazioni del presidente americano George W. Bush, tese a circoscrivere l’episodio e riconfermare la fiducia verso l’esercito e nei valori della democrazia, il filosofo e sociologo sloveno sostiene che in nessun modo è in discussione il concetto di democrazia (L’oscenità del potere, in America oggi. Abu Ghraib e altre oscenità, 2005, pp. 64-80). Questo episodio, in realtà, rivelerebbe «i vari aspetti osceni del lato nascosto della cultura popolare statunitense» (p. 69). In una sorta di ‘teatro della crudeltà’, le foto di Abū Ghraib riflettono i rituali iniziatici di tortura e umiliazione a cui ci si deve sottoporre, per es., per essere accettati da un circolo esclusivo. Con la differenza sostanziale che in questo caso non vi è libera scelta da parte della vittima, ma il rituale è il segno della sua esclusione, e che, nel contesto militare, gli aguzzini si sentono ulteriormente «legittimati da una versione specifica dell’osceno ‘Codice Rosso’» (p. 73), ossia la regola non scritta dell’esercito che autorizza a picchiare segretamente un soldato che abbia infranto le regole etiche dei marines. Per Susan Sontag le fotografie di Abū Ghraib, scattate con soddisfazione, ‘per divertirsi’, sono sì il prodotto di una convergenza fra tortura e pornografia (e viene ricordato peraltro quanto la sofferenza a sfondo sessuale sia da sempre la forma di tortura più comune, manifestazione di potere assoluto nei confronti di essere inferiori e spregevoli), ma soprattutto «sono noi», ossia sono rappresentative della politica dell’amministrazione Bush e della fondamentale corruzione del dominio coloniale da un lato, e della pratica fotografica collettiva generata dal digitale e dal web dall’altro (Regarding the torture of others, «The New York Times», May 23, 2004; trad. it. in Portfolio 2004. Un anno di foto, 2004, pp. 4-7).
Circolano nel web, a testimoniare l’oscenità del nostro mondo contemporaneo e della guerra, molte altre immagini terribili, rifiutate dalla stampa ufficiale, nate con intenti che poco hanno a che vedere con l’informazione giornalistica: immagini di morte, proibite, come già detto, dallo stesso comando militare americano, dettagli di corpi violati, dilaniati con spaventosa efficienza dalle munizioni di ultima generazione. Superando i confini stessi del fotogiornalismo, Thomas Hirschhorn (n. 1957), con la sua forte personalità artistica e politica le ha scelte, ingrandite e organizzate in una imponente installazione, uno striscione lungo 18 metri esposto al Brigthon Photo Biennal nel 2008, dal titolo The incommensurable banner. Svelando una sorta di patto perverso tra l’estremo esercizio del potere delle armi e il circuito occulto delle immagini proibite, l’artista ci chiede di riflettere sulle politiche di questa esclusione: continuare a nasconderle significa rendersi complici, quindi l’esposizione di questo orrore rappresenta forse l’unica, seppur brutale, possibile risposta.
Bibliografia:
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B. Katovsky, T. Carlson, Embedded. The media at war in Iraq, Guilford (Conn.) 2003.
S. Sontag, Regarding the pain of others, New York 2003 (trad. it. Milano 2003).
R. Hariman, J.L. Lucaites, No caption needed. Iconic photographs, public culture, and liberal democracy, Chicago 2007.
Memory of fire. The war of images and images of war, ed. J. Stallabrass, Brighton Photo Biennal, Brighton 2008.
F. Ritchin, After photografy, New York 2009.
Per ulteriore documentazione sul fotogiornalismo si vedano i seguenti siti web: www.photographyandatrocity.leeds.ac.uk; www.camerairaq.com; http://mediastorm.org.