FOTOGRAFIA (dal gr. ϕῶς, ϕωτός "luce" e γράϕω "scrivo")
Processo fotochimico di riproduzione delle immagini che si formano in una camera oscura. I sali d'argento, che con la gelatina formano la cosiddetta emulsione sensibile delle lastre e delle pellicole, per azione della luce vengono modificati in modo che, sviluppando e fissando con soluzioni speciali, si ottiene una negativa in bianco e nero che, per disegno, corrisponde perfettamente all'immagine policroma data dalla camera oscura, ma è più opaca in corrispondenza dei punti più luminosi, più trasparente in corrispondenza dei meno luminosi dell'immagine stessa. Dalla negativa si ottengono copie positive su carta, lastra o pellicola coperta da un'emulsione sensibile simile a quella delle negative, facendole impressionare dalla luce attraverso la negativa (operazione della stampa) e poi trattandole in modo analogo alle negative. Con processi speciali si ottengono anche fotografie che riproducono i colori naturali. La riproduzione del disegno del soggetto è funzione della camera oscura. Il processo fotografico propriamente detto riproduce, invece, le diverse gradazioni di chiaroscuro del soggetto stesso, in modo da dare all'occhio un' impressione corrispondente il più esattamente possibile a quella che esso riceve direttamente dal soggetto. È considerata come un ramo separato della fotografia la cinematografia (v. cinematografo) e sono pure considerate a parte la fotografia del cielo (v. cielo, X, p. 229), la microfotografia (v.), la radiofotografia (v. raggi x), la fotogrammetria (v.) e le arti grafiche fotomeccaniche (v. grafiche arti), per la stretta connessione che ciascuna di esse ha con altre tecnologie e con scienze diverse.
Storia. - Il primo accenno alla camera oscura è quello fatto da Aristotele il quale, nei Problemata, dice che i raggi del sole che passano per un'apertura quadrata formano un'immagine circolare, la cui grandezza aumenta con l'aumentare della distanza dal foro. Lo stesso fenomeno fu descritto da Ruggero Bacone nel 1267 (De multiplicatione specierum, II, cap. 80) e alla fine del sec. XIII era utilizzato per osservare più comodamente le ecclissi di sole, come è detto in un almanacco del 1290 di Guglielmo di Saint-Cloud (ms. 7281 fondo latino della Bibliothèque Nationale di Parigi). Sembra che queste osservazioni si compissero in un locale poco illuminato; in ogni modo, tale rudimentale camera oscura non serviva per oggetti terrestri.
La prima descrizione veramente precisa e completa della camera oscura (fig. 1) nel senso moderno della parola fu fatta da Leonardo da Vinci nel Cod. D. f. 8. Dopo la morte di Leonardo (1519), Cesare Cesariano nei Commenti a Vitruvio (Como 1521) descrisse in modo simile la camera oscura, attribuendone la scoperta a un Pafnuzio, monaco benedettino. Il messinese Francesco Maurolico, nei suoi Photismi de Lumine et Umbra ad Perspectivam et radiorum incidentiam facientes (scritti nel 1521, ma pubblicati a Napoli nel 1611) studiò dal punto di vista matematico il passaggio della luce attraverso piccole aperture.
G. B. Dalla Porta nel capit. II della prima ed. dei suoi Magiae naturalis libri XX (Napoli 1558) descrisse la camera oscura senza lente; nella seconda (Napoli 1589) quella con lente. Per la grande popolarità del libro fu attribuita al Porta la scoperta di cose che aveva semplicemente descritte; fra l'altro, egli passò per inventore della camera oscura. Anche la camera oscura con lente piano-convessa era stata descritta, prima che dal Porta, dal veneziano Daniello Barbaro nella sua Pratica della Prospectiva (Napoli 1568) e da G. B. Benedetti, nel 1585. Kepler studiò la camera oscura, sia teoricamente sia sperimentalmente, e nella sua Dioptrice (1611) notò i vantaggi dell'obiettivo formato da una lente convergente e da una divergente.
Le prime nozioni sull'azione fotochimica della luce (vedi fotochimica) risalgono anch'esse ad Aristotele. In scritti attribuiti all'alchimista arabo Gebel (v.), appare l'osservazione che il nitrato d'argento si oscura con l'esposizione alla luce. Nel 1556 Giorgio Fabricius osservò l'oscuramento del cloruro d'argento. Ma il primo a dimostrare sperimentalmente che l'oscuramento dei sali d'argento è dovuto realmente alla luce e non all'aria fu, nel 1727, J. H. Schultze. Nel 1763 W. Lewis e nel 1777 C. W. Scheele studiarono ancora l'azione della luce sul nitrato d'argento; lo Scheele trovò anche che i raggi azzurri e violetti erano più attivi dei rossi. Nel 1801 J. W. Ritter scoprì i raggi ultravioletti per mezzo della loro azione fotochimica. Th. Wedgwood (1771-1802) insieme con H. Davy, ripeté le esperienze dello Schultze col nitrato e riuscì a prendere le impronte di foglie, ma non a riprodurre le immagini della camera oscura. Davy scoperse che il cloruro d'argento è più sensibile del nitrato e, con una carta preparata con esso, concentrando la luce con un microscopio solare (fig. 2), riprodusse le immagini di piccoli oggetti. Però né l'uno né l'altro riuscirono a sciogliere il sale d'argento non alterato dalla luce, cioè a fissare l'immagine.
Il primo ad ottenere immagini durevoli (sembra nel 1822) e ad applicare alla fotografia la camera oscura fu Joseph Nicéphore Niepce (1765-1833; v.), il quale scoprì che il bitume di Giudea sotto l'azione della luce diventa insolubile e, sciogliendo il bitume nell'olio di Dippel oppure nell'essenza di lavanda e stendendone uno strato su una lastra di pietra o di metallo, preparò delle lastre sensibili che esponeva sotto un disegno trasparente e fissava sciogliendo nuovamente con petrolio ed essenza di lavanda il bitume rimasto inalterato. La lastra, trattata con un acido, poteva servire per stampare l'immagine in un torchio tipografieo. Talvolta, per colorire l'immagine, egli esponeva la lastra metallica ai vapori di iodio. Uno dei primi disegni riprodotti in tal modo è quello della fig. 3. Nel 1826 il Niepce riuscì a servirsi con successo della camera oscura. Egli aveva bisogno di pose lunghissime (da sei ad otto ore).
Il pittore Louis-Jacques-Mandé Daguerre (1787-1851; v.) cominciò nel 1824 a cercare il modo di riprodurre le immagini della camera oscura. Venuto a conoscenza degli studî del Niepce entrò in relazione con lui e il 5 dicembre 1829 i due firmarono un contratto di società. All'epoca della morte del Niepce, e forse anche prima, il Daguerre cominciò a sperimentare un nuovo processo; nel 1835 era in grado di comunicare i primi successi. Secondo il processo del Daguerre (dagherrotipia) si preparava dapprima una lastra d'argento oppure di rame, lucidandola accuratamente ed esponendola ai vapori di iodio. Quest'operazione si compiva in una scatola (fig. 4) dentro la quale si facevano evaporare cristalli di iodina e al cui coperchio si assicurava la lastra. Si formava così dello ioduro d'argento e la lastra diventava azzurra, dopo di che la si esponeva nella camera oscura. Daguerre scoprì che, sebbene anche con esposizioni di 3 o 4 ore si formasse un'immagine appena visibile, bastavano pose di 3 o 4 minuti soltanto perché si rivelasse, esponendola ai vapori di mercurio. Anche quest'operazione si compiva in una scatola (fig. 5) nella quale si faceva evaporare il mercurio riscaldando, con una lampada a spirito, la capsula che lo conteneva. Daguerre poi fissava con sale da cucina, il quale, su proposta di J. Herschel, fu presto abbandonato per l'iposolfito. Daguerre ed Isidore Niepce, figlio di Nicéphore, dopo aver tentato di sfruttare commercialmente l'invenzione, invocarono l'aiuto governativo, per mezzo di D. J. F. Arago, al quale, nel gennaio 1839, il Daguerre consegnò la descrizione del processo. Il governo francese concesse una pensione di 6000 franchi annui al Daguerre ed una di 4000 ad Isidore Niepce, a condizione che, senza brevettarlo, il processo fosse reso pubblico. Esso fu comunicato nell'agosto 1839 all'Académie des Sciences.
Nel 1840 J. F. Goddard scoprì che una miscela di bromuro e di ioduro d'argento dava lastre più sensibili e J. Petzval creò l'obiettivo da ritratti che porta il suo nome. Questi importanti trovati, permettendo di ridurre il tempo di posa, contribuirono al successo della dagherrotipia.
Non va dimenticato che Hippolyte Bayard, il 24 giugno 1839 (cioè, prima che il processo del Daguerre fosse reso pubblico) espose alcune fotografie ottenute, direttamente e senza sviluppo, con una carta sensibilizzata immergendola in una soluzione di cloruro di ammonio, poi essiccandola, bagnandola nel nitrato d'argento, essiccandola di nuovo nell'oscurità e immergendola in una soluzione di ioduro potassico. Egli la esponeva ancor umida nella camera oscura e otteneva un' immagine visibile, che lavava e poi fissava nel bromuro di potassio. Le fotografie così ottenute si conservavano bene.
Molto maggiore importanza ebbero le scoperte di William Henry Fox-Talbot (1800-1877) il quale, trovandosi nel 1833 sul Lago di Como, fu indotto dalla sua inesperienza nel disegno a cercare qualche altro mezzo di fissare le immagini della camera oscura. Tornato in Inghilterra, cercò di utilizzare a questo scopo i sali d'argento studiati da J. H. Schultze e Th. Wedgwood, a somiglianza dei quali ottenne impronte di disegni e di foglie su carta al cloruro d'argento. Ma, avendo scoperto che il sale d'argento non modificato dalla luce si scioglieva facilmente in una soluzione di sale da cucina, egli realizzò un grande progresso rispetto al Wegdwood. Nel 1835 il Fox-Talbot scoprì che la sensibilità della carta diventava molto maggiore se la si lavava con soluzioni di sale e di argento e la si esponeva ancor umida. Quell'anno stesso egli ottenne una fotografia della propria casa. Il 25 e il 31 gennaio 1839 - prima, cioè, della pubblicazione di quello del Daguerre - il processo del Fox-Talbot fu reso pubblico in una comunicazione del Faraday e un' altra dello stesso inventore alla Royal Institution. Nel 1840 il Fox-Talbot inventò un altro processo, che chiamò Calotype, per il quale la carta era impregnata di ioduro d'argento e poi lavata con una soluzione di acido gallico e di nitrato d'argento immediatamente prima dell'esposizione; dopo una posa di 1 minuto la si sviluppava con acido gallico e nitrato d'argento, si fissava e si essiccava. Essa serviva come negativa per stampare la positiva su una carta della stessa natura. Un pastore inglese, J.B. Reade, aveva già usato l'acido gallico allo stesso scopo; ma il Fox-Talbot ignorava questa scoperta, che non era stata pubblicata. Sir John Herschel provò a sostituire una lastra di vetro alla carta del Fox-Talbot; ma fu Abel Niepce de Saint-Victor (1805-1870), cugino di Nicéphore, che nel 1847 riuscì a preparare lastre sensibili di vetro, spalmandole con un'emulsione di bianco d'uovo, ioduro di potassio e cloruro di sodio, facendole essiccare e trattandole con nitrato d'argento poco prima dell'esposizione. Sviluppava con acido gallico. Con questo processo all'albumina le negative riuscivano più nitide e trasparenti.
Dopo la scoperta del collodio, nel 1849 il francese G. Le Gray ne preconizzò l'uso in fotografia e un assistente di M. Faraday, Roberto Bingham, in un libro pubblicato nel 1850 propose di sostituirlo all'albumina, Però il merito dell'invenzione del processo al collodio spetta allo scultore F. Scott-Archer (1813-1857). Egli sperimentò col collodio dopo avere cominciato a fare fotografie col processo calotipico nel 1847. Nel marzo 1851 pubblicò particolarmente sul The Chemist il suo processo, che subito sostituì tutti gli altri e rimase dominante per un trentennio.
Il processo al collodio obbligava il fotografo a compiere molte e delicate operazioni. Si cominciava dal preparare il cotone fulminante immergendo del cotone in una miscela di acido solforico e acido nitrico; si lavava accuratamente in acqua; si preparava poi il collodio sciogliendo il cotone fulminante in una miscela di etere solforico e di alcool assoluto; si aggiungeva ioduro e un po' di bromuro di potassio; si versava su una lastra di vetro ben pulita, si lasciava rapprendere; poi si sensibilizzava con nitrato d'argento in un locale oscuro; si esponeva la lastra mentre era ancor umida, si sviluppava con acido acetico e pirogallolo e si fissava con iposolfito di sodio. La necessità di esporre le lastre appena preparate e prima che si asciugassero era causa di gravissimi inconvenienti. Nelle fotografie d'interni, che richiedevano pose di ore intere, alle volte la lastra si asciugava e andava perduta; durante l'inverno, lavorando all'aperto nei paesi freddi, le soluzioni spesso si congelavano. Ma, per i lavori all'aperto, era soprattutto grave la necessità di portare, insieme con l'apparecchio fotografico, un piccolo laboratorio chimico, che si disponeva entro una tenda; dalle figure 8 e 9 è facile vedere quanto fosse ingombrante questo materiale anche nella sua forma più leggiera; in qualche caso esso era addirittura disposto sopra un carrettino.
Nonostante ciò il processo al collodio, che, sotto l'aspetto tecnico, dava eccellenti risultati, rese popolare la fotografia. Nel 1853 si costituì la Photographic Society di Londra (ora Royal Photographic Society) e nel 1854 la Société Française de Photographie.
I tentativi per migliorare il processo furono numerosi. Nel 1854 John Sippler e William Crookes proposero di mantenere le lastre umide per parecchie ore trattandole con un sale deliquescente, come il nitrato di magnesio. Nel 1855 J. M. Taupenot ideò le lastre al collodio-albume che, dopo ricevuta la cosiddetta emulsione di collodio iodurato, erano rivestite di albume, essiccate, immerse nella soluzione di nitrato d'argento, lavate e nuovamente essiccate. Erano molto lente (appena 1/6 della rapidità di quelle ordinarie al collodio); però si conservavano bene e furono usate piuttosto largamente per paesaggi. Nel 1856 il dott. Hill Norris (che già l'anno prima ne aveva descritto un altro) brevettò un processo per il quale le lastre al collodio erano ricoperte di gelatina ed essiccate. Queste lastre secche alla collodio-gelatina ebbero discreto successo commerciale fino al 1866. Dopo tentativi di M. A. A. Gaudin e di J. Dixon e P. W. Fry, nel 1864 B. J. Sayce e W. B. Bolton prepararono delle lastre secche al collodio aggiungendo nitrato d'argento al collodio bromurato, trattando poi con tannino ed essiccando. Per parecchi anni si usò di lavare l'emulsione al collodio dopo che era stata stesa sulla lastra; ma Bolton, nel 1874, dimostrò che essa poteva essere lavata prima; l'anno dopo, il rev. Beechey descrisse un processo simile nel quale, però, usava il pirogallolo come preservativo. Il processo Beechey dava lastre di qualità uniforme, il cui uso si diffuse. La loro rapidità era minore di quella delle lastre umide; però sufficiente per i lavori all'esterno, per i quali richiedevano pose da 30 a 60 secondi con aperture F: 16.
Il processo moderno alla gelatina-bromuro, a differenza di quello al collodio, si deve agli sforzi di molti inventori e passarono molti anni prima che diventasse pratico. Dopo il tentativo di usare la gelatina fatto da Niepce de Saint-Victor, non condussero a risultati pratici né gli studî di M. A. A Gaudin (1853) né quelli di W. H. Harrison (1868). Il primo metodo pratico di preparazione si deve a Richard Leach Maddox, il quale lo pubblicò sul British Journal of Photography dell'8 settembre 1871. Egli formava il bromuro d'argento in presenza di gelatina; l'emulsione conteneva un eccesso d'argento e una piccola quantità di acqua regia; senz'altro trattamento la stendeva sulla lastra e la essiccava. La lastra era molto lenta, perché il Maddox non eliminava l'eccesso di nitrato d'argento, né l'acido nitrico dell'acqua regia. Egli fece, senza successo, un tentativo di maturazione dell'emulsione per mezzo dell'ammoniaca. Sul momento il suo lavoro passò quasi inosservato; ma nel 1873 J. Burgess annunciò la produzione di un'emulsione alla gelatina-bromuro altrettanto rapida quanto il collodio umido. Presto seguirono altri progressi. Nel British Journal of Photography J. King suggerì di lavare l'emulsione per dialisi attraverso un sacco di pergamena vegetale immerso nell'acqua; J. R. Johnson consigliò di preparare l'emulsione in presenza di un eccesso di bromuro solubile e di lavare semplicemente in acqua corrente; metodo che fu adottato. Quasi contemporaneamente Richard Kennett brevettò un metodo di conservazione dell'emulsione e, poco dopo, annunciò la preparazione di una "pellicola sensibile": emulsione alla gelatina-bromuro, essiccata, che ebbe successo e rimase sul mercato per una decina d'anni. Nel 1874 W. B. Bolton suggerì di formare l'alogenuro d'argento in una parte soltanto della gelatina, aggiungendo in seguito il resto. Frattanto, nel 1873, H. W. Vogel aveva scoperto che certi colori organici facevano aumentare la sensibilità delle emulsioni ai raggi gialli, rossi e verdi. Poco adatto al collodio, con l'introduzione della gelatina-bromuro questo metodo permise di preparare emulsioni ortocromatiche, le quali furono sempre più perfezionate grazie ai lavori di J. M. Eder, E. Valenta, E. König, ecc. Dal 1877 i lavori di J. R. Johnson, C. Bennett, G. Mansfield, D. B. Monchoven, G. S. Stas, Eder permisero di migliorare e rendere più sensibili le emulsioni per mezzo della maturazione e W. Abney dimostrò i vantaggi dell'aggiunta di ioduro d'argento. La fabbricazione industriale delle lastre alla gelatina-bromuro, iniziata nel 1874 dalla Liverpool Dry Plate Co., presto si diffuse e nel 1882 si poteva dire che il processo al collodio era quasi sparito.
Dopo l'invenzione del Fox-Talbot, le carte fotografiche da positiva erano state lentamente perfezionate. Sembra che risalga al 1846 il trattamento con sali d'oro (il cosiddetto viraggio) e che si debba attribuire al Le Gray l'uso di dare alla positiva una superficie lucida, trattando la carta con albumina prima di sensibilizzarla; questa carta divenne popolarissima. G. Wharton Simpson nel 1864 sostituì l'albumina col collodio; due anni dopo la carta al collodio-cloruro fu messa in commercio dalla ditta Obernetter di Monaco; ma si diffuse solo quando P. E. Liesegang di Düsseldorf la perfezionò, nel 1866. La carta alla gelatina-cloruro fu introdotta da Palmer e Smith nel 1866; nel 1882 i particolari della sua preparazione furono pubblicati dall'Abney; nel 1884 ne fu intrapresa la fabbricazione industriale da tre case: Obernetter, Liesegang ed Ilford di Londra.
L'origine delle carte a sviluppo si riallaccia ad un processo applicato da Blanquart-Evrard nel 1851; ma solo nel 1874 le carte alla gelatina-bromuro, messe in commercio dalla Liverpool Dry Plate Co., cominciarono a diffondersi. Nel 1883 Eder e Pizzighelli introdussero l'uso di emulsioni alla gelatina-clorobromuro, usate per carte da ritratti e diapositive. La carta al platino fu creata da W. Willis Jr., il quale prese il primo brevetto nel 1873.
Nel 1884 gli americani Giorgio Eastman (v.) e W. H. Walker crearono la prima pellicola fotografica (cosiddetto stripping film) emulsione alla gelatina-bromuro applicata su carta che, dopo sviluppata e fissata, poteva essere staccata dalla carta ed essiccata su lastra di vetro. Presentava il grande vantaggio della leggerezza, ma richiedeva un trattamento molto delicato. Nel 1888 l'Eastman la sostituì con la pellicola di celluloide, che prese a fabbricare su grande scala industriale. Egli stesso, nel 1885, aveva introdotto l'uso delle macchine per applicare l'emulsione sensibile sulle carte fotografiche. Pochi anni dopo il belga-americano L. Baekeland creò la carta Velox alla gelatina-cloruro sviluppabile alla luce gialla che, fabbricata dalla Nepera Chemical Co. e poi dalla Eastman Kodak, divenne popolare. L'introduzione delle lastre alla gelatina-bromuro e poi quella delle pellicole permisero di render facile la fotografia ai dilettanti. Ai vecchi apparecchi pesanti e incomodi si sostituirono nuovi modelli, fra i quali ebbero grande diffusione quelli a cassetta che contenevano 6 o 12 lastre. Ma per i dilettanti si dimostrarono assai più comodi i leggieri apparecchi a pellicola, specialmente dopo che, nel 1891, si trovò il modo di cambiare la pellicola in piena luce. Alla loro diffusione contribuì molto l'accortezza con cui si cercò di aiutare nell'uso delle pellicole anche i principianti.
Frattanto, la creazione dei vetri di Jena aveva permesso di costruire obiettivi anastigmatici, che si diffusero sempre più dal 1890 in poi. Da allora si sono compiuti grandi progressi nella preparazione delle emulsioni alla gelatina-bromuro. Mentre si perfezionavano quelle ortocromatiche, creando anche le pancromatiche, si miglioravano le caratteristiche anche delle ordinarie e, soprattutto, se ne aumentava la rapidità, studiando le condizioni dalle quali dipende. Questo non sarebbe stato possibile se prima non si fosse trovato un metodo di misura sufficientemente esatto. Fin dal 1848 il Claudet aveva inventato un apparecchio per misurare la rapidità delle lastre dagherrotipiche; ma fu solo nel 1890 che due dilettanti inglesi, F. Hurter e V. C. Driffield, crearono la moderna sensitometria.
Le carte al carbone e ai pigmenti hanno origini remote. Nel 1839 l'inglese Mungo Ponton aveva scoperto che una carta trattata con bicromato diventava sensibile alla luce; nel 1840 A. E. Becquerel trovò che la sensibilità dei cromati dipendeva dalle sostanze organiche contenute nella carta. Nel 1852 il Fox-Talbot trovò che, esponendo alla luce una gelatina mista a bicromato, essa diventa insolubile. Grande importanza in questo campo ebbero gli studî di A. Poitevin. Nel 1855 egli scoprì che, mescolando alla gelatina una sostanza colorata, stampando sotto una negativa e lavando si otteneva un'immagine. Egli trovò inoltre che una pellicola di gelatina al bicromato di potassio, esposta alla luce e fatta rigonfiare nell'acqua, si imbeveva di inchiostro grasso solo nelle parti che avevano subito l'azione della luce; da questa osservazione nacquero la collotipia ed il processo all'olio. Nel 1858 J. Pouncy brevettò un processo al carbone fondato sul principio del Poitevin: egli mescolava del carbone alla gelatina al bicromato. La cianotipia risale al Bussy, il quale usò nel 1838 l'ossalato di ferro per la preparazione di carte fotografiche, N. Niepce de Saint-Victor e J. C. Burnett provarono i sali d'uranio.
La fotografia nei colori naturali per quasi un secolo fu tentata con scarsa fortuna; prima degli altri dal Niepce, se è stata bene interpretata una lettera del maggio 1816 al fratello Claudio, nella quale egli indicava la fissazione dei colori come uno dei problemi che doveva ancora risolvere. Nel 1810 E. G. Seebeck aveva scoperto che il cloruro d'argento, esposto a raggi monocromi, prendeva un poco del loro colore. Nel 1844 A. E. Becquerel (v.) riuscì a riprodurre i sette principali colori dello spettro solare su una lastra dagherrotipica sulla quale aveva formato del cloruro. d'argento; però i colori non potevano essere fissati. Processi simili furono tentati da R. Hunt, sir J. Herschel, J.W. Draper, Niepce de Saint-Victor, A. Poitevin. Cros nel 1881, Liesegang nel 1889, F.E. Ives nel 1891, E. Vallot nel 1895, Neuhaus nel 1902, K. Worel nel 1902, Szczepanik e Smith nel 1907 tentarono un processo del tutto diverso, fondato sul fatto che certe sostanze coloranti sbiadiscono quando sono esposte a raggi del colore complementare del proprio. Tutti questi tentativi non portarono a risultati pratici. Nel 1891 Gabriele Lippmann ottenne fotografie dello spettro solare utilizzando l'interferenza della luce. Il suo processo fu poi migliorato dal Valenta e da H. Lehmann, ma non entrò nella pratica. I fondamenti del processo tricromo furono posti nel 1861 da I. Clerk Maxwell a cui si deve la sintesi additiva, da Louis Ducos du Hauron il quale ne espose i principî in una memoria scritta nel 1862, ma pubblicata soltanto nel 1897, e in un libro pubblicato nel 1869. Intorno a quest'ultimo anno Ch. Cros arrivò indipendentemente a risultati simili, che pubblicò. A poco a poco questo processo entrò nella pratica sebbene, fino a questi ultimi anni, per mancanza di apparecchi comodi il suo uso fosse limitato a qualche dilettante. J. Joly nel 1894 tentò di fare una sola fotografia invece delle tre parziali, con differenti filtri. Ma fu solo nel 1907 che A. e L. Lumière crearono le lastre autocrome, che subito si diffusero largamente.
Camera oscura. - La camera oscura da fotografia consiste sostanzialmente in una scatola dalle pareti completamente opache, nella quale i raggi di luce penetrano attraverso la parete anteriore, per un piccolo foro circolare, oppure attraverso una lente o un obiettivo e riproducono sulla parete posteriore l'immagine in proporzioni ridotte e capovolta del soggetto, nei suoi colori naturali. La parete posteriore della camera è costituita dalla lastra o dalla pellicola sensibile, oppure dal vetro smerigliato che permette di osservare l'immagine prima di fotografarla. Affinché l'immagine sia nitida è necessario che il vetro smerigliato o l'emulsione sensibile sia collocata a una certa distanza dall'obiettivo. Questa distanza è determinata a sua volta dalla distanza del soggetto dall'obiettivo.
Fotografia senza obiettivo. - Per la fotografia si può impiegare anche la camera oscura nella sua forma originaria, cioè con semplice foro al posto dell'obiettivo. I fori sono circolari, con diametro dai 25 agli 80 centesimi di mm., e praticati in una sottile lastra metallica. La distanza F della lastra sensibile dal foro viene stabilita con apposite formule, p. es. con quella del Combe F = d2/8 nella quale d è il diametro del foro in centesimi di mm., si ottiene F in mm. Le camere oscure senza obiettivo hanno il pregio della semplicità; il piccolo diametro del foro rende tuttavia necessarie lunghe esposizioni, p. es. di 50 secondi, in condizioni che, con un discreto obiettivo, consentirebbero istantanee di 1/50 di secondo.
Apparecchi fotografici. - Gli apparecchi fotografici sono costituiti sostanzialmente da una camera oscura con un obiettivo munito di diaframma ad apertura regolabile e un otturatore a velocità pure regolabile e dai dispositivi che portano le lastre o le pellicole sensibili e ne consentono il cambio: telai per le lastre e le pellicole piane, rocchetti comandati dall'esterno per le pellicole continue. Per le pose possono essere assicurati a un treppiede. La camera oscura, nella sua forma più semplice, ha pareti fisse in modo che all'obiettivo sono, tutt'al più, consentiti piccoli spostamenti, in direzione assiale. Questa costruzione, un tempo comunissima per gli apparecchi da dilettanti, attualmente è usata soltanto per quelli più piccoli. Si preferisce la costruzione con soffietto pieghevole e allungabile (derivata da quella a telescopio, fig. 10) che consente di mettere a fuoco con eguale facilità soggetti vicini e lontani, facendo variare fortemente la distanza fra l'emulsione sensibile e l'obiettivo. Gli allungamenti della camera si regolano generalmente per mezzo di ruota dentata e dentiera.
Il disegno della camera oscura e degli accessorî e le caratieristiche dell'obiettivo e dell'otturatore variano notevolmente secondo l'uso al quale l'apparecchio è destinato. Gli apparecchi da ritratti per professionisti (cosiddetti da galleria o da studio) hanno obiettivi a fuoco lungo, otturatore poco veloce (alcuni preferiscono usare un semplice tappo) e sono di costruzione molto robusta e montati su treppiedi pesanti; particolarmente curata è la possibilità di spostare l'obiettivo rispetto alla lastra e i meccanismi che comandano questo movimento consentono di eseguirlo rapidamente (fig. 11). Questi apparecchi, sono spesso dotati di accessorî speciali, come lo specchio nel quale il soggetto vede riflessa la propria immagine, gli apparecchi di illuminazione elettrica. Gli apparecchi da posa per lavori all'esterno, sono di costruzione piuttosto robusta, hanno otturatori più o meno rapidi, nei modelli migliori consentono spostamenti, verticali e orizzontali dell'obiettivo rispetto al centro della lastra; talvolta permettono l'uso di obiettivi di distanza focale molto diversa, in qualche caso anche di teleobiettivi e perciò hanno soffietto molto lungo (fig. 11); sono normalmente montati su treppiedi allungabili. Sia nell'uno sia nell'altro tipo di apparecchi le parti principali della camera e anche il treppiede e i telai sono di legno. Gli apparecchi più diffusi, quelli da dilettanti, di formato medio e piccolo; talvolta piccolissimo, sono costruiti in una grandissima varietà di modelli che si differenziano per il disegno della camera, la luminosità dell'obiettivo, il tipo dell'otturatore; ve ne sono per pellicole a rullo (fig. 12, 1) e per lastre e pellicole piane (filmpack; fig. 12, 2) ma tutti sono caratterizzati dalla leggerezza, ottenuta con l'uso di alluminio o di leghe leggiere, e dal piccolo ingombro quando il soffietto è ripiegato; certi tipi consentono diversi spostamenti dell'obiettivo o hanno soffietto allungabile (fig. 12, 3). Per i più piccoli formati (3 × 4 a 6 × 9 cm.) è preferita ancora la costruzione a cassetta (fig. 12, 4). Per istantanee rapidissime si usano gli apparecchi con otturatore a tendina, che consente esposizioni anche di 1/2000 di secondo (fig. 12, 5). Pure a tendina sono certi piccoli apparecchi moderni con obiettivo a grandissima apertura, per fotografie a luce crepuscolare e anche di notte (fig. 12, 6). Un tipo speciale di apparecchio a tendina è il "reflex" (figura 12, 7).
Questo apparecchio differisce da tutti gli altri perché il vetro smerigliato (anziché sul fondo, al posto della lastra sensibile) è disposto nella parete superiore della camera, parallelamente all'asse e l'immagine vi viene riflessa da uno specchio girevole che, durante la messa a fuoco, si dispone nell'interno della camera, obliquamente all'asse, sicché appare sul vetro smerigliato nella sua vera posizione e non rovesciata come negli altri apparecchi. La stessa leva che comanda l'otturatore fa ruotare lo specchio intorno al proprio asse, fino a disporsi orizzontalmente contro il vetro smerigliato, chiudendo da quella parte l'accesso alla luce. Il movimento dello specchio si compie rapidissimamente (1/3 o 1/10 di secondo) sicché è possibile mettere a fuoco un soggetto che si sposta rapidamente, seguendolo fino al momento dell'istantanea.
Gli apparecchi per usi speciali sono moltissimi. Fra essi vanno notati anzitutto quelli per cinematografia (v. cinematografo), dei quali negli ultimi anni sono stati anche messi in commercio modelli leggieri per dilettanti (fig. 13). Pure importanti quelli per fotografia aerea, per fotogrammetria (v.), per fotografie astronomiche (v. Cielo), per microfotografie (v. microfotografia), per radiografie (v. raggi x).
Ottica fotografica. - Lente. - La lente è fatta di vetro speciale (flint, crown, vetro di Jena) tagliato secondo superficie sferiche che hanno i centri sullo stesso asse. Le principali forme di lenti sono illustrate nella figura 14. Quelle che hanno il massimo spessore nella parte centrale sono convergenti o positive; quelle che hanno il minimo spessore nella parte centrale sono divergenti o negative.
La formazione dell'immagine con una lente convessa è rappresentata schematicamente nella fig. 15. I raggi che partono da uno dei punti estremi, A, di un oggetto, cadendo sulla lente sono rifratti due volte e, così deviati, s'incontrano nel punto A′. Similmente, i raggi che partono dall'altro punto estremo, B, s'incontrano in B′. Si ha così l'immagine A′B′ dell'oggetto AB. Con una lente divergente (fig. 16) non si forma un'immagine reale, bensì un'immagine virtuale, A′B′ dell'oggetto AB. Per le lenti sottili valgono le seguenti considerazioni.
Fuoco. - Quando dei raggi di eguale lunghezza d'onda, paralleli fra loro perché provenienti da un punto a distanza infinita e paralleli all'asse ottico della lente cadono su una lente convergente, essi sono rifratti come si vede dalla fig. 17, e convergono in un punto F detto fuoco della lente. Solo il raggio che passa per l'asse ottico e per il centro della lente conserva la sua direzione primitiva. Se si prolungano i raggi che entrano nella lente e quelli che ne escono, i prolungamenti s'incontrano nei punti P1, detti nodi o punti di Gauss, che si trovano tutti su un piano P1P1 detto piano nodale. La distanza f del fuoco dal piano nodale si chiama distanza focale. Se i raggi paralleli all'asse cadessero sulla faccia opposta della lente, essi convergerebbero in un punto F2 che è il secondo fuoco della lente; in corrispondenza si avrebbe un secondo piano nodale P2 P2, la cui distanza da F2 sarebbe pure eguale a f.
Conosciuti i fuochi F1, e F2 e i piani nodali N1 N2 di una lente, dato un punto a di un soggetto si può trovare il punto corrispondente dell'immagine senza bisogno di conoscere l'effettiva linea di propagazione dei raggi luminosi. Tracciando (fig. 18) la parallela all'asse ottico che passa per a fino al punto P1 d'intersezione col piano nodale N1 e la retta che passa per P1 e per F1, poi la retta che passando per a e per F2 incontra il piano nodale N2 in P2, infine la parallela all'asse ottico che passa per P2, questa parallela incontrerà la P1F1 in un punto a′ che è l'immagine di a. In una lente divergente i fuochi sono virtuali, situati dalla stessa parte della lente dalla quale provengono i raggi luminosi e non si forma un'immagine reale, ma soltanto un'immagine virtuale che giace anch'essa fra il soggetto e la lente.
Un punto a e la sua immagine a. (fig. 18) si chiamano fuochi coniugati. Fra la distanza focale f della lente, la distanza u del punto a dal piano nodale N2 di ammissione e la distanza v del punto a′ dal piano nodale N1 di emergenza sussiste la relazione
Se, oltre ad a, si considera un punto b, intersezione della parallela al piano nodale con l'asse ottico, sappiamo già che il raggio che parte da esso secondo l'asse ottico non è deviato dalla lente, sicché si ha un'immagine di b nel punto b′, intersezione dell'asse ottico con la parallela al piano nodale che passa per a′. Detto R = a′b′/ab il rapporto fra la distanza dei due punti estremi dell'immagine e la distanza dei punti corrispondenti del soggetto, cioè il rapporio di riduzione, con semplici considerazioni geometriche si ha:
La distanza Ev = v − f = fR si chiama distanm extra-focale del soggetto e la Eu = u − f = f/R distanza extra-focale dell'immagine. Dalla fig. 19 si rileva che, ferma restando la distanza v, se aumenta f, a′b′ risulta proporzionalmente maggiore e R proporzionalmente minore; in altri termini, usando una lente di distanza focale maggiore si ha un'immagine più grande.
Siccome la distanza d fra i piani nodali è molto piccola rispetto alle altre, in pratica si può trascurare e allora, se è nota la distanza v (fig. 18) fra un punto del soggetto e il centro ottico della lente e la distanza u fra il centro ottico e la sua immagine (misurate tutte sull'asse ottico) si ha:
Nelle fotografie ordinarie R > 1 e, perciò, la dis anza fra il centro della lente e l'immagine è minore della distanza fra il centro della lente e il soggetto. Per gli ingrandimenti, invece, R 〈 1 e, perciò, la distanza fra l'immagine e il centro della lente è maggiore della distanza fra questo e il soggetto. Per R = 1, cioè quando si riproduce un soggetto nelle esatte sue dimensioni, le due distanze debbono essere eguali fra loro ed eguali a 2f.
Siccome i diversi punti di un medesimo soggetto sono a distanza differente dalla lente, da quanto si è detto risulta chiaro che le loro immagini non possono giacere sul medesimo piano, come sarebbe necessario per avere un'immagine assolutamente corretta su una lastra fotografica. Se (fig. 20, 2) si considerano tre punti O1, O2, O3 di un oggetto e le immagini I1, I2, I3 che essi dànno attraverso la lente L, il piano parallelo al piano nodale della lente che contiene la I1 non conterrà le immagini degli altri due punti; il punto O2, che in confronto a O1 è meno lontano dalla lente, avrà la sua immagine I2 dietro il piano I1 e, inversamente, O3 che è più lontano di O1, avrà la sua immagine I3 avanti il piano I1. Però, se tutti e tre i punti, anche lontanissimi fra loro, fossero a grande distanza dalla lente, la distanza fra le loro immagini sarebbe piccolissima. Quando l'immagine di un punto del soggetto cade fuori di questo piano, essa è sostituita da un circolo (cerchio di confusione) più o meno grande anziché da un punto e, come si dice, è sfocata. In pratica, questo inconveniente è attenuato da due fatti:1. la distanza iperfocale (segnata infinito ∞ negli apparecchi fotografici), a partire dalla quale i diversi punti del soggetto dànno immagini vicinissime fra loro, è di pochi metri o di qualche decina di metri soltanto; 2. anche quando l'immagine è costituita da un cerchio, essa appare all'occhio come un punto se la si guarda da una distanza superiore a 3400 volte il suo diametro sicché, p. es., a 34 cm. di distanza dall'occhio una fotografia appare nitida se i cerchi che la costituiscono hanno diametro inferiore ad 1/10 mm. Se una fotografia deve essere ingrandita, il massimo diametro ammissibile per i cerchi risulta molto piccolo; questo è importante per la cinematografia. Secondo alcuni, sono ammissibili cerchi di confusione di diametro non maggiore di 1/3400 della distanza dall'occhio; perché in realtà appaiono come punti anche i cerchi che sottendono archi non maggiori di 5′.
Si dice mettere a fuoco l'operazione che consiste nel regolare - con o senza l'aiuto del vetro smerigliato - la distanza dell'emulsione sensibile in modo che, sul piano di questa, tutti i punti dell'immagine appaiano nitidi o, in altri termini, siano a fuoco. Se, una volta messo a fuoco un punto del soggetto, di tutti gli altri punti che dànno un'immagine nitida il più vicino si trova alla distanza D e il più lontano alla distanza D + d, la distanza d si chiama profondità di campo alla quale corrisponde la profondità di fuoco dell'obiettivo. La profondità dí campo dipende, naturalmente, dal diametro del massimo circolo di confusione; inoltre, dalla distanza focale dell'obiettivo, dalla sua apertura e dalla distanza dell'obiettivo dal piano che è perfettamente a fuoco. Inoltre, dipende dalla presenza o dall'assenza di aberrazioni (v. oltre). Per questi obiettivi, però, è improprio parlare di profondità di fuoco.
Angolo di campo. - I raggi che formano l'immagine costituiscono un cono luminoso col vertice dentro l'obiettivo (fig. 20, 3). Il cerchio luminoso che questo cono delimita sul piano della lastra si dice campo massimo e l'angolo al vertice del cono luminoso angolo di campo. Però l'immagine non è nitida fino ai margini del campo; l'estensione della zona nitida dipende anche dal criterio di valutazione della nitidezza (v. sopra); tale zona, comunque, è costituita da un cerchio che è detto campo utile, concentrico al primo. L'angolo al vertice del cono corrispondente è l'angolo utile.
Diaframma. - È uno schermo che serve a intercettare i raggi che cadrebbero nella zona periferica dell'obiettivo, consentendo il passaggio soltanto a quelli più vicini all'asse. Così si ottiene un'immagine più nitida e si riducono gli effetti dannosi di alcune aberrazioni delle lenti (v. oltre). L'immagine riesce tanto più nitida, quanto più piccola è l'apertura del diaframma. A questi vantaggi si contrappone, però, una riduzione dell'intensità luminosa dell'immagine (v. diaframma).
Apertura e luminosità dell'obiettivo. - Il tempo di posa, a parità di altre condizioni, è inversamente proporzionale all'intensità luminosa dell'immagine formata dall'obiettivo sulla lastra. Quest'intensità è direttamente proporzionale alla quantità di luce che attraversa l'obiettivo e inversamente proporzionale all'area della superficie illuminata. Detto d il diametro dell'apertura dell'obiettivo ed f la sua distanza focale, la quantità di luce è proporzionale a d2, l'area illuminata ad f2; sicché l'intensità luminosa dell'immagine è proporzionale a d2/f2 = (d/f)2. Il rapporto d/f si chiama rapporto di apertura o apertura relativa e misura la luminosità degli obiettivi. Occorre tener presente che l'intensità luminosa dell'immagine è esattamente proporzionae al rapporto (d/f)2 solo quando i raggi che entrano nell'obiettivo sono paralleli fra loro e all'asse ottico, cioè solo quando il soggetto si trova a grande distanza. In tutti gli altri casi la distanza dell'immagine dall'obiettivo è v > f (fig. 18) e la sua intensità è proporzionale a (d/v)2. Tuttavia, nella maggior parte dei casi la differenza è così piccola che in pratica si calcola il tempo di posa in base al rapporto (d/f)2 applicando, se mai, un fattore di correzione quando si fotografano piccoli oggetti a poca distanza dall'obiettivo.
Finora si è ammesso implicitamente che l'apertura di un obiettivo è eguale all'apertura del diaframma. Questo è esatto solo quando il diaframma è montato avanti l'obiettivo. In ogni altro caso l'effettiva apertura dell'obiettivo è diversa da quella del diaframma; così, se il diaframma è montato dietro una lente convergente, può ammettere raggi che, senza la lente, passerebbero fuori di esso; sicché l'apertura effettiva risulta maggiore. Per es., i due gruppi di lenti che costituiscono l'obiettivo Goerz Dagor sono simmetrici, ma se si usa soltanto la lente anteriore, che è montata avanti il diaframma, la luminosità corrisponde a F/11,3; se si usa la sola lente posteriore, che è montata dietro il diaframma, la luminosità corrisponde a F/13,6, cioè circa alla metà. Occorre tener presente, inoltre, che in tutti gli obiettivi dal 10 al 50% della luce va perduto per assorbimento e specialmente per riflessione da parte delle lenti. La perdita per riflessione, che è la più grave, è tanto maggiore quanto maggiore è il numero delle superficie riflettenti, cioè di quelle di contatto fra vetro ed aria; in altri termini, quanto maggiore in un obiettivo è il numero delle lenti elementari non collate fra loro; sicché, per esempio, un obiettivo segnato F/2 può avere, in realtà, una luminosità corrispondente a F/3 e anche meno. Tuttavia, generalmente la perdita è molto minore e in alcuni fra gli anastigmatici più largamente usati non raggiunge il 10%.
Aberrazioni delle lenti. - Le immagini date dalle lenti semplici differiscono notevolmente dal soggetto per alcune aberrazioni (v. aberrazione dei sistemi ottici) e precisamente: 1. l'aberrazione cromatica; 2) l'aberrazione sferica; 3. il coma; 4. la curvatura del campo; 5. la distorsione; 6. l'astigmatismo. Queste aberrazioni sono corrette, più o meno completamente, negli obiettivi fotografici moderni.
L'aberrazione cromatica è dovuta al fatto che i raggi di diversa lunghezza d'onda hanno indice di rifrazione diverso; sicché, attraversando una lente, la luce si scompone nei raggi elementari monocromi (analogamente a quanto avviene nel prisma). Per es., se si considerano raggi paralleli all'asse della lente (fig. 20,1) quelli violetti convergono nel fuoco Fv, quelli rossi nel fuoco Fr; gli altri in punti intermedî. Se, però, i raggi traversano due lenti egualmente dispersive, ma una convergente e l'altra divergente, le due aberrazioni opposte si compensano eliminandosi. In questo caso non si avrebbe un'immagine; la si ha, invece, se la lente convergente è leggermente meno dispersiva ed ha indice di rifrazione leggermente maggiore della divergente; in tal modo l'aberrazione è quasi completamente corretta (v. acromatismo). Ordinariamente si corregge l'aberrazione per i raggi violetti, che sono fra quelli che maggiormente impressionano le emulsioni fotografiche, e per i gialli, che appaiono all'occhio più luminosi e, perciò, hanno maggiore importanza. Per la fotografia a colori, l'aberrazione deve essere corretta per i tre colori fondamentali: si hanno così le lenti apocromatiche le quali, però, sono meno luminose.
L'aberrazione sferica dipende dal fatto che i raggi vicini ai margini della lente sono rifratti in modo differente da quelli più vicini all'asse, sicché non convergono nello stesso fuoco. Con una lente convergente, il fuoco dei raggi più vicini all'asse è più lontano che non il fuoco dei raggi più vicini ai margini; con una lente divergente accade l'opposto (fig. 20, 5). L'aberrazione sferica si corregge come la cromatica, unendo due lenti che presentano aberrazioni opposte.
Si chiama coma l'aberrazione sferica dei raggi obliqui rispetto all'asse della lente, i quali sono rifratti in modo da formare un fascio asimmetrico; secondo la curvatura delle superficie della lente, si possono avere opposte forme di coma (fig. 20, 6). Sulla lastra, l'immagine di un punto è costituita da una zona a forma di pera. Il coma si può ridurre con l'uso di un diaframma che intercetti i raggi più vicini ai margini della lente. Lo si corregge combinando due lenti che dànno coma opposti; inoltre, le lenti di curvatura intermedia fra quelle che dànno forme opposte di coma sono esenti da questa aberrazione.
La curvatura del campo dipende dal fatto che le immagini corrispondenti ai raggi che cadono obliquamente sulla lente non giacciono sopra il piano che contiene le immagini dei raggi più vicini all'asse. Il luogo di queste immagini è una superficie, che presenta la concavità ad una lente convergente, la convessità ad una lente divergente (fig. 20, 4). Anche questa aberrazione si corregge combinando una lente convergente con una divergente.
La distorsione dipende dal fatto che i raggi che colpiscono obliquamente la lente vicino ai suoi margini subiscono una rifrazione più forte di quelli più vicini all'asse; sicché una linea retta nel soggetto appare curva nell'immagine (fig. 20, 9). La curvatura dipende dalla posizione del diaframma: l'immagine di rette parallele è costituita da curve convergenti se questo è montato avanti la lente, e da curve divergenti se il diaframma è montato dietro l'obiettivo. Un obiettivo costituito da due lenti simmetriche è esente da distorsione. Esso è detto ortoscopico.
L'astigmatismo dipende dal fatto che i fasci di raggi provenienti dallo stesso punto, quando cadono obliquamente sulla lente, convengono non in un punto, ma in due linee di punti. Se l'oggetto (fig. 20, 7) è costituito da due croci, la prima col centro sull'asse della lente e la seconda ai margini del campo, solo i punti della prima hanno per immagine altrettanti punti. I raggi che partono dalla seconda, invece, attraversano obliquamente la lente e non sono rifratti allo stesso modo, sicché i bracci verticali della croce sono a fuoco nel punto A e quelli orizzontali nel punto B, a maggior distanza dalla lente (fig. 20, 8). Nel punto A l'immagine della croce appare come nella fig. 20, 8, a; nel punto B come nella fig. 20, 8, b. Fra A e B c'è un punto nel quale l'immagine della croce è costituita da due linee egualmente sfocate le quali, però, appariscono all'occhio abbastanza nitide. Su questo fenomeno si fonda la correzione dell'astigmatismo che si ha negli obiettivi anastigmatici.
Illuminazione inegyale dell'immagine. - Con tutte le lenti convergenti l'intensità della parte centrale dell'immagine è maggiore che non quella della zona marginale. Questo fenomeno dipende da diverse cause: 1. parte dei raggi obliqui sono intercettati dal diaframma; 2. la distanza focale per i raggi obliqui è maggiore; 3. ai margini del campo i raggi arrivano obliquamente sulla lastra, sicché illuminano un'area maggiore, con una corrispondente diminuzione di intensità. In certi obiettivi di disegno antico a queste cause si aggiunge che una parte dei raggi obliqui è intercettata dalla montatura stessa dell'obiettivo.
Obiettivo. - L'obiettivo fotografico moderno è sostanzialmente un sistema di lenti che una montatura mantiene a distanze fisse l'una dall'altra. In molti casi alcune delle lenti sono cementate insieme. Le diverse lenti di uno stesso obiettivo sono fatte di vetri e le caratteristiche dei vetri, le curvature delle superficie e le distanze fra le lenti sono tali, che le aberrazioni sono corrette più o meno completamente. A parte gli anacromatici per fotografie artistiche, nei quali la correzione non è desiderata, si hanno così obiettivi acromatici, aplanatici o rettolineari, e anastigmatici. L'obiettivo è generalmente montato col diaframma e, in molti casi, anche con l'otturatore, disposti fra le lenti.
Il più antico obiettivo fotografico è il menisco convesso-concavo introdotto nel 1812 da H. Wollaston. Come tutte le lenti semplici, esso non poteva essere corretto dalle aberrazioni e, per avere un'immagine relativamente nitida, era necessario usare piccolissime aperture di diaframma, alle quali corrispondevano tempi di posa lunghissimi, che rendevano molto difficile il ritratto. J. Petzval fece fare all'arte fotografica un grandissimo passo avanti, calcolando l'obiettivo da ritratti che porta il suo nome e che fu costruito nel 1840 dal Voigtländer, con apertura F : 6, che fu quasi subito portata a F : 4 da A. Ross. Th. Grubb nel 1857 brevettò un obiettivo acromatico al quale seguì nel 1864 un altro acromatico, l'obiettivo rapido da paesaggio del Dallmeyer. Nel 1858 T. Sutton descrisse un obiettivo triplo, simmetrico, e nel 1860 Harrison e Schnitzer crearono il cosiddetto "obiettivo a globo". Nel 1866 A. Steinheil di Monaco creò il suo aplanatico o rapido rettolineare obiettivo simmetrico che, oltre ad essere acromatico, era esente da distorsione e, in certa misura, anche da astigmatismo. Per molto tempo gli obiettivi rimasero limitati a questi tre tipi: Petzval per ritratti, acromatici per paesaggio, aplanatici o rettolineari per uso universale.
Un importantissimo progresso fu possibile solo quando si cominciarono a produrre i nuovi vetri di Jena, che consentirono per la prima volta di correggere seriamente l'astigmatismo. Nel 1890 P. Rudolph creò per la casa Zeiss il Protar, un obiettivo asimmetrico, sostituito poi da uno simmetrico dello stesso nome e successivamente modificato. Questo fu il primo vero anastigmatico. Nel 1893 Emil von Hoegh creò per la Goerz il Dagor, anastigmatico simmetrico, e nel 1900 il Celor e il Syntor. H. Dennis Taylor nel 1895 creò il triplo Cooke. Nel 1902 il Rudolph creò il Tessar per la Zeiss. Negli ultimi anni, per rispondere specialmente alle esigenze della cinematografia, sono stati creati obiettivi a grandissima apertura i quali hanno anche consentito le istantanee rapidissime per reportage giornalistico, le fotografie di notte, ecc. Tuttavia, la cinematografia a colori richiede già obiettivi più luminosi. Sembra che G. Porro sia stato il primo a ideare, nel 1851, obiettivi per fotografia a grande distanza, fondati sul principio del telescopio di Galileo; ma l'idea fu trascurata fin verso il 1890, quando comparvero i primi teleobiettivi.
Obiettivi astigmatici. - Lenti semplici. - Il menisco di Wollaston è costituito da una lente biconcava, con la concavità volta verso il soggetto (fig. 21, 1).
Lenti acromatiche. - Sono costituite da lenti convergenti e divergenti di caratteristiche tali da correggere le aberrazioni cromatica e sferica. Le lenti da paesaggio di Chevalier (fig. 21, 2), di Grubb (fig. 21, 3) e di Dallmeyer (fig. 21, 4) sono formate da lenti di vetro crown e di vetro flint cementate insieme. La lente "rapida" da paesaggio Dallmeyer (fig. 21, 5) è formata da due lenti di crown cementate e da un menisco di flint, separati da uno spazio d'aria.
Obiettivi anacromatici da artista. - Sono obiettivi non corretti cromaticamente, che dànno immagini sfocate, largamente usate per ritratti e fotografie artistiche. In altri il flou cromatico è ottenuto aggiungendo una lente speciale a un obiettivo ordinario.
Obiettivi acromatici-aplanatici (rettolineari). - L'obiettivo di Sutton è illustrato alla fig. 21, 6. La "lente a globo" di Harrison e Schnitzer (fig. 21, 7), composta di due elementi acromatici simmetrici, con diaframma al centro era esente da distorsione, ma doveva essere usata con piccolo diaframma. L'aplanatico di Steinheil (fig. 21, 8) era composto di due lenti simmetriche, ciascuna formata da due menischi di flint.
Obiettivi da ritratti (Petzval). - L'obiettivo Petzval F : 6 (fig. 21, 9) è composto di quattro lenti in due gruppi: quello anteriore formato da una lente convergente di crown e una divergente di flint cementate; quello posteriore da una lente divergente di flint e una convergente di crown, separate. È acromatico e ben corretto dalla distorsione e dal coma, ma non dall'astigmatismo; ha campo limitato, pronunciata curvatura di campo, e, siccome è molto lungo, la riduzione dell'intensità dell'immagine è forte verso i margini del campo. È ancora usato per ritratti; per tutti gli altri lavori è stato sostituito dagli anastigmatici. Sono costruiti sullo stesso principio del Petzval alcuni obiettivi moderni, come quello Cooke F : 1,5 (fig. 21, 10), per cinematografia.
Obiettivi anastigmatici. - Gli anastigmatici si possono dividere in due gruppi. Quelli del primo (come il Dagor) sono formati da due gruppi simmetrici di lenti che, presi separatamente, sono acromatici e corretti dall'astigmatismo e dall'aberrazione sferica, mentre l'obiettivo completo è corretto anche dalla curvatura di campo, dal coma e dalla distorsione. Quelli del secondo gruppo (come il Tessar) sono formati da due gruppi asimmetrici di lenti: uno corretto dall'astigmatismo e l'altro dall'aberrazione sferica; si ha così un obiettivo che è corretto nell'insieme, ma non nelle sue parti. La correzione dall'astigmatismo è stata resa possibile dai vetri di Jena (crown al bario); nei vetri conosciuti prima della creazione di questi l'indice di rifrazione cresceva con la dispersività, sicché i vecchi obiettivi acromatici, fatti di lenti di crown e di flint, potevano esser corretti dall'aberrazione sferica, ma era impossibile unire tale correzione a quella dell'astigmatismo. Nella fig. 23 sono riprodotti gli schemi di alcuni fra i principali obiettivi anastigmatici moderni.
Teleobiettivi. - I teleobiettivi servono per fotografare soggetti a grande distanza. Sono fondati sul principio del telescopio di Galileo e, cioè, sono costituiti da una lente convergente e da una divergente la quale ingrandisce una parte dell'immagine formata dalla prima. Il vantaggio - importantissimo in pratica - di questa costruzione è che la distanza fra il teleobiettivo e la lastra è minore della distanza focale di quell'obiettivo ordinario che, alla stessa distanza dal soggetto, darebbe immagini della stessa grandezza; sicché è possibile usare una camera oscura relativamente corta. A questo vantaggio si contrappone un serio svantaggio e cioè la scarsa luminosità del teleobiettivo, dipendente dal fatto che, con l'ingrandimento dell'immagine, una determinata quantità di luce è distribuita sopra un'area maggiore di quella che si avrebbe con l'obiettivo ordinario; per conseguenza, la durata della posa cresce proporzionalmente all'ingrandimento. Molti teleobiettivi sono costituiti da un obiettivo normale, adattato a una montatura speciale che porta l'elemento negativo. Nella fig. 25 sono riprodotti gli schemi di alcuni teleobiettivi.
Detta D l'apertura ed f1 la distanza focale dell'obiettivo che costituisce l'elemento positivo del teleobiettivo, f2 la distanza focale dell'elemento negativo e Δ la distanza fra l'elemento positivo ed il negativo, l'apertura del teleobiettivo è data dalla formula
Otturatore. - Solo negli apparecchi da ritratti si usano ancora i vecchi tipi di otturatori applicati davanti, oppure immediatamente dietro all'obiettivo, come quello a sportello (a volet) e a tendina illustrato alla fig. 26, 1. Sono ormai scomparsi quelli del tipo illustrato alla fig. 26, 2.
I più usati fra gli otturatori moderni sono quelli (fig. 26, 3) situati fra le lenti dell'obiettivo, vicino al diaframma. Essi sono costituiti da lamine (generalmente tre) di metallo oppure di ebanite che si aprono dal centro verso la periferia. Per le pose si aprono e chiudono al comando di una leva; per le istantanee si richiudono automaticamente dopo una frazione di secondo (fino a 1/300). La durata dell'apertura è controllata per mezzo di un sistema di ruote dentate; meno frequentemente per mezzo di un freno pneumatico.
Altri otturatori sono situati in prossimità della lastra e sono costituiti (fig. 26, 4) da una tendina che porta una finestra rettangolare svolgendosi da un rullo per avvolgersi sopra un altro, scorre rapidamente davanti alla lastra, che espone striscia a striscia alla luce per tutta la sua altezza. La durata dell'esposizione dipende dall'altezza della finestra e dalla velocità con la quale la tendina si muove; essa si regola facendo variare sia l'una sia l'altra. L'otturatore situato fra le lenti, nell'aprirsi e nel chiudersi, limita per qualche istante l'apertura dell'obiettivo; ciò non accade con l'otturatore a tendina situato immediatamente davanti alla lastra: per questa ragione e per la possibilità di regolare con maggior precisione la durata dell'esposizione, l'otturatore a tendina è usato per le istantanee più rapide (fino a 1/2000 sec.).
Emulsione fotografica. - Le lastre, le pellicole e le carte fotografiche moderne sono rivestite della cosiddetta emulsione sensibile, costituita sostanzialmente da gelatina e da uno o più dei tre sali d'argento sensibili alla luce: bromuro AgBr, cloruro AgCl, ioduro AgI (alogenuri o aloidi). Si tratta, però, non di una emulsione nel senso stretto della parola (v. colloidi), ma di una soluzione di gelatina, in seno alla quale sono sospesi cristalli microscopici dell'alogenuro d'argento che, appunto perché finemente diviso, presenta una superficie molto maggiore all'azione della luce.
La gelatina è un colloide facilmente reversibile; essa, cioè, ha la proprietà di sciogliersi facilmente in acqua calda e di tornare allo stato gelatinoso col raffreddamento. Per la fotografia è molto importante il fatto che la gelatina dà emulsioni più sensibili di quelle preparate con qualsiasi altro colloide. Di questo fenomeno si sono date parecchie spiegazioni: da alcuni è stato attribuito a una vera e propria combinazione fra gelatina e sale d'argento. Recentemente si è trovato che esso è dovuto a una speciale sostanza sensibilizzatrice, contenuta nella gelatina (v. oltre).
Gli alogenuri d'argento quando sono sottoposti all'azione di una luce molto intensa si oscurano visibilmente. È ormai dimostrato che questo fenomeno dipende dalla scomposizione dell'alogenuro nei suoi elementi: argento metallico e alogeno. Se la luce è di debole intensità, la sua azione ha effetti che non sono visibili, ma lo diventano se l'alogenuro si tratta con un mezzo riducente. Si dice in tale caso che nell'emulsione impressionata in una camera oscura si forma un'immagine latente, la quale si sviluppa per azione di un rivelatore. La formazione dell'immagine latente si può compiere in un tempo estremamente breve: anche con esposizioni di 1/2000 di secondo.
Si credeva un tempo che, quando l'alogenuro si oscura sotto l'azione di una luce molto intensa, con la liberazione dell'alogeno si formasse un sotto-alogenuro (cioè un sale contenente l'alogeno in quantità minore della normale). Secondo una teoria che ebbe molti eminenti sostenitori, come J. M. Eder, anche la formazione dell'immagine latente consisterebbe nella formazione di questo sotto-alogenuro. Nel 1924 Schwarz e Gross e Hartung dimostrarono (con una micro-bilancia sensibilissima) che nel caso dell'oscuramento visibile si formano argento metallico e alogeno. La teoria del sotto-alogenuro è ora abbandonata, a favore di un'altra teoria: che per azione della luce l'ione di bronzo dell'alogenuro perda un elettrone, il quale insieme a un ione d'argento formerebbe argento metallico. L'immagine latente consisterebbe, così, di piccoli centri di argento metallico nei granuli di alogenuro dell'emulsione. Se un'immagine latente viene fissata senza svilupparla (cioè se si elimina l'alogenuro d'argento che l'emulsione contiene) essa può dare un'immagine visibile col cosiddetto sviluppo fisico, che consiste nell'immergere l'emulsione in un bagno di sviluppo e in una soluzione di un sale d'argento capace di formare argento allo stato nascente. Per questa e per altre ragioni è stato avanzata l'ipotesi (Owens 1929) che l'immagine latente, dopo il fissaggio, sia formata da argento circondato di solfuro d'argento.
I tre alogenuri d'argento hanno differente sensibilità: il più sensibile alla luce è il bromuro, viene poi il cloruro, infine l'ioduro. Per la facilità di riduzione da parte dei rivelatori l'ordine, invece, è: cloruro, bromuro, ioduro. Il più importante per la fotografia è il bromuro; gli altri due sono usati soltanto insieme con esso: il cloruro nelle emulsioni lente per positive, l'ioduro nelle più rapide emulsioni per negative. Il bromuro d'argento, formato in soluzione acquosa, in assenza di gelatina e di altri colloidi, è ridotto dai rivelatori anche quando non ha subito l'azione della luce; perciò non ha valore per la fotografia. Per gli usi fotografici, lo si prepara nell'oscurità e in seno alla soluzione di gelatina, per doppia decomposizione del nitrato d'argento AgNO3 e del bromuro di potassio KBr (o altro bromuro) secondo la reazione:
Come risulta dall'equazione, si forma anche del nitrato potassico, che si elimina lavando con acqua. La gelatina mantiene il bromuro d'argento in sospensione.
Un tempo si credeva che il bromuro si trovasse in diverse forme, ma è ormai riconosciuto che dalla sospensione colloidale di particelle ultra-microscopiche alle particelle più grandi si hanno sempre cristalli della stessa natura.
L'aggiunta di piccole quantità di ioduro d'argento alle emulsioni alla gelatina-bromuro consente di spingere più avanti la maturazione (v. oltre) e con ciò di ottenere emulsioni più sensibili senza troppo pericolo di velo (v. oltre). Le emulsioni che contengono i due sali dànno negative più brillanti, di maggior densità e con più forti contrasti; inoltre, l'emulsione è più sensibile alle radiazioni di maggior lunghezza d'onda. Un tempo si credeva che si formasse un bromo-ioduro d'argento; si è trovato, invece, che l'ioduro entra nei cristalli di bromuro, i quali sono più instabili - e perciò più sensibili - appunto perché contengono due sali diversi. I cristalli grossi contengono ioduro in maggior proporzione che i piccoli.
Esaminata al microscopio sotto un forte ingrandimento, l'emulsione ha l'aspetto delle figure 27, 28, 29. I granuli d'alogenuro d'argento, di varia grandezza e di varia forma, sono incorporati in numero grandissimo (da 1 a 4 milioni al cmq.) nella gelatina; hanno struttura cristallina; alcuni sono opachi e altri trasparenti, ma non c'è differenza fra le proprietà degli uni e quelle degli altri. I più grossi arrivano a 3 o 4 micron di diametro; con la maturazione si ottengono anche cristalli da 8 micron. Oltre a quelli microscopici che si vedono in figura, ve ne sono di ultramicroscopici, i quali hanno anch'essi struttura cristallina. Ogni emulsione contiene granuli di differente grandezza. La sensibilità cresce con la grandezza dei granuli e, in generale, le emulsioni più sensibili hanno granuli più grossi. Però, i granuli di eguale grandezza di una stessa emulsione non sono tutti egualmente sensibili. È ormai generalmente ammesso che la differenza dipenda dalla presenza, sulla superficie o nell'interno dei granuli, di tracce di sostanze diverse dall'alogenuro (dette da J. M. Eder "centri di maturazione") le quali sono i punti di partenza per la formazione dell'immagine.
Si chiama maturazione dell'emulsione l'ingrossamento dei granuli di bromuro d'argento, che determina l'aumento della sensibilità alla luce e che è promosso o accelerato da certi componenti naturali della gelatina, dall'aggiunta di certe sostanze, dalla digestione a caldo, ecc.
Dal diagramma della fig. 30 nel quale le curve dànno, per le due lastre, la percentuale dei granuli di determinata grandezza, si vede che la prima più lenta, ha granuli più piccoli e di grandezza più uniforme: la curva a è quella di una lastra da diapositive, la b quella di una lastra da ritratti. Alcuni ritengono che i centri di maturazione siano tracce di argento colloidale, ma le ricerche dello Sheppard sembra abbiano provato che si tratta, invece, di solfuro d'argento, proveniente dalla reazione della sostanza sensibilizzatrice (v. oltre) con l'alogenuro d'argento. Secondo lo Sheppard, la loro azione si esercita sullo sviluppo dei granuli, più che nella loro modificazione quando sono esposti alla luce: essi concentrerebbero intorno a sé gli atomi d'argento che non hanno subito l'azione fotochimica, formando un nucleo d'argento metallico sufficientemente grande per rendere sviluppabile il granulo. Secondo altri, indebolirebbero i cristalli d'alogenuro d'argento e l'azione fotochimica si concentrerebbe nelle zone così indebolite.
Sostanze sensibilizzatrici. - Nel laboratorio di ricerche Eastman si è trovato che la proprietà sensibilizzatrice della gelatina è dovuta alla presenza di piccolissime quantità (1-3 parti su 1.000.000) di un isosolfocianato di allile (C3H5NCS) il quale reagisce facilmente con l'ammoniaca formando un tiocarbamide (tiourea) secondo la reazione:
Con l'aumento della concentrazione della tiourea la sensibilità cresce fino ad un certo punto, poi diminuisce; il massimo varia con la composizione dell'emulsione. In un caso, con gr. 0,0146 di tiourea per 100 gr. di alogenuro d'argento, la sensibilità salì da 19 gradi H. D. e 3000 H. D. Nelle discussioni che seguirono alla pubblicazione dei lavori del laboratorio Eastman, fu reso noto che già nel 1906 Lumière e Seyewetz, per estrazione della gelatina con acqua fredda e successiva concentrazione, avevano ottenuto una sostanza che permetteva di migliorare la maturazione di una gelatina insensibile, e, nel 1910, avevano usato allo stesso scopo la tiocarbamide e il solfocianato di guanidina.
L'azione sensibilizzatrice della tiourea dipende dal gruppo
Dalle ricerche del laboratorio Eastman, pubblicate dallo Sheppard, risultò che hanno azione sensibilizzatrice certe sostanze che contengono un atomo bivalente di zolfo, di selenio o di tellurio, unito con doppia legatura a un metalloide legato, alla sua volta, con uno o più gruppi di altri atomi. L'attività di queste sostanze fu studiata in soluzione acquosa: da esse si separa lentamente zolfo, selenio o tellurio che, sui granuli di bromuro d'argento, formano germi ultramicroscopici di Ag2S, Ag2Se o Ag2Te: questi germi si scompongono con straordinaria facilità e, durante lo sviluppo, determinano un'energica riduzione del bromuro d'argento. Le ricerche del laboratorio dell'Agfa (I. G.) portarono a riconoscere che hanno azione sensibilizzatrice dei sali solubili contenenti almeno tre atomi di zolfo, selenio o tellurio nell'anione e anche dei composti organici contenenti uno o più atomi di zolfo con semplice legatura. L'aumento del contenuto in zolfo fa aumentare la sensibilità dell'emulsione; la I. G. ha brevettato l'uso, a questo scopo, di solfuro di sodio oppure di bisolfuro di carbonio. Oltre alla alliltiourea, lo Sheppard ha elencato come sostanze sensibilizzatrici la tiosemicarbazide e il tiososolfato di sodio; la I. G. la codeina, la dietilammina, i derivati dall'iminazolo, il tritionato e il tetrationato di sodio e i composti del tiazolo e della cistina. La maggior parte dei sensibilizzatori elencati, compresa la tiourea, non hanno azione quando l'emulsione è neutra e maturata per riscaldamento anziché con l'ammoniaca; anche in questo caso, secondo la I. G., essa può essere sensibilizzata coi bisolfuri organici. Il comportamento di molte gelatine contenenti sostanze sensibilizzatrici ha portato alla conclusione che nella gelatina sono contenute anche sostanze che ostacolano la maturazione e che permettono di ottenere una maggiore sensibilità senza pericolo di velo. In seguito a questa osservazione si è combattuta, con aggiunte di giallo tiazolo o d'imidazolene la tendenza al velo di certe gelatine. Lo Sheppard ha sostenuto che queste sostanze arrestano lo sviluppo perché, reagendo con gli alogenuri, formano composti complessi vicino alla superficie di contatto solfuro d'argento-alogenuro.
Maturazione. - Qualunque sia la sua composizione, l'emulsione è poco sensibile appena preparata mescolando i reagenti; se la si lascia riposare la sensibilità aumenta. Però questa maturazione a freddo non dà emulsione di sensibilità sufficiente per la pratica fotografica. Per ottenere emulsioni rapide, si fanno maturare col calore delle emulsioni acide o neutre; per avere emulsioni ancor più rapide si usano emulsioni alcaline, trattate con ammoniaca o carbonati alcalini, eventualmente anche riscaldando. L'ammoniaca è più efficace; essa può essere aggiunta un poco dopo l'emulsificazione, oppure dopo che l'emulsione è stata maturata per riscaldamento e si è raffreddata a 30°. Se ne usa una piccola percentuale, altrimenti dà tendenza al velo. Pare che la sua azione dipenda dalla formazione di sostanze sensibilizzatrici, come l'alliltiourea. Per una data emulsione, la sensibilità cresce con la durata della maturazione, fino a un massimo che dipende dalla concentrazione in ioni idrogeno (pH).
Durante la maturazione aumenta la grossezza dei cristalli dell'alogenuro d'argento: i più piccoli si uniscono ai più grandi. Come si è detto, per molto tempo si è supposto che, durante la maturazione, l'alogenuro d'argento fosse ridotto a sotto-alogenuro, oppure che si combinasse chimicamente con la gelatina, oppure che si formasse dell'argento colloidale. I lavori dello Sheppard, senza escludere la formazione di argento colloidale, hanno dimostrato che il fenomeno più importante è la formazione di sensibilizzatori i quali, reagendo con l'alogenuro, formano germi molto sensibili di solfuro d'argento nel granulo dell'alogenuro stesso.
Una maturazione eccessiva dà emulsioni a granuli grossi (talvolta anche visibili ad occhio nudo) e la lastra si vela durante lo sviluppo, fino a diventare nera anche quando non è stata esposta alla luce. Tutti i processi che dànno lastre estremamente sensibili hanno tendenza al velo. Un'emulsione leggermente acida, maturata col calore, ha meno tendenza al velo di una neutra; perciò si usa aggiungere tracce di acido; tuttavia un'acidità eccessiva ritarda la maturazione e danneggia la gelatina.
Ortocromatismo. - È noto che l'occhio umano percepisce soltanto alcuni dei raggi che costituiscono la luce solare, dei quali sembrano più brillanti quelli appunto che sono meglio percepiti. L'emulsione fotografica ordinaria alla gelatina-bromuro presenta lo stesso fenomeno; tuttavia i colori che esercitano la maggior azione sulla lastra non sono quelli stessi che sembrano più brillanti all'occhio: la differenza risulta chiara dal diagramma fig. 31, dove le ascisse rappresentano le lunghezze d'onda e le ordinate l'effetto dei varî raggi rispettivamente sull'occhio umano (curva a) e sulla lastra fotografica ordinaria (curva b). Si vede che per l'occhio umano i raggi più luminosi sono quelli giallo-arancio (lunghezza d'onda 5900 Å) mentre i raggi violetti sono poco visibili e quelli ultravioletti non lo sono affatto; invece, i raggi che esercitano maggior azione sulla lastra fotografica sono quelli violetti ed essa è sensibile anche agli ultravioletti, invisibili, mentre è praticamente insensibile proprio a quei raggi giallo-arancio che all'occhio sembrano più brillanti. I tre alogenuri d'argento differiscono notevolmente l'uno dall'altro per la sensibilità ai colori, come si rileva dal diagramma della fig. 32, nel quale le linee piene si riferiscono a esposizioni normali e le punteggiate a esposizioni eccezionalmente lunghe.
A questo difetto delle emulsioni fotografiche, dopo le scoperte di H. W. Vogel, si è rimediato aggiungendo agli alogenuri d'argento piccole quantità (1/1000 a 1/75.000) di certe sostanze coloranti, che li rendono sensibili anche ai raggi verdi, gialli e rossi. Si hanno così le emulsioni ortocromatiche e pancromatiche, le prime sensibili al giallo e al verde, le seconde anche al rosso. Il principio fondamentale dell'ortocromatismo è la legge di Draper secondo la quale possono agire chimicamente su una sostanza solo quei raggi che sono assorbiti da essa. Una sostanza colorante sensibilizza l'emulsione per i raggi che essa assorbe; però il massimo dell'assorbimento quando si trova in seno all'emulsione non corrisponde al colore della sostanza colorante pura, ma è sempre spostato verso il rosso. I sensibilizzatori sono adsorbiti alla superficie dei cristalli d'alogenuro. Pare che non ci sia rapporto fra struttura chimica e proprietà sensibilizzatrici delle sostanze coloranti. Tutti i più attivi sensibilizzatori moderni hanno un carattere comune: il loro colore non è puro: sono perciò sostanze coloranti poco adatte alla tintoria.
Il Vogel consigliò parecchi coloranti, specialmente il rosso naftalina, il violetto metile, la cianina; il Waterhouse trovò che l'eosina era un potente sensibilizzatore per il verde e per il giallo. E. König nel 1903 scoprì le proprietà sensibilizzatrici delle isocianine, fra le quali il rosso etile impartisce una sensibilità abbastanza regolare dall'ultra-violetto all'arancio; nel 1905 scoprì che le carbocianine erano più efficaci per impartire sensibilità ai raggi rossi. Si sono poi scoperti dei potenti sensibilizzatori per il verde: le tioisocianine. Attualmente si usano i seguenti sensibilizzatori: a) per l'azzurro-verde e il verde , (4800-5100 Å): il Pinaflavol; b) per il verde e il verde-giallo (5100-5700 Å): esosine e specialmente l'eritrosina; c) per il verde e l'arancio (5800-6200 Å): le isocianine, come il rosso etile e suoi omologhi, Orthochrom T e Pinaverdol (detto anche Sensitol-green, Olochrome) specialmente per le radiazioni più vicine al rosso; d) per il giallo e il rosso chiaro (5800-6500 Å): le isocianine, fra le quali il Pinachrom e il violetto Pinachrom; e) per l'arancio e il rosso (5900-7500 Å): il Pinacyanol; f) per il rosso e il rosso scuro (6200-7500 Å): il blu di Pinachrom e il blu Pinacyanol I. G., il Naphtocyanol Eastman Kodak. Le dicianine sono energici sensibilizzatori per il rosso scuro e con lunghe esposizioni arrivano fino all'infrarosso; g) per l'infrarosso (oltre 7500 Å): la Kryptocyanin della Eastman Kodak (per radiazioni di 6400-7900 Å) e la Rubrocyanin I. G., che ha la stessa composizione; la Neocyanin Eastman Kodak (per radiazioni di 6900-9100 Å) e l'Allocyanin I. G., identica alla precedente. Nel diagramma della fig. 33 (nel quale le ascisse sono le lunghezze d'onda e le ordinate i logaritmi dell'intensità d'illuminazione) è riportato l'effetto di alcuni sensibilizzatori nella fotografia di uno spettro solare. Le esposizioni cui si riferiscono le prime otto curve sono di eguale durata; la nona ha un'esposizione di durata decupla.
Le emulsioni ortocromatiche del commercio sono sensibilizzate quasi esclusivamente con eritrosina. Per emulsioni pancromatiche si usò per lungo tempo il Pinachrom insieme col violetto Pinachrom; ora è molto usato il violetto Pinachrom con altre isocianine, come l'Orthochrom T. Le pellicole Kodak-K e Agfa-R, che servono per fotografie notturne, sono sensibilizzate con Neocyanin e Rubrocyanin. Non si conosce nessun sensibilizzatore che da solo sensibilizzi egualmente per tutti i colori dall'azzurro al rosso. La maggior parte dei sensibilizzatori, usati insieme, si disturbano reciprocamente; meglio degli altri si combinano le isocianine. I sensibilizzatori sono mescolati all'emulsione prima di stenderla sulla lastra; si possono trattare con essi anche lastre ordinarie; questo secondo modo di operare dà emulsioni più sensibili le quali, tuttavia, si conservano meno bene.
Ipersensibilizzazione (ultrasensibilizzazione). - Con l'uso di sensibilizzatori chimici insieme a quelli ottici si può aumentare fortemente la sensibilità delle emulsioni per determinate zone dello spettro a danno, però, della loro buona conservazione. Le emulsioni così trattate, essendo molto più sensibili alle radiazioni gialle, rosse e rosso-scure, lo sono anche alla luce delle lampade Nitra, del petrolio, del gas ad incandescenza, e anche alla luce naturale del crepuscolo (che è ricca di raggi rossi) e a quella di molte stelle. Sono in commercio pellicole ipersensihilizzate che si conservano bene per parecchie settimane. Così la Superpan dell'Agfa (I. G) la cui sensibilità, che si estende fino al rosso-scuro, alla luce di lampade Nitra è più che doppia di quella delle migliori pellicole pancromatiche. La Superpan-S è 3 o 4 volte più sensibile delle pellicole pancromatiche ordinarie e si conserva per 8 giorni. Dello stesso genere è la Nox della Zeiss-Ikon. Un processo di ipersensibilizzazione affatto diverso è quello che consiste nell'eliminazione del bromuro solubile che tutte le lastre e le pellicole del commercio contengono e che serve ad assicurarne la buona conservazione diminuendone la sensibilità. Lo si può eliminare lavando in acqua per pochi minuti. L'eliminazione è accelerata e completata se invece di acqua pura si usa una soluzione acquosa di un sale solubile d'argento, l'ione d'argento del quale si combina con l'ione di bromo o di cloro esistente nell'emulsione formando un alogenuro d'argento. L'aumento di sensibilità è ancora maggiore se la soluzione contiene dell'ammoniaca. Dopo il trattamento è necessario essiccare rapidamente. Insieme col vantaggio dell'aumento di sensibilità, questi trattamenti presentano lo svantaggio del maggior pericolo di velo.
Recentemente l'ipersensibilizzazione ha assunto notevole importanza. Serve per fotografie di notte, con l'illuminazione stradale, per fotografia e cinematografia a colori, per fotografia aerea, per cinematografie mediche e per cinematografia in genere.
Filtri colorati. - Le migliori lastre ortocromatiche e pancromatiche moderne non arrivano ad avere la stessa sensibilità dell'occhio: l'azzurro e il violetto impressionano fortemente la lastra la quale, inoltre, è sensibile anche all'ultra-violetto che l'occhio non vede. Per completare la correzione si usano dei filtri colorati, che intercettano alcune radiazioni e generalmente sono costituite da lenti montate davanti all'obbiettivo. Un buon filtro ortocromatico assorbe completamente i raggi ultra-violetti e parzialmente quelli azzurri e violetti; non assorbe gli altri. In certi casi, più che a riprodurre i colori nella loro giusta intensità, si mira a creare dei contrasti, p. es. per distinguere l'uno dall'altro due colori che all'occhio appariscono egualmente brillanti. In altri casi si deve fotografare soltanto un colore, come nella fotografia tricroma, e si usa un filtro che non lascia passare nessuno degli altri colori. Per la scelta dei filtri occorre ricordare che gli oggetti rossi assorbono la luce azzurra e la verde; quelli verdi assorbono l'azzurra e la rossa, quelli azzurro-scuri assorbono la verde e la rossa; quelli gialli assorbono l'azzurra; quelli porpora la verde, quelli azzurro-chiari e azzurro-verdi la rossa. Talvolta, anziché da vetri, il filtro è costituito da sostanze coloranti incorporate nell'emulsione: si hanno così le cosiddette lastre senza filtro. Tutti i filtri colorati, assorbendo i raggi che hanno azione fotochimica maggiore, impongono esposizioni più lunghe; sicché in pratica si rinunzia alla correzione perfetta, contentandosi di quella che è strettamente necessaria per ottenere una fotografia soddisfacente.
Sensitometria. - La misura della sensibilità delle emulsioni ha grande importanza per la pratica fotografica e ancor più per le ricerche di laboratorio. Per molto tempo la sensitometria si fondò sul vecchio metodo del valore liminale (ingl. threshold, ted. Schwellenwert) il quale consiste nel determinare la minima quantità di luce che, dopo lo sviluppo, dà un annerimento visibile in una determinata emulsione. Questo metodo non forniva tutti i dati necessarî per caratterizzare il comportamento di un'emulsione in tutte le condizioni imposte dalla pratica. Si deve a Hurter e Driffield il metodo moderno, il quale consiste nel determinare i diversi gradi di annerimento che si ottengono esponendo differenti parti di una stessa emulsione per tempi diversi a una luce d'intensità costante. Si ottiene così una curva caratteristica, come quella della fig. 39.
Per la legge di reciprocità di Bunsen e Roscoe (la quale, però, è valida entro certi limiti), la curva caratteristica determinata col metodo Hurter e Driffield, cioè con intensità di luce costante e durata di esposizione variabile, permette di prevedere esattamente quel che avverrà nella camera oscura, dove i diversi punti illuminati di una stessa lastra sono esposti tutti per un tempo eguale a luce d'intensità diversa.
Si chiama opacità la resistenza che un corpo oppone al passaggio della luce; essa è misurata dal rapporto I/Ix fra la quantità di luce I che cade su un lato del corpo stesso e quella Ix che esce dal lato opposto, situato alla distanza x dal primo. La trasparenza è rappresentata invece dal rapporto inverso, Ix/I. La densità è stata definita da Hurter e Driffield come il logaritmo decimale del valore dell'opacità; cioè, essa è misurata da log I/Ix.
Per il tracciamento della curva caratteristica, Hurter e Driffield presero come ordinate le densità e per ascisse i logaritmi decimali della durata dell'esposizione, misurata in secondi, perché esiste un rapporto semplice fra queste due quantità e in certe condizioni la curva si riduce a una retta.
La sensibilità si misura con apparecchi detti sensitometri che servono a dare alle emulsioni sensibili una serie di esposizioni con quantità di luce crescente secondo un rapporto noto. Ve ne sono di due tipi diversi: negli uni si fa variare l'intensità della luce; negli altri si fa variare la durata dell'illuminazione. Il sensitometro Eder-Hecht (fig. 36), detto anche cuneo grigio (ingl. optical wedge, ted. Graukeil) è costituito da un cuneo di gelatina trasparente colorata in grigio che riposa su una lastra di cristallo; per effetto dell'aumento di spessore, l'opacità aumenta gradualmente. La lastra da sperimentare si impressiona collocandola sotto il sensitometro e interponendo un foglio di celluloide che porta una scala graduata. Dopo lo sviluppo, la negativa riproduce la scala del foglio di celluloide, nitida dalla parte del taglio del cuneo, sempre più debole man mano che si procede verso la parte opposta (fig. 37). Nella lettura si tiene conto soltanto dei numeri ben visibili e netti; date due lastre di differente sensibilità, la più sensibile porterà segnato un maggior numero di gradi. Per determinare la sensibilità delle lastre ortocromatiche e pancromatiche, il sensitometro Eder-Hecht porta quattro strisce di gelatina colorate rispettivamente in blu, verde, giallo e rosso, che agiscono anch'esse da filtri colorati d'intensità crescente. Praticando opportune correzioni alle letture, la sensibilità ai diversi colori si esprime in centesimi della sensibilità al blu. Il sensitometro usato da Hurter e Driffield era sostanzialmente costituito da una lampada situata dietro uno schermo rotante, che portava finestre in forma di settori circolari con angoli al centro ciascuno doppio del precedente; si otteneva così una serie di esposizioni di durata crescente, secondo una progressione geometrica. Dello stesso tipo è il sensitometro Scheiner (fig. 38). I sensitometri ad esposizione intermittente sono stati oggi sostituiti, per le determinazioni commerciali, da macchine ad esposizione continua, che operano in condizioni più esattamente paragonabili a quelle della pratica; sono di questo tipo le macchine Jones e Higson. Attualmente si usano sempre più le lampade elettriche, che sono più comode ma presentano il rischio della mancanza di uniformità della luce se non si controlla accuratamente la tensione della corrente. Dopo lo sviluppo, il fissaggio, il lavaggio e l'asciugamento, le densità si misurano con un fotometro, preferibilmente con quello Martens a polarizzazione (vedi fotometria). Secondo il metodo Jacobsohn-Neugebauer si classificano le emulsioni rispetto al loro maggiore o minore ortocromatismo, determinandone le sensibilità sotto un sensitometro Eder-Hecht con luce di magnesio a 3 m. e calcolando la differenza fra gradi letti per il giallo e per il blu rispettivamente, che può essere positiva oppure negativa; nel primo caso la lastra è più sensibile al giallo che al blu; meno sensibile nel secondo. In corrispondenza alla differenza sono stabiliti i gradi di ortocromasia.
Curva caratteristica. - Inerzia. - Fattore di contrasto. - La fig. 39 rappresenta una tipica curva caratteristica. Si vede che la densità partendo da zero dapprima cresce molto lentamente, poi rapidamente con la durata dell'esposizione; da a fino a b la curva ha un tratto rettilineo, il che significa che c'è un rapporto costante fra aumento della densità e' aumento della durata dell'esposizione; a partire da b la densità aumenta lentamente fino a un massimo in c, dopo il quale essa diminuisce col crescere dell'esposizione. Il tratto b d della curva corrisponde a esposizioni lunghissime, che non si raggiungono in pratica. La retta ab interseca l'asse delle ascisse nel punto p. Il segmento Op misura la cosiddetta inerzia dell'emulsione; la tangente γ dell'angolo α compreso fra l'asse delle ascisse e la retta ab misura il fattore di contrasto, chiamato da Hurter e Driffield gamma dell'emulsione stessa.
Se si prendono sulla retta ab due punti, ai quali corrispondono le densità D1 e D2 e le durate di esposizione E1 ed E2, il valore del fattore di contrasto è dato dalla formula
Il tratto a b della curva caratteristica è quello che interessa maggiormente il fotografo. Nella massima parte dei soggetti l'illuminazione varia da un punto all'altro secondo una progressione geometrica; sicché l'opacità di una negativa che riproduca fedelmente i toni del soggetto deve variare anch'essa secondo una progressione geometrica. In base a semplici considerazioni matematiche si dimostra che questo si verifica appunto per le esposizioni corrispondenti al tratto rettilineo ab della curva caratteristica. Hurter e Driffield chiamarono questo tratto periodo della rappresentazione corretta o della esposizione corretta; il tratto Oa, periodo della sotto-esposizione; il tratto bd, periodo della sovra-esposizione (esso è detto anche della solarizzazione). Col crescere della durata dell'esposizione, l'opacità della negativȧ cresce tanto più rapidamente quanto maggiore è l'inclinazione della retta a b rispetto all'asse delle ascisse; cioè, quanto maggiore è il gamma. Considerando una lastra esposta nelle condizioni ordinarie, se la retta a b si avvicina all'orizzontale si ha una negativa di tono uniforme con deboli contrasti, se la a b si avvicina alla verticale si ha una negativa con fortissimi contrasti. Entro i limiti dell'esposizione corretta, oltre a misurare il grado di contrasto della negativa, il gamma esprime anche la relazione fra i contrasti della negativa e quelli del soggetto. Se γ è minore di 1 il contrasto della negativa è minore di quello del soggetto; se γ è maggiore di 1, il contrasto della negativa è maggiore di quello del soggetto; se γ è uguale ad 1 il contrasto del soggetto è fedelmente riprodotto: questo si verifica quando la a b fa un angolo di 45° con l'asse delle ascisse.
Fin qui si sono considerate curve caratteristiche ottenute sviluppando la negativa col medesimo rivelatore e per la medesima durata di tempo. Col crescere della durata dello sviluppo, l'inclinazione della a b cresce (figg. 40, 41); in altre parole, il fattore di contrasto dipende anche dalla durata dello sviluppo e cresce con essa fino a un certo punto, detto gamma infinito (γ∞), che dipende dalla natura dell'emulazione e il cui valore si calcola con apposite formule. Se si prolunga lo sviluppo dopo raggiunto il gamma infinito, si manifesta il velo chimico e il contrasto si riduce anziché aumentare.
Le emulsioni veloci per ritratti hanno un basso gamma infinito, perché, in questo caso, un forte grado di contrasto sarebbe non solo inutile, ma dannoso; invece, hanno un alto gamma infinito le lastre per fototipia, che debbono dare forti contrasti. I rapporti fra le densità non sono alterati da un aumento nella durata dello sviluppo: è questa la legge dei rapporti costanti fra le densità di Hurter e Driffield. Il rapporto esatto fra i toni della negativa dipende dalla durata dell'esposizione; la durata dello sviluppo non fa che determinare la differenza fra i toni e cioè, se non si è ottenuto il giusto rapporto fra le diverse densità con una esposizione giusta, non è possibile ottenerlo nel lo sviluppo, perché non si può far variare una densità senza far variare anche le altre.
La lunghezza del tratto rettilineo della curva caratteristica misura la cosiddetta latitudine di esposizione. Da questa e dalla differenza di illuminazione dei diversi punti del soggetto dipende la latitudine di esposizione dell'emulsione. Si abbia, infatti (figura 42), una curva caratteristica il cui tratto rettilineo si estende dall'esposizione di durata 8 secondi all'esposizione di 512 secondi. Se l'intensità della illuminazione nei diversi punti del soggetto varia come da 8 a 128, i rapporti fra i diversi toni del soggetto saranno fedelmente riprodotti anche con una esposizione di durata quadrupla della normale; se, invece, l'illuminazione del soggetto varia come da 8 a 256, si potrebbe soltanto raddoppiare la durata dell'esposizione senza uscire dal periodo della rappresentazione corretta. Nel primo caso la latitudine di esposizione sarebbe 1-4; nel secondo caso, 1-2.
A differenza di quanto ammettevano Hurter e Driffield, non è detto che il fotografo debba utilizzare soltanto il tratto a b della curva caratteristica; in altri termini, non è detto che egli, usando una certa lastra, debba limitarsi al periodo delle esposizioni corrette di Hurter e Driffield; egli può anche fare esposizioni più brevi, cioè utilizzare, p. es., il tratto a′b della curva caratteristica (fig. 43). Per ragioni dipendenti dal comportamento delle emulsioni per positive si è visto che in certi casi, e particolarmente per i ritratti, così facendo si ottiene una fotografia più corrispondente all'impressione che l'occhio riceve dal soggetto.
L'inerzia (distanza Ob) è tanto minore, quanto più sensibile è la lastra. Essa costituisce una buona misura della sensibilità. I gradi Hurter e Driffield (H. D.) sono appunto ottenuti dividendo un fattore costante per il valore dell'inerzia. Fare esposizioni corrispondenti al primo tratto della curva è lo stesso che attribuire alla lastra una velocità maggiore della normale; ma quel che si è detto sopra vale anche in questo caso, perché l'inerzia si può considerare minore (OA′ invece di OA, v. fig. 43).
Negativa.
Con l'esposizione alla luce si forma nell'emulsione fotografica un'immagine latente costituita dai granuli di alogenuro d'argento impressionati dalla luce i quali, in un bagno di sviluppo che ha per costituente principale un rivelatore, vengono ridotti ad argento metallico; si ottiene così la negativa dell'immagine del soggetto. Rimangono inalterati i granuli che non hanno subito l'azione della luce; in un bagno di fissaggio essi vengono trasformati in un sale solubile in acqua, che viene eliminato col lavaggio; così si evita che, portando la negativa in un locale illuminato, per azione della luce e del rivelatore essa diventi uniformemente oscura. Le negative, per difetti delle lastre o delle pellicole oppure per errori nelle loro manipolazioni, possono presentare diversi difetti, molti dei quali non sono eliminabili; in certi casi, però, si possono correggere, p. es. con l'indebolimento o col rinforzo.
Nelle emulsioni fotografiche si può formare un'immagine latente anche senza esposizione alla luce, per azione di diverse sostanze (acqua ossigenata, sostanze organiche che nell'aria umida formano acqua ossigenata, arsenito di sodio, ossalato ferroso, ipofosfito di sodio, ecc.). L'immagine latente, qualunque ne sia l'origine, può essere eliminata per mezzo di sostanze ossidanti, quali il cianuro potassico, il permanganato acido di potassio, l'acido cromico, ecc.
Teoria dello sviluppo. - Lo sviluppo è un processo che comprende diverse fasi. Nella fase dell'invasione, la soluzione del rivelatore si diffonde dentro l'emulsione, fino a raggiungere i granuli di alogenuro di argento che sono stati modificati dalla luce; nella fase della riduzione, l'alogenuro è ridotto ad argento metallico che resta in soluzione; nella fase della precipitazione, l'argento metallico precipita e si forma l'immagine visibile. Infine, si hanno diversi fenomeni fisico-chimici, che fanno aumentare l'intensità e i contrasti dell'immagine.
La struttura della gelatina è ancora oggetto di discussioni; ma, per spiegare la fase dell'invasione, si ammette che essa sia formata da cellule irregolari (fig. 44) che contengono i granuli di alogenuro d'argento (segnati in nero nella fig. 44, b) ed hanno le pareti formate da gelatina più consistente. La soluzione del rivelatore, in pochissimi secondi si diffonde per le intercapedini e arriva alle pareti delle cellule, che le oppongono maggiore resistenza sicché, per superarle, occorre un tempo assai più lungo: fino ad un minuto. Solo allora comincia la riduzione dell'alogenuro e argento metallico. Siccome la soluzione del rivelatore si diluisce a mano a mano che penetra nell'emulsione, i granuli più vicini alla superficie sono già ridotti, quando il rivelatore invade le cellule più interne. Una volta penetrato dentro la cellula gelatinosa e sciolto l'alogenuro d'argento, secondo le idee più moderne sia l'alogenuro sia il rivelatore si dissociano: il catione d'argento si unisce ad un anione del rivelatore che ne neutralizza la carica elettrica positiva e si forma argento metallico. L'anione di bromo va a formare un bromuro metallico oppure organico, secondo la natura del rivelatore. Se questo è idrochinone, si ha:
L'idrochinone ionizzato perde due anioni che si uniscono coi due cationi d'argento neutralizzandoli e formando argento metallico; i due ioni di ossigeno si uniscono formando chinone e l'anione di bromo si unisce col catione di sodio formando bromuro di sodio.
Finita così la riduzione, comincia la precipitazione. L'argento metallico è allo stato colloidale e, a mano a mano che la reazione procede, si forma dell'altro argento metallico finché la soluzione ne è satura. A questo punto la reazione si arresterebbe se non esistesse in seno all'emulsione la sostanza modificata per azione della luce: questa sostanza costituisce il seme che determina la precipitazione dell'argento, il quale forma l'immagine visibile. A mano a mano che precipita argento, diminuisce la concentrazione all'interno della cellula e la reazione può procedere oltre portando alla precipitazione di altro argento. Basta una traccia della sostanza modificata dalla luce per rendere sviluppabile tutto il bromuro d'argento contenuto nella cellula; perciò, una volta che il rivelatore vi è penetrato, essa viene completamente sviluppata. Per effetto della scarsa solubilità dell'argento, lo sviluppo resta localizzato dentro la cellula; cioè, una cellula viene completamente sviluppata, oppure non lo è affatto. Con lo sviluppo anneriscono solo i granuli di alogenuro di dimensioni maggiori di un certo minimo; non anneriscono quelli più piccoli; la dimensione minima dei granuli che annerriscono dipende dalla durata dell'esposizione.
Dal punto di vista chimico, lo sviluppo è una reazione reversibile. Mees e Sheppard hanno dimostrato che, p. es., il chinone e il bromuro di potassio formatisi nello sviluppo all'idrochinone, agendo su una lastra esposta e sviluppata, formano nuovamente il bromuro d'argento. In pratica, questa ricostituzione dell'immagine latente è impedita dagli alcali e dai solfiti che accompagnano i rivelatori organici nei bagni di sviluppo.
Si chiama periodo d'induzione quello che passa fra il momento in cui si applica all'emulsione il bagno di sviluppo e quello in cui comincia ad apparire l'immagine. La sua durata dipende dalla natura del rivelatore, dalla concentrazione e dalla temperatura della soluzione e dalla presenza o meno di un bromuro solubile. Da questi stessi fattori dipende la velocità dell'ulteriore formazione dell'immagine, a partire dal momento della sua prima apparizione. Come si è detto prima per lastre eguali ed esposte nelle stesse condizioni, il fattore di contrasto γ cresce con la durata dello sviluppo, fino ad un certo punto, detto gamma infinito (γ∞; figura 45). L'aumento della densità in funzione della durata dello sviluppo è rappresentato dal diagramma della fig. 46. Si vede che esso cresce sempre meno rapidamente, finché si arresta. L'arresto dipende dal fatto che i granuli sviluppabili di alogenuro sono in numero limitato; il rallentamento dal fatto che nell'unità di tempo viene sviluppata solo una certa percentuale dei granuli sviluppabili, il cui numero decresce col progredire dello sviluppo. Anzi, per la maggior parte dei rivelatori c'è un rapporto costante fra il numero dei granuli che vengono sviluppati nell'unità di tempo e quello dei granuli sviluppabili che ancora rimangono nell'emulsione. Questo rapporto k, che si chiama costante della velocità di sviluppo, è dato dalla relazione
dove t è il tempo e γ1 e γ2 sono i valori del gamma trovati sperimentalmente per due strisce della stessa emulsione esposte simultaneamente e sviluppate la seconda per un tempo doppio della prima. Se si conoscono i valori di k e di γ∞, si può trovare il valore di un altro gamma qualsiasi, con la relazione:
Questo è utile per i casi in cui nello sviluppo si deve arrivare ad un valore di gamma diverso dal gamma infinito, p. es., le negative che debbono servire per la stampa su carta al carbone oppure su carta al platino si sviluppano ad un gamma maggiore di gamma infinito.
Il rapporto fra le costanti della velocità di sviluppo di un medesimo bagno a differenti temperature è anch'esso una costante che si chiama coefficiente di temperatura, il cui valore è dato dal rapporto
dove kt0 è la costante di velocità alla temperatura t° e k10o il valore della stessa costante a 10°. Il coeffificiente di temperatura dipende dalla natura del rivelatore; p. es., per l'idrochinone è 2,25-2,4.
Rivelatori. - Sono sostanze che riducono ad argento metallico l'alogenuro che ha subito l'azione della luce, lasciando inalterato quello che non l'ha subita. Fra le molte sostanze dotate di questa proprietà, solo alcune sono praticamente usabili per lo sviluppo delle emulsioni fotografiche; altre (p. es. il citrato di ferro) hanno azione troppo debole; altre producono il velo chimico; altre ancora (p. es. le idrazine) nello sviluppo dànno prodotti dannosi. Per essere adoperati i rivelatori debbono essere solubili in acqua. Tutti i rivelatori moderni sono dei fenoli, mono-, bi- o tri sostituiti. Le fommle di struttura dei principali sono riportate qui di seguito.
Perché una sostanza funzioni da rivelatore, è necessario che nella sua molecola vi siano ossidrili OH oppure gruppi aminici NH2, semplici o combinati. E cioè, col nucleo benzenico debbono esservi almeno due ossidrili, oppure due gruppi aminici, oppure un ossidrile e un gruppo aminico. Questi gruppi debbono trovarsi nelle posizioni orto o para; i meta sostituiti non hanno potere rivelatore, perché non esistono i corrispondenti prodotti di ossidazione. In generale, i para sostituiti sono più energici degli orto sostituiti. In quelli che posseggono tre gruppi attivi, tali gruppi non debbono essere disposti simmetricamente.
I differenti rivelatori hanno potere riduttore differente; il rapporto fra il potere rivelatore di uno di essi e quello di un altro preso come base si chiama potenziale di riduzione, ed è misurato dalla quantità di bromuro potassico necessaria, a parità di altre condizioni, per ottenere con rivelatori diversi la stessa depressione di densità (v. oltre). Prendendo come base il potere riduttore dell'idrochinone, che si pone eguale ad 1, il Nietz trovò: per la glicina, 1,6; per il solfato di dimetilparaminofenolo, 10,0; per il metol, 20,0; per l'amidol, 30-40. In generale, più elevato è il potere riduttore di un rivelatore, più alto è il γ∞; però ci sono parecchie eccezioni. Contrariamente a quanto si potrebbe immaginare, non c'è relazione diretta fra l'attitudine a produrre velo e il potere riduttore di un rivelatore.
Componenti secondarî dei bagni di sviluppo. - Nei bagni di sviluppo i rivelatori sono accompagnati da altre sostanze. Il solfito di sodio serve ordinariamente a conservare il rivelatore ed impedire l'ossidazione della soluzione, che potrebbe esser causa di macchie della gelatina. Gli alcali favoriscono l'ionizzazione del rivelatore e formano sali ionizzati, come nel caso dell'idrochinone.
Il bromuro di potassio e gli altri bromuri solubili evitano il velo (v. oltre). Il bromuro solubile fa diminuire il grado di ionizzazione del bromuro d'argento e, riducendo la concentrazione del catione argento, riduce la velocità della reazione e ritarda la precipitazione dell'argento metallico. L'aggiunta di bromuro solubile ha un effetto simile a quello di una riduzione della velocità della lastra. La sua azione si fa sentire specialmente nelle prime fasi dello sviluppo; l'opacità della negativa risulta minore e i particolari corrispondenti alle parti meno illuminate del soggetto possono anche non apparire affatto. Ma siccome i bromuri evitano il velo, una negativa sviluppata allo stesso fattore di contrasto in un bagno contenente bromuri solubili può dare positive con contrasti maggiori di quella sviluppata allo stesso fattore di contrasto in un bagno senza bromuri. Se le lastre sono sottoesposte, usando un bagno che contiene una piccola quantità di bromuro solubile si può forzare lo sviluppo senza pericolo di velo. Se si guarda al diagramma densità-logaritmo esposizione, l'aggiunta di bromuro solubile allontana le rette a b (v. il paragr. Sensitometria) dall'origine degli assi (figura 47); cioè, fa aumentare l'inerzia e diminuire la velocità della lastra. Le rette ab non convergono in un punto situato sull'asse delle ascisse, ma in un punto P al disotto di questo; la distanza verticale d da P all'asse delle ascisse (figura 48) si chiama depressione della densità.
Velo. - Il velo è costituito da un deposito uniforme d'argento metallico che copre l'immagine, nascondendola parzialmente o completamente. In certi casi dipende dal fatto che l'emulsione è stata esposta alla luce prima o dopo di essere stata impressionata nella camera oscura; in altri casi si tratta di velo chimico, che può dipendere da diverse cause: dalla natura dell'emulsione, dal tempo corso fra la sua preparazione, l'esposizione e lo sviluppo, dal modo in cui la lastra è stata conservata, dalla composizione, dalle impurità e dalla temperatura del bagno di sviluppo, dalla durata dello sviluppo stesso. In pratica, il velo chimico può essere ridotto a proporzioni trascurabili.
Desensibilizzazione. - È un trattamento con soluzioni di sostanze che riducono fortissimamente (anche ad 1/750) la sensibilità dell'emulsione durante lo sviluppo e permettono di compiere a luce giallo-chiara oppure arancio anche quello delle emulsioni pancromatiche che, senza di essa, dovrebbe compiersi a luce così debole da non consentirne il controllo. L'introduzione dei desensibilizzatori, che risale soltanto al 1920, costituisce quindi uno dei più importanti fra i recenti progressi della fotografia. I principali desensibilizzatori sono la fenosafranina, il pinakryptol e il verde pinakryptol, il giallo pinakryptol, lo scarlatto basico N e il cianuro mercurico. La maggior parte di essi si sciolgono nello stesso bagno di sviluppo; qualcuno, invece, si usa in un bagno speciale, che precede quello di sviluppo.
Controllo della durata dello sviluppo. - Al più antico metodo di controllo, che consiste nell'ispezionare la lastra alla luce rossa; si sono aggiunti metodi che permettono di calcolare la durata dello sviluppo. Il metodo fattoriale di Watkins è fondato sul fatto che c'è un rapporto fisso TD/TA = W fra il tempo TD che passa fra il momento dell'immersione della lastra nel bagno di sviluppo e quello in cui si raggiunge una determinata densità e il tempo TA che passa fra il momento dell'immersione e quello della prima apparizione dell'immagine. La costante W è chiamata fattore di Watkins; essa dipende dalla composizione del bagno di sviluppo e il suo valore è dato da apposite tabelle. Questo metodo dà risultati abbastanza corretti; usando un desensibilizzatore, lo sviluppo si compie alla luce gialla e così si può osservare facilmente la prima apparizione dell'immagine. Il metodo del controllo della temperatura, dovuto allo stesso Watkins, si fonda sulla velocità dell'emulsione e sulla composizione e la temperatura del bagno di sviluppo. Le differenti marche di lastre e di pellicole sono divise in classi e per ciascuna classe è prescritta una diversa formula di bagno di sviluppo; determinata la temperatura del bagno, la durata dello sviluppo è data da un'apposita tabella, sicché è superfluo osservare la lastra, che può essere completamente sottratta anche all'azione della luce rossa.
Bagni d'indurimento. - È importante prevenire il rammollimento della gelatina durante lo sviluppo. Se la temperatura del bagno non è superiore a 30° e se si usa un rivelatore abbastanza rapido perché lo sviluppo sia compiuto in tre o quattro minuti, per frenare il rigonfiamento basta sciogliere nel bagno il 10% di solfato di sodio. Altrimenti, dopo lo sviluppo e un breve lavaggio si può trattare con un bagno d'indurimento preparato, p. es., con solfato di sodio e allume di cromo sciolti in acqua; agitando la bacinella per evitare macchie di allume. Se la temperatura è tropicale, si usa invece un bagno alla formalina.
Fissaggio. - Il bagno che serve a fissare l'immagine sciogliendo l'alogenuro d'argento rimasto inalterato ha come costituente principale il tiosolfato di sodio Na2S2O3.5H2O, detto impropriamente iposolfito (il vero iposolfito di sodio, detto ordinariamente idrosolfito, ha la formula Na2S2O4). Anche il cianuro potassico scioglie gli alogenuri, ha però azione troppo energica e scioglie anche l'argento metallico. Col tiosolfato sodico gli alogenuri insolubili formano sali doppî, solubili, che sono eliminati per lavaggio con acqua.
Secondo le vecchie teorie, si avrebbero le seguenti reazioni:
Si formerebbe un tiosolfato d'argento Ag2S2O3 e da questo un tiosolfato doppio d'argento e di sodio Ag2S2O3.Na2S2O3, l'uno e l'altro solubili nel tiosolfato sodico e insolubili in acqua; dal secondo si formerebbe il tiosolfato doppio Ag2S2O3.2Na2S2O3 solubile in acqua. Però, è stato impossibile preparare quest'ultimo sale doppio e, invece, se ne è trovato un altro corrispondente alla formula Na5Ag3 (S2O3)4.3H2O, sicché il Baines ritiene più probabile che si abbiano le seguenti reazioni:
Dopo un certo tempo dall'immersione nel bagno di fissaggio, sparisce lo strato opalescente dell'emulsione. Generalmente si ammette che il fissaggio sia completo quando è trascorso, dal momento dell'immersione nel bagno, un tempo doppio di quello necessario per la sparizione dello strato opalescente. Però si è trovato che, quando il bagno è lontano dall'essere esaurito, il fissaggio è completo al momento della scomparsa dello strato opalescente.
Durata del fissaggio. - Il rapporto k fra la quantità a di alogenuro di argento rimasta nell'emulsione dopo lo sviluppo e quella disciolta nell'unità di tempo è costante. Detta la quantità di alogenuro che rimane nell'emulsione dopo n unità di tempo, sussiste la relazione:
Il valore della costante della velocità di fissaggio k varia con la temperatura e la concentrazione del bagno di fissaggio, è indipendente dalla quantità di alogenuro contenuta nell'emulsione, dalla qualità della gelatina e dall'esser questa indurita o no con formalina od altre sostanze; a parità di altre condizioni è sempre maggiore per le emulsioni al cloruro d'argento che per quelle al bromuro; cresce col diminuire della grossezza dei granuli di alogenuro.
L'influenza della temperatura e della concentrazione del bagno sul tempo necessario per la scomparsa dello strato opalescente è rappresentata in due diagrammi di C. W. Piper. In quello della fig. 49 le ascisse si riferiscono alla concentrazione del tiosolfato, le ordinate ai tempi in minuti. Dall'esame delle curve, ciascuna delle quali è determinata a temperatura costante, si rileva che il tempo dapprima decresce rapidamente con l'aumentare della concentrazione, tocca il minimo alla concentrazione del 40%, poi cresce rapidamente con l'aumentare della concentrazione. Nella figura 50 le ascisse si riferiscono alle temperature, le ordinate ai tempi; dall'esame delle curve, che sono determinate a concentrazione costante, si rileva che, alla concentrazione del 40%, non solo il tempo è minore che alle altre concentrazioni, ma varia relativamente poco con la temperatura; alle altre concentrazioni, il tempo decresce più o meno rapidamente con l'aumentare della temperatura. In pratica non si usano soluzioni al 40% di tiosolfato perché disgregherebbero la gelatina, specialmente nei climi caldi. La rapidità delle soluzioni meno concentrate aumenta con l'aggiunta di cloruro di ammonio, anche perché si forma del tiosolfato di ammonio. L'influenza del cloruro di ammonio è rappresentata graficamente nel diagramma (anch'esso dovuto al Piper) della fig. 51, dove le ascisse si riferiscono alla concentrazione del cloruro, le ordinate ai tempi, le curve alle diverse concentrazioni del tiosolfato di sodio. Si rileva che, se la concentrazione del tiosolfato sodico è del 10-20%, il tempo necessario per il fissaggio è minimo quando la concentrazione del cloruro è del 4-6%. La velocità è massima se si usa una soluzione col 15% di tiosolfato sodico e il 4% di cloruro ammonico. Va osservato, però, che i bagni contenenti cloruro ammonico si esauriscono più rapidamente di quelli semplici.
Esaurimento del bagno di fissaggio. - Un bagno di fissaggio non ha più azione quando è saturo di alogenuro d'argento (p. es. quando contiene il 2% di bromuro d'argento). Il bromuro d'argento è più solubile, l'ioduro meno solubile del bromuro e siccome la maggior parte delle emulsioni contengono ioduro insieme al bromuro, in pratica non si dovrebbero usare bagni contenenti più del 0,6-0,7% di alogenuro d'argento disciolto.
Composizione dei bagni di fissaggio. - I bagni semplici di tiosolfato (iposolfito) sono poco usati, perché sono facilmente inquinati dai prodotti di ossidazione provenienti dai bagni di sviluppo, che macchiano la gelatina; inoltre se la temperatura è alta la gelatina si rammollisce. Si può evitare il primo inconveniente trattando l'emulsione con un acido molto diluito prima d'immergerla nel bagno di fissaggio; ma generalmente si preferisce usare un bagno di fissaggio acido che si prepara aggiungendo, prima dell'acido, del solfito di sodio alla soluzione di tiosolfato, oppure usando, invece dell'acido, un solfito acido (come il bisolfito di sodio NaHSO3) o anche del metabisolfito di potassio. Se si vuole prevenire il rammollimento della gelatina si usa un bagno di fissaggio e di indurimento contenente allume. Per climi caldissimi si usano bagni contenenti formalina, che hanno fortissimo potere d'indurimento.
Eliminatori dell'iposolfito. - Il tiosolfato può essere eliminato con diverse sostanze: si può usare, p. es., una soluzione al o,2% di soda caustica, oppure una soluzione al 10% di cloruro ammonico, oppure del persolfato potassico, ecc. Però, l'uso di queste sostanze non offre serî vantaggi in confronto al lavaggio.
Indebolimento. - L'indebolimento consiste nel ridurre opportunamente l'opacità della negativa, trattandola con sostanze che trasformano parte dell'argento metallico in sali solubili, i quali vengono in seguito eliminati. Si usano a tale scopo varie specie di bagni, i quali tutti si possono raggruppare in tre classi: I. quelli che sottraggono una quantità eguale da tutte le densità della negativa e perciò ne fanno aumentare il contrasto; II. quelli che riducono tutte le densità della negativa nello stesso rapporto e perciò lasciano inalterato il contrasto; III. quelli che agiscono più energicamente sulle parti più opache della negativa e perciò ne fanno diminuire il contrasto. L'azione dei diversi bagni è illustrata nel diagramma rappresentato dalla fig. 52, le ascisse di codesto diagramma si riferiscono alle densità originali e le ordinate alle percentuali di tali densita che sono rimosse con l'indebolimento. Le curve II e III mostrano l'azione di bagni della classe I; le curve IV e V mostrano l'azione di bagni della classe II; e finalmente la curva I mostra l'azione di un bagno della classe III.
Appartengono alla classe I: a) il "liquido Farmer" (ferricianuro potassico e tiosolfato [iposolfito] sodico); b) il riduttore di Eder (cianuro potassico, ioduro potassico e cloruro mercurico); c) il riduttore di Beiltzki (ossalato ferrico potassico, solfito di sodio, acido ossalico e tiosolfato sodico); d) il riduttore all'ioduro-cianuro; e) il riduttore al permanganato, che ha azione simile al liquido di Farmer, però riduce meno fortemente le densità minori e, quindi, altera meno il contrasto. Alla II classe appartiene il riduttore di Huse e Nietz (permanganato di potassio, acido solforico e persolfato ammonico). Con l'indebolimento proporzionale dato da questa classe di bagni si riduce la densità eccessiva dovuta allo sviluppo eccessivamente prolungato, che ha per effetto un aumento proporzionale di tutte le densità, sicché con l'indebolimento si ha lo stesso effetto che si sarebbe avuto sviluppando per un tempo minore. Alla III classe appartiene il riduttore al persolfato ammonico. ancora controverso perché il persolfato riduca maggiormente le densità più forti. Si è dimostrata infondata l'ipotesi dei fratelli Lumière secondo la quale la sua azione comincerebbe dagli strati più profondi dell'emulsione per risalire a quelli superficiali. Altri hanno pensato a un'azione catalitica, che sarebbe più energica dove la densità è più forte.
Rinforzo. - Il rinforzo consiste nel modificare la trasparenza di una negativa che manca di contrasto, in modo da renderla atta a dare buone positive. Si può compiere in tre modi diversi: 1. introducendo nell'emulsione delle sostanze che si uniscono ai granuli d'argento, facendo aumentare l'opacità della negativa; 2. modificando il colore del deposito d'argento, in modo da renderlo meno trasparente ai raggi più attinici; 3. aggiungendo un nuovo strato d'argento a quello già esistente nella negativa. Il rinforzo si pratica con due trattamenti diversi; col primo la negativa viene sbiancata; col secondo si forma una nuova immagine.
Per es., col rinforzo al cloruro mercurico all'argento metallico che forma la negativa si aggiunge del mercurio che, in certi casi, si amalgama con l'argento stesso. Col rinforzo all'ioduro mercurico all'argento si aggiungono del mercurio e dei sali di mercurio; col rinforzo al cromo vi si aggiunge del cromo. Col rinforzo all'uranio si forma una miscela di ferrocianuro d'argento e di ferrocianuro d'uranile, di color bruno-rossastro; col rinforzo al solfuro si forma solfuro d' argento; nell'uno e nell'altro caso la negativa diventa meno attinica. Se il rinforzo è praticato secondo il metodo 2. non è completamente apprezzabile dall'occhio.
Positiva.
La positiva si ottiene stampando la negativa sopra una carta, una pellicola oppure una lastra rivestita da uno strato sensibile. Vi sono molti tipi di carte da positiva: anzitutto quelle ai sali d'argento, di gran lunga le più usate, fra le quali sono quelle da sviluppo (al bromuro, e al cloro-bromuro); poi anche quelle ai sali d'argento ad immagine visibile; per la stabilità delle immagini e la fedeltà con cui riproducono i particolari, si preferiscono in certi casi le carte al platino; per fotografie artistiche le carte ai sali di cromo (processi al carbone, alla gomma, all'olio, ecc.); per riproduzione di disegni da ingegnere si usano le carte ai sali di ferro. Le pellicole per positive cinematografiche e le lastre da osservarsi per trasparenza (diapositive) portano emulsioni ai sali d'argento. Normalmente si stampa ponendo la carta, la pellicola o la lastra ad immediato contatto con la negativa; in certi casi, però, l'immagine viene ingrandita interponendo fra la negativa e la positiva un obiettivo (fig. 53). Oltre ai normali apparecchi da ingrandimento (fig. 54) si usano a questo fine anche delle ordinarie macchine fotografiche opportunamente disposte (fig. 55).
La positiva è tanto migliore quanto più fedelmente essa traduce in una gradazione di bianchi, di grigi e di neri la gradazione delle intensità dei colori del soggetto. Per ottenere questo è necessario, non solo che le opacità della negativa corrispondano esattamente alle differenti intensità dei colori del soggetto, ma anche che le differenze di opacità fra punti diversi della negativa siano esattamente riprodotte nella positiva; perciò è necessario usare una carta, lastra o pellicola capace di riprodurre esattamente quella determinata negativa; oppure sviluppare questa solo fino al punto che la rende suscettibile di essere fedelmente riprodotta su una determinata carta.
Si chiama scala delle esposizioni la differenza fra il tempo di esposizione che dà il più leggiero grigio percettibile dall'occhio e quello che dà il nero più intenso; tale scala è di 1 : 15 per certe carte al cloro-bromuro, di 1 : 60 per le carte al carbone e quelle al platino. Però, entro questi limiti le differenti gradazioni sono riprodotte esattamente solo quando rientrano nel tratto rettilineo della curva caratteristica (v. sopra). Le carte ai sali d'argento hanno curve caratteristiche il cui tratto rettilineo è molto più corto di quello delle emulsioni da negativa. Inoltre, in queste carte il massimo contrasto (γ∞) si ottiene con uno sviluppo breve, sicché non è possibile (mentre lo è nelle negative) di ottenere una riproduzione corretta facendo variare la durata dello sviluppo. Se la scala delle intensità di luce trasmesse dai differenti punti della negativa è minore della scala delle esposizioni della carta, cioè se (fig. 56, I) la curva caratteristica della negativa è la N la cui proiezione sull'asse delle ascisse è la ab e la curva caratteristica della carta è la C la cui proiezione sull'asse delle ascisse è la ac > ab; se si vogliono riprodurre con bianchi puri i punti più illuminati del soggetto bisogna contentarsi di riprodurre con grigi anche i neri del soggetto (cioè utilizzare solo quel tanto della curva caratteristica della carta che sull'asse delle ordinate ha per proiezione Og); allora la positiva ha l'aspetto della fig. 57, I; se invece si vogliono neri puri, bisogna contentarsi di grigi al posto dei bianchi. Inversamente, se (fig. 56, III) la scala delle intensità della negativa è maggiore della scala delle esposizioni della carta, quando si vogliono riprodurre fedelmente i particolari dei punti meno illuminati del soggetto si deve rinunziare a quelli dei punti più illuminati, che sono rappresentati da zone bianche senza particolari come nella fig. 57, III; se si vogliono riprodurre fedelmente questi particolari, si deve spingere l'esposizione della carta fino a che le parti in ombra vengono riprodotte con neri uniformi e i loro particolari spariscono. Solo quando la curva caratteristica della negativa coincide con quella della carta (fig. 56, II) si ha la riproduzione corretta (fig. 57, II).
Carte da sviluppo ai sali d'argento. - Le emulsioni sono al bromuro oppure al clorobromuro d'argento; le seconde contengono prevalentemente cloruro; perciò sono meno sensibili e possono essere sviluppate alla luce gialla, purché poco intensa. Tutte le emulsioni da positiva differiscono da quelle da negativa per il fatto che, riducendo al minimo la maturazione, si ottengono granuli molto fini di alogenuro d'argento.
Le carte si stampano alla luce artificiale, in un semplice torchietto oppure in una macchina come quella della fig. 58, nella quale la negativa è collocata sopra un vetro situato nella sua parte superiore, disponendovi sopra la carta; l'accensione e lo spegnimento della lampada elettrica che si trova all'interno della macchina sono comandate con lo stesso movimento col quale si preme la carta sulla negativa. Per stampare industrialmente cartoline illustrate, fotografie di opere d'arte, ecc., si usano macchine sostanzialmente simili, ma completamente automatiche; nelle quali, cioè, sono comandati meccanicamente anche la rotazione dei rocchetti che portano la carta e il sollevamento e l'abbassamento del coperchio che la comprime sulle negative. Si usa carta in grossi rotoli e si stampano molte negative in una sola operazione, dopo la quale, spentesi le lampade e sollevatosi il coperchio, la carta impressionata va ad avvolgersi su un rocchetto, mentre un nuovo tratto si dispone sulle negative. I rotoli di carta impressionata sono poi sviluppati, fissati e lavati in altre macchine, nelle quali la carta, disposta in festoni, è trasportata in diversi bagni; infine viene essiccata e tagliata.
Lo sviluppo delle carte differisce solo nei particolari da quello delle negative; però è necessario usare un bagno meno energico cioè più ricco di bromuro solubile. Inoltre conviene sviluppare a fondo, cioè fino al punto al quale si può arrivare senza pericolo di velo; alcuni usano il metodo fattoriale (v. sopra) con fattori speciali. Dallo sviluppo la carta può passare immediatamente al bagno di fissaggio; però, quando si trattano contemporaneamente molte positive, come negli stabilimenti commerciali, si usa immergerle in un bagno di acido acetico che arresta lo sviluppo, per poi trasferirle tutte insieme nel bagno di fissaggio. Per la permeabilità delle carte, l'azione del bagno di fissaggio è molto rapida; quando è preparato di fresco, possono bastare 20-30 secondi; tuttavia, per evitare più sicuramente il deterioramento dell'immagine, si usa lasciare la carta nel bagno per 10 o 15 minuti, agitando continuamente; dopo di che alcuni usano immergere per un tempo eguale in un secondo bagno, preparato di fresco. Si lava poi accuratamente per mezz'ora in acqua corrente; meglio ancora in un apparecchio nel quale le positive sono tenute in moto, sicché non si incollano l'una con l'altra. L'essiccazione ordinariamente si compie all'aria aperta; negli stabilimenti commerciali, invece, si usano macchine (fig. 59) costituite da nastri continui, che trasportano le positive intorno ad un cilindro del diametro di circa 1 m. e riscaldato internamente, che compie un giro in 3-5 minuti; con questa macchina è evitato l'arrotolamento delle positive. Alle carte da sviluppo si possono impartire diversi colori col viraggio, che si compie con bagni speciali (all'iposolfito ed allume, al "fegato di zolfo", al ferricianuro e al permanganato potassico, al ferricianuro potassico ed al cloruro mercurico, al rame, all'uranio, al vanadio, al ferro, ecc.). Si può dare a queste carte una superficie lucida applicandole ancora umide e facendole seccare sopra una lastra di vetro, di metallo o di celluloide opportunamente pulita e preparata.
Carte ai sali d'argento ad immagine visibile. - Queste carte, un tempo universalmente usate, ormai hanno poca importanza. Si usano ancora la carta aristotipica, nella quale l'emulsione sensibile è formata da gelatina, cloruro d'argento e citrato (oppure tartrato) d'argento, e quella alla celloidina, nella quale la gelatina è sostituita da collodio. Si stampano alla luce del giorno, preferibilmente all'ombra, poi si virano (senza di che l'iposolfito impartirebbe loro un brutto colore giallastro) in un bagno al cloruro d'oro, si fissano in un bagno all'iposolfito, si lavano e si fanno essiccare, eventualmente lucidandole nel modo che si è detto per le carte da sviluppo.
Carta al platino. - Questa earta è rivestita di cloroplatinito potassico K2PtCl4 ed ossalato ferrico Fe2(C2O4)3. Nei punti in cui subisce l'azione della luce il sale ferrico viene ridotto allo stato ferroso; l'ossalato ferroso così formato viene sciolto quando s'immerge la carta in una soluzione di ossalato potassico e il sale di platino che si trova in contatto con esso mette in libertà il platino, secondo l'equazione:
La carta al platino si stampa all'ombra come si è detto per la carta aristotipica della quale, però, è molto più sensibile; si sviluppa in un bagno di ossalato potassico, s'immerge in diverse soluzioni di acido cloridrico, che sciolgono i sali rimasti inalterati; infine si fa essiccare. Oltre alle carte al platino si usano anche carte più economiche all'argento-platino.
Carte ai sali di cromo. - Queste carte si fondano sul fatto che la gelatina, la gomma arabica ed altri colloidi, mescolati ad un cromato, diventano insolubili quando sono esposti alla luce. Secondo l'Eder, si hanno le seguenti reazioni:
Secondo la (1) si forma idrato di cromo Cr2(OH)6 dal quale, in presenza di un eccesso di bicromato, secondo la (2) si forma cromato di cromo Cr2O3.CrO3 che concia la gelatina, rendendola insolubile. Immergendo in acqua la carta impressionata, il colloide viene sciolto nei punti dove la luce non ha agito e così si ottiene un'immagine in rilievo, che è appena visibile. Se, però, la gelatina o la gomma sono impastate con un pigmento, al rilievo corrisponde una diversa profondità di colorazione, che rende visibile l'immagine; si hanno così il processo al carbone e quello alla gomma. Se invece la gelatina non è colorata in pasta ma, dopo ottenuta l'immagine in rilievo, la si spalma d'un inchiostro grasso, questo viene assorbito nei punti dove la gelatina insolubilizzata non ha assorbito acqua; si ha così il processo all'olio; si può anche spargervi sopra un colore in polvere che aderisce alla gelatina insolubilizzata: si hanno così i processi alle polveri, ecc. In presenza di gelatina i bicromati sono ridotti - senza esposizione alla luce - dall'argento finemente diviso sicché, p. es., immergendo una fotografia su carta al bromuro in una soluzione di bicromato, la gelatina della carta diventa insolubile nei punti dove si trova l'argento metallico che forma l'immagine; si hanno così i processi carbro e al bromolio.
Nel processo al carbone, la carta al carbone è ricoperta di gelatina mescolata con un pigmento (dapprima si usò il carbone, donde il nome); prima dell'uso, essa viene sensibilizzata in una soluzione (acquosa oppure alcoolica) di bicromato potassico ed essiccata all'oscuro. Si stampa, regolando la durata dell'esposizione con un fotometro, perché l'immagine non è visibile. L'insolubilizzazione dovuta all'azione della luce procede dalla superficie verso gli strati più profondi della gelatina e questi appunto debbono essere disciolti nello sviluppo. Ciò si pratica stendendo la pellicola di gelatina, rovesciata, sopra un nuovo supporto (operazione del trasporto). La carta s'immerge in acqua fredda finché diventa flessibile e poi, nel caso del semplice trasporto, si stende e si pressa sopra un supporto di carta che è stato anch'esso reso pieghevole per immersione in acqua. Quando è rimasta per un poco sotto pressione, la si immerge in acqua tiepida e, strappando la carta originaria, si lascia aderente alla carta da trasporto solo la pellicola di gelatina, che si sviluppa lavando delicatamente in acqua calda; così, sciolta la gelatina sulla quale non ha agito la luce, resta l'immagine formata dalla gelatina insolubilizzata. Infine, s'immerge in un bagno di allume che indurisce la gelatina e si fa essiccare. Con questo metodo si ottiene un'immagine rovesciata il cui lato destro corrisponde al lato sinistro del soggetto e viceversa. Nei casi in cui ciò non è tollerabile, si usa il metodo del doppio trasporto, il quale differisce da quello ora descritto per il fatto che la carta al carbone è dapprima trasportata sopra un supporto provvisorio (di vetro opalino, oppure di carta rivestita di una speciale patina), sviluppata su questo, trattata col bagno d'indurimento e poi trasportata una seconda volta dal supporto provvisorio a quello definitivo.
Nel processo carbro, la gelatina al cromo viene insolubilizzata, anziché per azione della luce che attraversa una negativa, per azione chimica di una positiva alla gelatina-bromuro oppure alla gelatina-cloruro, sulla quale la carta al carbone viene stesa accuratamente, lasciandovela per 15 minuti; dopo di che la si trasporta su altro supporto e la si sviluppa e tratta ulteriormente come nel processo al carbone. La positiva originaria, che viene sbiancata dal contatto con la carta al carbone, può servire più volte per la stampa carbro purché ogni volta si torni a svilupparla.
Invece di trasportare la gelatina al cromo su un altro supporto, dopo averla impressionata per contatto con la positiva al bromuro si può anche svilupparla sopra di questa: si ottiene così un'immagine formata dalla pellicola di gelatina colorata della carta al carbone sulla originaria positiva al bromuro sbiadita e ingiallita, che si può sbiancare del tutto con un trattamento al ferricianuro-iposolfito, oppure sviluppare nuovamente: in questo secondo caso l'intensità dell'immagine risulta maggiore.
Nel processo alla gomma, lo strato sensibile è costituito da una miscela di gomma, di bicromato potassico e di un colore da pittura all'acquerello. Modificando le proporzioni dei tre componenti della miscela si modificano le caratteristiche della carta: accrescendo la proporzione del colore si può ottenere una maggiore scala di toni; accrescendo la proporzione della gomma si hanno maggiori contrasti, ecc. La carta va essiccata in un locale poco illuminato; essa diventa sensibile alla luce solo quando è secca. La si stampa come la carta al carbone e si sviluppa senza trasporto, immergendola in acqua fredda. Si può indebolire l'immagine in determinati punti facendovi cader sopra un getto d'acqua; si può rinforzarla in altri punti spalmandoli della stessa miscela di gomma che è servita a sensibilizzare la carta, facendo essiccare, esponendo alla luce e sviluppando di nuovo. Per ottenere diverse gradazioni generalmente si usa la stampa multipla e cioè, si ripetono da una a cinque volte le stesse operazioni sul medesimo supporto, usando gomme al bicromato di differente composizione, una per le ombre, una per le mezzetinte ed una per i punti in piena luce; servendosi di punti di riferimento per assicurare la coincidenza delle immagini sovrapposte.
Nei processi alla gomma-bromuro ed alla gomma platino, una positiva al bromuro, o una al platino, oltre a servire da supporto per l'immagine alla gomma, dà alle ombre e alle mezzetinte di questa la profondità che si otterrebbe solo con la stampa multipla. Lo strato sensibile di gomma si stende sulla positiva originaria e si tratta nel modo descritto.
Nel processo all'olio, si applica alla carta uno strato di gelatina con bicromato di potassio oppure d'ammonio e la si lascia seccare all'oscuro. Si stampa allo stesso modo della carta al platino; poi si sviluppa in un bagno d'acqua e si ottiene un'immagine in rilievo, che si inchiostra con pennello, portandola all'intensità voluta.
Nei processi alle polveri, ormai poco usati, dopo ottenuta con la gelatina al cromo un'immagine in rilievo come nel processo all'olio, la si colora spargendovi sopra il pigmento in polvere.
Nel processo al bromolio si parte da u̇na positiva al bromuro la quale, però, deve essere stampata su carta la cui emulsione non è stata indurita nel processo di fabbricazione. La si tratta con una soluzione di bicromato potassico, solfato di rame e bromuro potassico; dall'argento metallico si forma bromuro d'argento e l'immagine viene sbiancata, mentre si forma del cromato cromico che concia la gelatina. Eliminando il bromuro d'argento con tiosolfato (iposolfito) di sodio e lavando, si ottiene un'immagine in rilievo che si tratta come nel processo all'olio.
Cianotipia. - Questo processo, insieme con parecchi altri simili, è larghissimamente usato per riproduzioni di disegni d'ingegneria. Per la stampa si usa, al posto della negativa, un disegno su carta lucida. La carta è sensibilizzata con una soluzione di ferricianuro potassico e di citrato ferico-ammonico. Si stampa fino a color bronzo, si lava in acqua corrente per 15 minuti e si fa essiccare; l'immagine appare in bianco su fondo blu. Sensibilizzando con soluzioni diverse i disegni vengono riprodotti su fondo bianco.
Fabbricazione delle lastre, delle pellicole e delle carte fotografiche.
Preparazione dell'emulsione sensibile. - La preparazione delle emulsioni è la parte più difficile e delicata di tutto il processo di fabbricazione delle lastre, delle pellicole e delle carte. Gli esperimenti di laboratorio hanno fornito preziose indicazioni sulle condizioni nelle quali si ottengono emulsioni molto sensibili, ma ancora non si è arrivati a spiegare le cause di molte delle differenze che si riscontrano fra una emulsione e l'altra. Si sa soltanto che si ottengono emulsioni di caratteristiche differenti se varia la temperatura alla quale si compiono le differenti operazioni, se il bromuro di potassio e il nitrato d'argento si mescolano rapidamente oppure lentamente, se varia la concentrazione delle rispettive soluzioni e così via. Un tecnico esperto può influire sulla sensibilità e le altre caratteristiche dell'emulsione modificando i particolari delle operazioni; per contro nella pratica industriale si ottengono emulsioni di caratteristiche costanti, evitando ogni variazione nell'esecuzione delle diverse operazioni e controllandone con la maggiore esattezza l'esecuzione. Ogni fabbricante segue regole suggerite dalla propria esperienza, che sono tenute più o meno gelosamente segrete.
Nella preparazione dell'emulsione si parte da soluzioni acquose di gelatina, di nitrato d'argento, di bromuro di potassio ed eventualmente di altri sali alogenici solubili, come lo ioduro potassico (che fa aumentare la sensibilità) e il cloruro dl sodio. Ha grandissima importanza la purezza dei sali ed è necessario evitare nel modo più completo che possano entrare nell'emulsione sostanze estranee (p. es. pulviscolo atmosferico, fumo, ecc.) perché l'emulsione fotografica è molto più sensibile degli ordinarî metodi d'analisi e svela la presenza di tracce di sostanze dannose.
Le gelatine, oltreché per la presenza od assenza di sostanze sensibilizzatrici naturali, si distinguono per il fatto di esser dure o molli. Le prime solidificano facilmente e si rigonfiano con difficoltà; aderiscono meglio al supporto e non si rammolliscono troppo nei bagni di sviluppo e di fissaggio (importante vantaggio nei paesi caldi); però dànno emulsioni che si sviluppano più lentamente. Ordinariamente si usa una miscela delle une e delle altre. Il nitrato d'argento dev'essere esente da sali di piombo, di rame e di altri metalli pesanti, che sono dannosi per la sensibilità e la trasparenza delle emulsioni. Il bromuro di potassio dev'essere accuratamente purificato.
La gelatina viene fatta rigonfiare in acqua fredda; poi la si fa sciogliere riscaldando. Alla soluzione di gelatina si aggiunge la soluzione di bromuro di potassio (ed eventualmente di altri sali solubili); infine la soluzione di nitrato d'argento. Con questa operazione si ha la formazione del bromuro d'argento; perciò, al pari di tutte quelle che seguono, essa deve compiersi alla luce rossa quanto più debole è possibile. Si hanno risultati differenti secondo che si versa la soluzione di nitrato d'argento nella soluzione di gelatina e di bromuro potassico o viceversa. Nel primo caso il bromuro d'argento si forma in presenza di un eccesso di bromuro potassico e perciò adsorbe degli ioni di bromo: si ottengono così emulsioni molto sensibili e trasparenti, poco soggette a velo. Nel secondo caso il bromuro d'argento si forma in presenza di un eccesso di nitrato d'argento e adsorbe ioni d'argento: con la maturazione si ottengono emulsioni a granuli fini, poco sensibili e soggette a velo. Ad eccezione di quelle al collodio-cloruro per carte, tutte le emulsioni sono preparate facendo formare l'alogenuro d'argento in presenza d'un eccesso di bromuro potassico. La soluzione di bromuro di potassio si mescola con una parte soltanto della gelatina che deve entrare nell'emulsione; la rimanente si aggiunge dopo la maturazione. Così si evita che la gelatina venga danneggiata dal riscaldamento e dal trattamento con ammoniaca; inoltre, la maturazione si compie più presto. Se però la gelatina è in quantità troppo piccola, si hanno perdite di bromuro d'argento, che sedimenta. Il nitrato d'argento si scioglie in acqua distillata, in recipienti di vetro.
La miscela delle due soluzioni, di gelatina e bromuro potassico e di nitrato d'argento, si compie in recipienti di porcellana oppure di grès, muniti d'agitatore di legno e riscaldati a bagno maria, la cui temperatura è controllata automaticamente. Come si è detto, molti particolari dell'operazione hanno influenza sul risultato finale: p. es. il fatto che il nitrato si versa continuamente oppure ad intervalli; e, nel secondo caso, anche l'essere gl'intervalli brevi o lunghi.
L'emulsione è poi sottoposta alla maturazione, che si può compiere: 1. per riposo di 10-20 ore a temperatura ordinaria; 2. per trattamento con ammoniaca; 3. per riscaldamento, in qualche caso fino all'ebollizione. La maturazione ha grande importanza per le emulsioni rapide da negativa, solo per quelle da positiva può essere abbreviata od omessa. Col metodo di maturazione, variano anche i particolari delle altre operazioni. Per emulsioni che debbono esser maturate all'ammoniaca, alla soluzione di nitrato d'argento si aggiunge ammoniaca fino a ridisciogliere il precipitato di ossido d'argento; la miscela con la soluzione di bromuro potassico si compie a circa 40°, evitando di superare i 50°, perché si avrebbe tendenza al velo; l'eccesso di bromuro potassico è del 10-15%; la gelatina mescolata al bromuro varia dal 20 al 60% della totale. Per emulsioni che debbono esser maturate per riscaldamento, la soluzione di nitrato d'argento non contiene ammoniaca; l'eccesso di bromuro potassico è del 2-5%; la gelatina mescolata al bromuro è il 10-20% della totale. La miscela si compie a 60-80°. Spesso si accelera la maturazione con piccole aggiunte di ammoniaca oppure di soda. Con entrambi i metodi si ottengono, sia emulsioni molto sensibili da negativa, sia emulsioni di media sensibilità per diapositive e per cinematografia, sia emulsioni poco sensibili per carte. Però, per le emulsioni più sensibili si preferisce la maturazione all'ammoniaca. Dopo la maturazione e l'aggiunta della rimanente gelatina, l'emulsione si fa solidificare versandola in capsule di porcellana, e raffreddandola. È importante che il raffreddamento sia rapido, perché la maturazione venga bruscamente interrotta. A questo fine molte fabbriche usano capsule metalliche con doppio fondo, nel quale circola un fluido refrigerante.
Se si lasciassero nell'emulsione il nitrato potassico e anche il bromuro e il cloruro potassico in eccesso, con l'essiccazione essi cristallizzerebbero e la lastra sarebbe inservibile; da parte sua, l'ammoniaca renderebbe la lastra poco conservabile. Sia gli uni sia l'altra si eliminano con un accurato lavaggio, che si continua finché, analizzando l'acqua, essa presenta traccia di ammoniaca o di sali. Per il lavaggio servono apparecchi nei quali l'emulsione viene agitata dopo averla divisa in fili in una pressa simile a quelle da paste alimentari, nella quale l'emulsione è fatta passare attraverso uno staccio di nichel, con maglie di 5-7 mm. L'acqua per il lavaggio dev'essere molto pura; eventualmente si filtra. L'emulsione si lascia poi sgocciolare. Si aggiunge gelatina nella quantità calcolata e poi, sciogliendo di nuovo l'emulsione per riscaldamento a 45°, la si sottopone ad una seconda maturazione. I progressi della maturazione sono seguiti con prove sensitometriche su campioni applicati su vetro. Infine s'indurisce l'emulsione quanto è necessario perché rimanga ferma nei bagni di sviluppo, aggiungendovi dell'allume di cromo. La gelatina è un buon terreno nutritivo per i batterî i quali l'alterano facendone variare la viscosità e il punto di solidificazione. Lo sviluppo dei batterî è frenato dalla bassa temperatura alla quale l'emulsione si conserva; però si usa anche trattarla con antisettici (fenolo, timolo, acidi carbociclici). Alle volte l'emulsione viene ridotta in fili come per il lavaggio e conservata in frigorifero a 2-4° fino al momento di applicarla alle lastre o alle pellieole o alle carte.
Emulsioni al collodio-bromuro d'argento. - Se il bromuro d'argento si forma in seno ad una soluzione di collodio anziché di gelatina, si ottiene un'emulsione meno sensibile di quelle alla gelatina-bromuro, la quale, però, dà negative fini e trasparenti e serve per la riproduzione di mezzetinte, per tricromie, ecc. Si prepara in diversi modi: per es., sciogliendo della nitrocellulosa e del bromuro di zinco in una miscela di 1 volume di alcool e 2 di etere. Questa soluzione si aggiunge, agitando, ad un'altra soluzione ottenuta sciogliendo del nitrato d'argento nella quantità strettamente necessaria di acqua e poi aggiungendo dell'alcool. Si ottiene così una soluzione che si lascia maturare per 36 ore agitando frequentemente; poi si precipita l'eccesso di nitrato d'argento con una soluzione alcoolica di cloruro di cobalto, si mescola energicamente, si lascia in riposo per 10 ore, si lava con acqua ripetutamente cambiata ed infine si essicca accuratamente. Per applicare l'emulsione alle lastre, la si scioglie, addizionandola di un poco di solfato di chinino, in una miscela in parti eguali di alcool ed etere e la si stende su un vetro ben pulito, precedentemente preparato con una soluzione al 5% di caucciù in benzina, essiccando poi a temperatura moderata.
Fabbricazione delle lastre. - Per applicare alle lastre l'emulsione alla gelatina-bromuro, la si scioglie riscaldandola a 450. Oltre alle sostanze (allume di cromo, formaldeide) che dànno alla gelatina una maggiore resistenza nei bagni, vi si aggiunge saponina, alcool amilico, ecc. perché aderisca alla lastra di vetro; poi si filtra su pelle oppure su fustagno, per trattenere i filamenti e le altre impurità che eventualmente contiene.
L'applicazione alle lastre si compie con macchine come quella illustrata alla fig. 60 che è lunga 8 m. Le lastre di vetro sono posate sulla tavola di ammissione a, il cui piano è costituito da rulli di gomma rotanti che la trasportano sui cilindri a coltello, piccoli cilindri guarniti di lamine di nichel. Questi le trascinano sotto il distributore g, per mezzo del quale esse ricevono l'emulsione proveniente dal serbatoio b per il tubo s. Sotto i cilindri a coltello c'è un bacino di nichel c nel quale cade l'emulsione che sopravanza. Dopo ricevuta l'emulsione, le lastre passano sui cilindri lavatori, i quali, pescando parzialmente in un bacino di acqua calda, la trascinano nel loro moto verso l'alto, lavando la faccia inferiore delle lastre. Queste poi passano sul nastro continuo che è mosso dalla puleggia v: nel tratto superiore si muove su rulli dentro un canale che protegge le lastre dal calore esterno e nel tratto inferiore passa in un'apposita vasca, nella quale s'inzuppa dell'acqua fredda che la pompa P mantiene in circolazione. Su questo nastro l'emulsione si solidifica. Le lastre passano poi sul nastro assorbente h, che le asciuga e che, nel tratto di ritorno, è spremuto fra cilindri. Arrivano così all'uscita; sono tolte a mano dalla macchina e portate all'essiccatoio.
Fabbricazione delle pellicole. - Per la fabbricazione delle pellicole si usano lunghi fogli di celluloide appositamente preparati e di spessore che varia, secondo i tipi, da 0,08 a 0,22 mm. La celluloide (v. plastiche, masse) è una soluzione solida di cotone collodio (binitrocellulosa) nella canfora; oppure di canfora nel cotone collodio. Per la fabbricazione delle pellicole si scioglie la canfora in molto solvente e poi si aggiunge il cotone collodio, fino ad ottenere soluzioni dense, ma chiare, con circa il 20% di nitrocellulosa, che, colate su superfici levigate, per evaporazione del solvente dànno la pellicola. Il cotone collodio usato nella fabbricazione della celluloide contiene dall'11,5 al 12,5% d'azoto, cioè un poco meno del cotone fulminante. Col contenuto in azoto cresce la resistenza meccanica; i cotoni più azotati si possono impiegare se, invece di alcool ed etere, si usa come solvente etere acetico, oppure acetone. Mentre la celluloide ordinaria contiene almeno il 25% di canfora, quella delle pellicole non ne contiene più del 15%.
Il cotone collodio deve sciogliersi completamente nei solventi e dare soluzioni chiare: le frazioni meno azotate e meno solubili non si possono separare facilmente per filtrazione. Il cotone dev'essere perfettamente bianco. Se la nitrocellulosa è male stabilizzata, l'emulsione si decompone e la pellicola perde la sua sensibilità. Le grandi fabbriche di pellicole producono esse stesse il cotone collodio e lo trasformano immediatamente in pellicole. Le piccole fabbriche partono dal cotone collodio umido, che comprano in fusti di legno rivestiti di lamiera di zinco. Altre, molto numerose, comprano addirittura la pellicola in strisce.
Come solvente per il cotone collodio si usa specialmente una miscela di una parte di alcool ed una di etere; l'alcool etilico può essere parzialmente o totalmente sostituito con alcool metilico. Siccome le pellicole preparate con alcool ed etere posseggono una resistenza superiore a quelle preparate con un solo solvente (p. es. con acetone), le ditte che le fabbricano (p. es. la Eastman Kodak) aggiungono alcool amilico perché abbiano un odore caratteristico: così fa la Eastman Kodak. L'acetone puro è anch'esso un buon solvente e dà celluloide di facile lavorazione. Può essere sostituito con etere acetico; si usano anche miscele di alcool, acetone ed etere acetico. Per produrre a costi normali è necessario ricuperare il solvente; e siccome il ricupero è più facile quando si usa un solvente semplice, si evitano tutte le aggiunte non assolutamente necessarie; per questa ragione non si usa più l'olio di ricino che, un tempo, si aggiungeva per far aumentare la malleabilità della celluloide. La fig. 61 illustra schematicamente un impianto per la fabbricazione delle pellicole.
Preparazione della soluzione di celluloide. - Dalla nitrocellulosa umida si espelle dapprima l'acqua, poi si aggiunge alcool ad 85% e infine si espelle anche questo in una speciale centrifuga. Si ottiene un cotone collodio che contiene il 30% di alcool e poca acqua, che si scioglie nel solvente che già contiene la canfora. Il recipiente nel quale si compie la dissoluzione è di alluminio puro nelle parti che vengono in contatto con la soluzione; a doppio fondo e riscaldato con acqua calda, che è fatta circolare da una pompa che serve anche il deaeratore e il serbatoio della soluzione. La soluzione è poi filtrata su ovatta in un filtro semplice ad alta pressione, come quello della fig. 62, che ha un diametro di 50 cm. Il materiale filtrante dev'essere rinnovato dopo la filtrazione di una cinquantina di litri di soluzione. La soluzione è poi presa da una pompa che la porta a pressioni fino a 5 atmosfere e la fa passare attraverso uno e talvolta due altri filtri, dai quali essa passa nel deaeratore, consistente in un serpentino immerso in acqua calda, nel quale viene portata fino quasi al punto di ebollizione e così perde la maggior parte dell'aria disciolta. Entra poi in un serbatoio, nel quale la si lascia riposare, anche per darle modo di liberarsi dall'aria che ancora contiene. Ogni impianto possiede parecchi di questi serbatoi, sicché, mentre uno serve alla colata, una forte quantità di soluzione sta in riposo negli altri.
Colata della pellicola. - Un tempo si colava la soluzione e si formava la pellicola su lastre di vetro piane ed orizzontali. Ora, invece, si usano macchine che si distinguono in due tipi: a nastro e a tamburo. Le prime sono meno costose, ma le macchine a tamburo dànno una pellicola più regolare e perciò sono sempre più preferite. Nella fig. 63 è illustrata una macchina a nastro. È costituita sostanzialmente da un nastro senza fine, di rame, che si avvolge sulle pulegge T, una delle quali ne comanda il moto e l'altra è munita dei dispositivi per tenderlo. Nel suo tratto superiore il nastro è sostenuto da lastre fisse all'incastellatura e corre dentro un canale K, nel quale circola dell'aria calda e bene filtrata, che entra da E ed esce da A, carica dei vapori del solvente. Il riscaldamento può essere completato da serpentini disposti sotto il piano del nastro. Anziché al disopra e nel senso del nastro, spesso si fa circolare l'aria al disotto di esso e in senso inverso, cioè entrando da A ed uscendo da E. La soluzione proveniente dal serbatoio è distribuita sul nastro per mezzo del distributore G (fig. 64), costituito da un recipiente con sezione a V, portato da due leve mobili che poggiano sopra due ruote che, alla loro volta, poggiano sopra la puleggia T; sicché, ruotando questa, il distributore si mantiene sempre alla stessa distanza da essa e dal nastro continuo. La parete anteriore del distributore è girevole intorno ad un perno montato sulle leve e la sua posizione rispetto a queste può essere regolata con vite micrometrica; tale parete delimita sul fondo del distributore una finestra rettangolare, per la quale la soluzione passa sul nastro continuo. Per mezzo della vite micrometrica si può regolare la quantità di soluzione che va sul nastro, e quindi anche lo spessore della pellicola che vi si forma. Nel modello illustrato in figura, il distributore porta inferiormente un'espansione, nella quale si raccoglie una certa quantità di emulsione che serve a compensare, più o meno completamente, le oscillazioni nell'arrivo dal serbatoio. A mano a mano che il nastro continuo avanza sotto il distributore, vi si forma sopra uno strato di soluzione che, per evaporazione del solvente, all'uscita dal canale essiccatore si riduce ad una pellicola, completamente o parzialmente secca, la quale passa fra due piccoli cilindri che la laminano e si avvolge sopra un aspo. Il nastro è largo 60 cm. e dà pellicole larghe 54 cm. Esso è accuratamente pulito; però la pulitura si perde con l'uso e siccome, inoltre, il rame reagisce chimicamente con la soluzione, spesso è nichelato o argentato; oppure, con un distributore simile a quello del cotone collodio, lo si riveste di una soluzione densa di gelatina alla glicerina che, essiccata, ne copre le irregolarità e lo rende liscio e lucido, resistendo anche per tre settimane.
Si fanno macchine di diversa lunghezza e cioè con nastri da 14 a 30 m. di lunghezza complessiva. La produzione varia con lo spessore della pellicola. Per es., con un nastro da 14 m. si producono 28 m. di pellicola sottile, oppure 19 m. di pellicola cinematografica da 0,22 mm. di spessore, oppure 10 m. di pellicola da 0,22 mm. all'ora.
Nelle macchine a tamburo il nastro continuo di rame è sostituito da un grande tamburo di ghisa ad asse orizzontale che non è deformabile e, perciò, dà pellicole di spessore molto più uniforme che non le macchine a nastro. Il tamburo ha diametro variabile da 3,50 a 5 m. ed è alto da 60 a 120 cm. Ruota lentissimamente (1-2 giri all'ora). È riscaldato per mezzo di vapore che circola nella parte interna. La sua superficie esterna può essere nichelata, argentata, oppure semplicemente rivestita di gelatina: essa è per 4/5 circondata da una cassa nella quale circola dell'aria calda, allo stesso modo della macchina a nastro. Il distributore della soluzione è montato nella parte superiore del tamburo. Nel modello illustrato alla fig. 65 il tamburo, per mezzo di anelli esterni, poggia su quattro rulli, due dei quali gli imprimono il moto di rotazione. Per la maggior parte della sua altezza la macchina si trova al disotto del pavimento del locale di lavorazione, sicché anche le tubazioni del vapore e dell'aria rimangono fuori di questo. Una macchina come quella descritta può produrre 180 mq. di pellicola in 24 ore. I solventi, che sono costosi, si ricuperano con appositi apparecchi (vedi solventi).
La pellicola, quando lascia le macchine da colata, è ancora leggermente umida. Se sì lascia che quest'umidità sia eliminata naturalmente nei magazzini, la pellicola si deforma più o meno. Si preferisce completarne l'essiccazione facendola passare su cilindri riscaldati, simili a quelli che si usano per la carta, oppure in essiccatoi a camera, nei quali la pellicola è tesa da rulli e che sono riscaldati con aria filtrata.
Applicazione del substrato. - Fra la pellicola e l'emulsione sensibile si interpone il cosiddetto substrato e cioè una soluzione di gelatina in un solvente che non scioglie la pellicola. Per le pellicole americane si usa una soluzione di gelatina, acido acetico glaciale, alcool etilico, alcool metilico. La si applica alla pellicola con la macchina illustrata alla fig. 66: la pellicola, svolgendosi dall'aspo e passando su rulli di rinvio, arriva ad un cilindro, di fronte al quale e a piccola distanza sono montati due piccoli cilindri che pescano inferiormente nella soluzione, dentro una vasca di nichel puro. Questi cilindri girano rapidamente in senso opposto alla pellicola, che si muove con la velocità di 6 m. al minuto. Dopo ricevuto il substrato la pellicola, su rulli di rinvio, percorre un canale riscaldato, che dapprima sale verticalmente, poi è orizzontale ed infine ridiscende; in questo canale il substrato si essicca; dopo di che la pellicola si avvolge sopra un altro aspo. Il substrato si applica sulle due facce della pellicola quando si vuole che essa si dilati ugualmente durante lo sviluppo e non si arrotoli, come facevano le pellicole fotografiche del secolo scorso.
Applicazione dell'emulsione, essiccazione e finitura. - L'emulsione sensibile si applica alle pellicole con macchine dello stesso tipo di quelle usate per le carte fotografiche. Un cilindro rotante, spesso di ebanite, che pesca in una vasca di emulsione, la trascina sulla pellicola, che subito viene bruscamente raffreddata con cilindri nei quali circola dell'acqua, oppure con casse di ghiaccio disposte sopra di essa, sicché l'emulsione si solidifica. La macchina illustrata nella fig. 67 è raffreddata con entrambi i sistemi. Si usa anche il raffreddamento con serpentini percorsi da salamoia fredda, oppure con aria. Alle pellicole per fotografia Röntgen si applica l'emulsione sulle due facce. Nella fig. 68 è illustrato schematicamente un impianto di applicazione dell'emulsione ed essiccazione finale della pellicola. Questa, svolgendosi dall'aspo, passa per la macchina che applica l'emulsione e va ad uno stenditoio dello stesso tipo di quelli che servono per la carta patinata (v. carta, IX, p. 200). I festoni, di 5-6 m., percorrono lentamente un lungo tratto (anche 80 m.) in un locale nel quale circola aria riscaldata a 45°. Finalmente la pellicola è avvolta su aspi in macchine raffreddate con aria. Su un aspo se ne avvolgono 250 m. Le ultime operazioni della fabbricazione delle pellicole sono molto simili a quelle della carta, salvo il fatto che sono eseguite a luce debolissima, rossa per le emulsioni ordinarie, di quel colore per cui l'emulsione è meno sensibile per le ortocromatiche e le pancromatiche. La pellicola per cinematografia è tagliata nella larghezza voluta con coltelli circolari, poi perforata con la macchina della fig. 215. Le pellicole che servono per apparecchi ordinarî sono finite ed imballate parte mediante macchine speciali, parte a mano.
Precauzioni nell'impianto delle fabbriche. - La pellicola di celluloide è molto infiammabile; brucia rapidissimamente ed è difficile spegnerla, perché brucia anche sott'acqua, senza fiamma. I gas che vi si sviluppano nella combustione senza fiamma contengono ossido di carbonio e con l'aria formano miscele esplosive. A causa del pericolo d'incendio, le fabbriche di pellicole debbono esser lontane dalle abitazioni e dagli altri edifici. È un grave problema anche quello di evitare, nel modo più completo possibile, che la polvere s'infiltri nei locali di lavorazione. Perciò questi sono circondati da piazzali pavimentati od asfaltati; e se ne studia la posizione in modo che, non solo siano lontani da officine di difficile pulizia, ma neanche il vento dominante più intenso possa portarvi fuliggine, gas nocivi e polvere.
Pellicole non infiammabili. - Si è molto studiato per sostituire la celluloide con sostanze meno infiammabili: p. es., con carta trasparente. Si è tentata anche la viscosa. Ma finora è entrato nell'uso soltanto l'acetato di cellulosa, il quale però presenta parecchi svantaggi, come quello di allungarsi (del 2%) per immersione nell'acqua.
Fabbricazione delle carte fotografiche. - Come supporto dell'emulsione sensibile si usa carta di buona qualità, fabbricata con cura non minore della carta da disegno o da lettere (v. carta), tale che la sua apparenza e la resistenza meccanica non siano danneggiate dai bagni di sviluppo e di fissaggio.
Patinatura. - Se l'emulsione è applicata direttamente sulla carta, riesce di difficile conservazione. Si fanno a questo modo solo le carte più economiche e quelle da ritratti; queste ultime, per farne valere la finezza di grana. Generalmente si interpone fra carta ed emulsione uno strato protettore che è quasi sempre fatto di solfato di bario impastato con colla. Per usi speciali si usa caolino oppure bianco satin (miscela d'idrato d'alluminio e solfato di calcio, ottenuta per precipitazione). Si usa sia il solfato di bario naturale (baritina o spato pesante) macinato. sia quello preparato per precipitazione (bianco fisso) che è più fine; la grossezza dei granuli dipende dalla velocità della precipitazione in soluzione acquosa; si usano diverse miscele dell'uno e dell'altro e si sceglie la grossezza dei granuli in modo da ottenere patine lucide od opache. Il solfato di bario dev'essere completamente esente da solfuri, non deve contenere più del 0,04% di cloruri, dev'essere neutro, esente da ferro e completamente bianco. La patina di solfato di bario consente di avere una superficie veramente regolare, che copre la grana della carta e permette di ottenere positive ben lucide; inoltre essa ritarda (senza impedirla completamente) l'azione dannosa delle impurezze (metalliche ed altre) che la carta contiene. Il solfato di bario s'impasta con buona colla di pelle, che dev'essere esente da grassi e indifferente dal punto di vista della sensibilità dell'emulsione (v. sopra). La colla ed il solfato di bario (p. es., 300 kg. di bianco fisso con 15 kg. di colla) si mescolano in un'impastatrice meccanica fino ad avere una massa omogenea, che si diluisce con acqua fino a consistenza di crema densa e si staccia attraverso staccio da 500 maglie al cmq.; si aggiunge poi un poco di latte per renderla più untuosa, del fenolo per assicurarne la conservazione e un poco di allume di cromo per renderla resistente all'acqua; occorrendo, si colora con colori inerti p. es. indantrene, lacche, ecc. Per gl'impianti di patinatura v. carta, IX, p. 200. In una sola operazione si applicano fino a 25 gr. di patina per mq. di carta; ma spesso l'operazione si ripete, fino ad averne 70 gr. per mq. Per carta brillante si arriva a fare 4 operazioni successive, essiccando dopo ciascuna.
Per le grandi produzioni si preferisce fare gl'impianti di patinatura presso le fabbriche di carte fotografiche; così è più facile soddisfare prontamente le domande della clientela. Però molta parte della carta viene già patinata dalle cartiere, le quali, per la loro forte produzione, sono in grado di fornire un prodotto molto regolare e a buon mercato.
Applicazione dell'emulsione. - Si compie praticamente con lo stesso processo e con le stesse macchine usate per le pellicole (v. sopra); le differenze principali stanno nel fatto che, trattandosi di emulsioni meno sensibili, si può lavorare a luce più chiara e che, essendo lo strato dell'emulsione più sottile, l'essiccazione è più rapida. Si applicano 150-250 gr. di emulsione per mq. La quantità di emulsione che la carta riceve dipende principalmente dalla velocità della macchina apposita; dipende altresì dalla capacità d'imbibizione della carta, mentre la viscosità dell'emulsione ha importanza limitata.
Le carte lucide da sviluppo hanno generalmente un doppio strato e cioè, sullo strato di emulsione si applica uno strato di gelatina pura, addizionata di allume di cromo di 2/1000 mm. di spessore, facendo passare una seconda volta la carta nella macchina che applica l'emulsione, oppure (come usano le fabbriche inglesi) in una macchina apposita, immediatamente dopo l'applicazione dell'emulsione. Lo strato di gelatina serve ad evitare il cosiddetto velo di stampa, che si ha per le alterazioni determinate meccanicamente nell'arrotolare, tagliare e lavorare la carta.
Fotografia a colori (cromofotografia).
I processi di fotografia a colori che sono entrati nella pratica sono la tricromia, la bicromia e l'autocromia, che sono tutte fondate sullo stesso principio. Prima dell'introduzione dell'autocromia destò per parecchi anni grande interesse la cromofotografia interferenziale, che è fondata sopra un principio affatto diverso.
Cromofotografia interferenziale. - Se si sovrappongono due raggi luminosi monocromatici provenienti dalla stessa sorgente, i quali però abbiano percorso due cammini differenti in lunghezza di mezza lunghezza d'onda, si formano delle onde stazionarie e, ad intervalli eguali, vi sono punti in cui l'intensità della luce è massima alternati con punti oscuri. E questo il fenomeno dell'interferenza. Se i due raggi attraversano un'emulsione sensibile a granuli sufficientemente fini, questi granuli rimangono inalterati nei punti d'interferenza e invece sono modificati negli altri, sicché, dopo lo sviluppo, si hanno lamelle d'argento metallico che distano l'una dall'altra esattamente di mezza lunghezza d'onda. Se l'emulsione sensibile è applicata ad uno specchio, si verifica appunto il fenomeno sopra accennato, come si vede dalla fig. 69, nella quale in corrispondenza dei ventri delle onde sono segnate le mezzerie delle lamelle d'argento. Queste agiscono come minuscoli specchi e, se sono esposte alla luce bianca, riflettono senza indebolimento soltanto i raggi della lunghezza d'onda (cioè del colore) di quelli che hanno determinato la loro formazione. Invece, per interferenza, la luce di altre lunghezze d'onda viene indebolita e anche annullata. Secondo il. Wiener, perché questo si verifichi occorre uno strato di almeno 10 lamelle, cioè molto meno di quante se ne hanno in pratica. Una simile serie di lamelle separa radiazioni di lunghezze d'onda molto vicine; secondo l'Aron è possibile, per es., separare le due linee del mercurio, la cui lunghezza d'onda differisce solo di 9 Å.
G. Lippmann realizzò il fenomeno sopra descritto disponendo del mercurio contro l'emulsione di una lastra esposta in un telaio speciale col vetro dalla parte dell'obiettivo. La superficie del mercurio fa da specchio. La fig. 70 illustra un telaio costruito dallo Zeiss su disegno del Lehmann. Esso è formato da un quadro opaco A, di legno, chiuso anteriormente dall'imposta B e posteriormente dalla tavoletta T. La lastra sensibile L lascia fra la sua emulsione D e la tavoletta T una camera C che si riempie di mercurio. La tenuta è assicurata da una guarnizione J di gomma, stretta fra la tavoletta e la lastra. Per mezzo del canale N e di un tubo flessibile esterno al telaio (e non segnato in figura) la camera C comunica con un serbatoio di mercurio, sollevando o abbassando il quale è facile riempirla o vuotarla. Il Lippmann usava lastre alla gelatina-cloruro, trasparentissime e a granuli finissimi, che esponeva con un filtro compensatore, e poi sviluppava e fissava coi metodi ordinarî. Con questo processo, i colori appariscono soltanto ad essiccazione completa: essi sono molto vivaci, a splendore metallico ed inalterabili; però si vedono soltanto per riflessione sotto un certo angolo d'incidenza e in condizioni ben determinate, per realizzare le quali si sono costruiti speciali apparecchi. Nella fotografia di colori dello spettro questo processo ha dato risultati tuttora insuperati.
Tricromia. - È un'applicazione pratica della teoria di Th. Young, secondo la quale tutti i colori che l'occhio percepisce risulterebbero dalla composizione di tre colori fondamentali: rosso, verde e blu; con tutti e tre questi colori si avrebbe il bianco puro. Per conseguenza, se di un oggetto si ottengono tre immagini, ciascuna delle quali riproduce uno soltanto dei colori fondamentali, con queste tre immagini elementari si può ricomporre l'immagine dell'oggetto nei suoi colori naturali. Le immagini elementari si ottengono disponendo davanti a lastre pancromatiche dei filtri, ciascuno dei quali assorbe i raggi corrispondenti a due colori fondamentali e lascia passare quelli corrispondenti al terzo. In realtà, la teoria di Th. Young non è esatta (v. cromatica); se si vogliono riprodurre correttamente tutti i colori naturali, è necessario scomporre l'immagine in più di tre colori fondamentali. Tuttavia, nella massima parte dei casi pratici la tricromia dà risultati soddisfacenti.
La ricomposizione dell'immagine può farsi in due modi diversi: 1. per sintesi additiva se il fondo è tale che appare nero nei punti in cui mancano tutti e tre i colori fondamentali; in tal caso appaiono bianchi i punti nei quali tutte e tre le immagini elementari hanno la massima intensità. Se, p. es., le immagini elementari si riproducono su diapositive che si fanno attraversare ciascuna da luce del colore corrispondente e le tre immagini si fanno coincidere punto per punto su uno schermo, si ha sintesi additiva. Appaiono bianchi i punti in corrispondenza ai quali le diapositive presentano tutte e tre la massima trasparenza e, quindi, è massima l'intensità del colore che esse trasmettono; appaiono neri i punti in corrispondenza ai quali tutte e tre le diapositive presentano la massima opacità; 2. per sintesi sottrattiva se il fondo è bianco; sicché appaiono bianchi i punti in cui mancano tutti e tre i colori fondamentali; in tal caso appaiono neri i punti nei quali tutte e tre le immagini elementari hanno la massima intensità. Così, p. es., la carta bianca, illuminata con luce bianca, riflette tutti e tre i colori fondamentali. Se un punto di essa si copre con due pigmenti colorati, uno dei quali assorbe i raggi verdi e l'altro i raggi blu, vengono riflessi solo i raggi rossi e il punto appare rosso. I colori elementari da usarsi per la sintesi sottrattiva sono diversi da quelli che si debbono usare per la sintesi additiva (v. cromatica).
La sintesi additiva si applica in apparecchi sia per l'ispezione sia per la proiezione di diapositive. In cinematografia (v. cinematografo, X, pp. 342-43) si applica sia la sintesi additiva sia la sottrattiva. La sintesi sottrattiva si applica nei processi fotomeccanici (v. grafiche, arti) e anche nei processi di stampa fotografica delle positive.
Le tre immaġini elementari si possono stampare col processo al carbone, col carbro, con la gomma-bicromato, alla pinatipia, oppure semplicemente con emulsioni ai sali d'argento, colorate per viraggio. Però questi processi di stampa, laboriosi e delicati, richiedono una speciale abilità. Inoltre, per la profondità dei tre strati colorati, in molti casi si ottengono colori smorti e imperfetti; sicché molti preferiscono gli apparecchi (come il cromoscopio) a visione diretta di diapositive, fondati sulla sintesi additiva. Nella riproduzione di tricromie coi processi fotomeccanici si rimedia col ritocco ai difetti sopra accennati della sintesi sottrattiva, sicché l'uso delle tricromie va diffondendosi sempre più e recentemente è stato introdotto anche in qualche periodico a grande tiratura.
Filtri per tricromia. - La migliore distribuzione delle diverse lunghezze d'onda fra le tre immagini elementari sarebbe la seguente: rosso, 7000-5800 Å; verde, 5800-5300 Å; blu, 5300-4000 Å. In pratica però i filtri sono scelti in modo che le loro zone di trasparenza si sovrappongono parzialmente e cioè, il filtro del rosso è trasparente per la zona 7000-5500 Å; quello del verde per la zona 5850-4650 Å; quello del blu per la zona 4950-4100 Å.
Apparecchi da presa. - Le difficoltà da superare per la presa col processo tricromo dipendono dal fatto che le tre immagini elementari debbono coincidere punto per punto e quindi debbono essere prese non solo dal medesimo punto, ma con lo stesso obiettivo. Gli apparecchi da presa per tricromie si dividono in due classi: 1. ad esposizione multipla, che sono sostanzialmente eguali agli apparecchi normali fuorché per i telai, i quali, invece di una, portano tre lastre, ciascuna col suo filtro colorato, e debbono potersi spostare in modo da esporre successivamente le tre lastre con tre scatti dell'otturatore; 2. ad esposizione unica, che consistono sostanzialmente in tre camere oscure con un obiettivo comune, i raggi provenienti dal quale vengono divisi in tre fasci che illuminano ciascuno una lastra attraverso un filtro, sicché le tre fotografie elementari si ottengono con un solo scatto dell'otturatore. Con gli apparecchi ad esposizione multipla (anche coi modelli moderni a spostamento automatico del telaio) si possono fotografare soltanto oggetti immobili; con i più moderni di quelli ad esposizione unica si arriva a fare delle istantanee.
Apparecchi ad esposizione multipla. - Uno dei primi di questa classe è l'apparecchio Miethe-Bermpohl (fig. 71) nel quale il telaio era spostato a mano. Nell'apparecchio della Colour Photographs Ltd. (fig. 72) lo spostamento del telaio si compie invece automaticamente per mezzo di un movimento di orologeria.
Apparecchi ad esposizione unica. - Il metodo più semplice di esposizione unica è quello illustrato alla fig. 73. La luce proveniente dall'obiettivo attraversa dapprima una lastra trasparente F che fa da sostegno, poi un'emulsione BE sensibile al blu, poi un filtro G che assorbe i raggi blu, poi un'emulsione GE sensibile al giallo, poi un sostegno trasparente F, poi un filtro R che assorbe i raggi gialli, poi un'emulsione RE sensibile al rosso; infine c'è un terzo sostegno F. Con questa disposizione è difficile ottenere immagini a contorni netti, sia perché è impossibile che tutte le superficie siano perfettamente a contatto, sia perché la luce viene parzialmente diffusa nel passaggio attraverso le due prime emulsioni, sicché la seconda e la terza immagine non sono esenti da alone. Il metodo è stato applicato a lastre e a pellicole.
La fig. 74 dà lo schema dell'apparecchio brevettato da F. E. Ives nel 1902 e costruito da E. Sanger-Shepherd. Una parte dei raggi provenienti dall'obiettivo va nella camera centrale sulla lastra del giallo; le due sezioni esterne sono deviate da due prismi romboidali e vanno alle lastre del rosso e del blu. La fig. 75 illustra una disposizione diversa, che è stata brevettata dal Piloty. I due specchi S1S2 riflettono ciascuno un terzo della luce proveniente dall'obiettivo sulle lastre laterali. Con queste disposizioni la perdita di luminasità è forte, con un obiettivo F : 3, la luminosità dell'apparecchio completo scende a F : 12.
La fig. 76 illustra l'apparecchio di E. T. Butler. Parte della luce proveniente dall'obiettivo è riflessa dallo specchio F1 e impressiona la lastra del rosso attraverso il filtro R. I raggi rimanenti attraversano lo specchio F1 e sono in parte riflessi dal secondo specchio F2, sicché vanno a impressionare la lastra del blu attraverso il filtro B; un'ultima parte attraversa lo specchio F1 ed impressiona la lastra del verde attraverso lo schermo V. È necessario che gli specchi non diano una doppia immagine; perciò una delle loro facce è rivestita di gelatina colorata: lo specchio F1 di giallo-blu, cioè del colore complementare del rosso; lo specchio F2 di giallo, cioè del colore complementare del blu; i raggi di questi colori complementari sono assorbiti dai filtri disposti davanti alle lastre.
Con simili apparecchi, fino a poco tempo fa, riusciva difficilissimo fare istantanee anche d'estate e al sole. Col modernissimo apparecchio inventato da A. G. Hillman (fig. 77) le istantanee sono possibili, e anche d'inverno si sono ottenute fotografie di soggetti non immobili.
Applicazione al cinematografo della tricromia e della bicromia. - Negli ultimi anni, la tricromia, coi processi Vitacolour, Technicolor, Kodacolor, ecc. e la bicromia col processo Kodachrome, e con altri, sono state applicate con successo al cinematografo (v. X, pp. 342-43). Per la bicromia il filtro rosso è trasparente ai raggi di lunghezza d'onda fra 7000-5750 Å, il verde alle lunghezze d'onda 5750-4000 Å.
Tricromia con reticolo colorato. - Se invece d'impressionare tre lastre diverse attraverso tre filtri colorati, s'impressionano i diversi punti di una lastra attraverso filtri colorati, così piccoli e disposti in modo da dividere in aree dei tre colori elementari anche la minima area visibile ad occhio nudo, il sistema dei punti di un medesimo colore equivale a una lastra elementare col suo filtro colorato e se si osserva la positiva per trasparenza dietro uno schermo che sia punto per punto eguale a quello che è servito a impressionare la negativa, si vede un'immagine nei colori naturali. In tal modo si evita quell'operazione delicata che è la ricomposizione delle tre immagini elementari.
Il Ducos du Hauron fu il primo a ideare questa disposizione. Nel 1868 egli propose d'impressionare la negativa dietro uno schermo formato da sottili linee parallele, rosse, verdi e blu, e di guardare la positiva per trasparenza dietro uno schermo eguale. Il Joly di Dublino brevettò nel 1893 e 1894 uno schermo con linee larghe 0,12 mm. L'idea fu applicata, ma con poco successo, da un sindacato che acquistò i suoi brevetti, insieme con quelli simili dell'americano J. McDonough.
Lo schermo può essere costituito da punti colorati disposti secondo un disegno semplice, e meglio ancora da linee, oppure da punti disposti irregolarmente, a mosaico. Solo nel primo caso è praticamente possibile mettere la positiva in perfetta corrispondenza con uno schermo eguale a quello che ha servito ad impressionare la negativa; perciò solo in questo caso è possibile fare lo schermo separato dall'emulsione. Nel secondo caso è praticamente necessario che lo schermo sia fisso alla lastra e, per le ragioni che sono esposte più oltre, la stampa di positive è difficile, e si trasforma in diapositiva la stessa negativa; a questo svantaggio si contrappone la minor difficoltà della fabbricazione industriale. Sono fondate su questo principio le lastre autocrome che hanno avuto larga diffusione, mentre quelle a schermo separato sono ancora ai primi passi.
Tricromia con reticolo colorato, a schermo separato. - Appartengono a questa categoria la lastra Thames, la Paget che sostituì la prima e fu abbandonata nel 1925, la Finlay e la Duplex di Chas. Baker. Quest'ultima si impressiona dietro lo schermo, il cui disegno è riprodotto nella fig. 78. Con la negativa si può stampare un numero qualunque di positive, che si esaminano sovrapponendole ad uno schermo eguale al primo. La lastra è più rapida delle autocrome. A questi importanti vantaggi si contrappongono diversi inconvenienti. I colori si vedono esattamente solo quando la lastra è guardata perpendicolarmente, perché solo allora i depositi d'argento sono allineati col corrispondente colore dello schermo; altrimenti (per l'errore di parallasse) il colore varia con l'angolo visuale; l'errore è tanto maggiore, quanto più piccoli sono gli elementi colorati. Inoltre, è difficile ottenere un perfetto contatto fra la lastra e lo schermo.
Lastre autocrome. - Le lastre Lumière sono costituite da una emulsione pancromatica, sul dorso della quale è disposto uno schermo fatto di granuli di fecola colorati in modo che alcuni sono trasparenti ai raggi rossi, altri ai verdi e altri ai blu-violetti: essi sono disposti a mosaico in proporzioni tali da formare uno strato grigio. Siccome l'emulsione pancromatica non è egualmente sensibile per tutti i colori dello schermo, si usa, davanti o dietro l'obiettivo, un filtro di compensazione colorato in giallo. Impressionando e sviluppando, in corrispondenza ai punti rossi del soggetto i granuli dello schermo trasparenti al rosso saranno resi opachi dall'argento metallico; in corrispondenza ai verdi saranno resi opachi i punti verdi della lastra, e così via; sicché, guardata per trasparenza, la lastra presenterà un'immagine negativa nei colori complementari del soggetto. Stampando questa negativa sopra una lastra uguale si otterrebbe una positiva che, guardata per trasparenza, sarebbe l'immagine del soggetto coi suoi colori naturali, se non ostassero diverse ragioni (v. oltre). Si usa, invece, praticare l'inversione della lastra e cioè, invece di eliminare il sale d'argento che non ha subito l'azione della luce, si elimina l'argento metallico formatosi nello sviluppo, cioè quello che costituisce l'immagine negativa; dopo di che, esponendo la lastra alla luce e sviluppandola una seconda volta, si ottiene una diapositiva nei colori naturali.
È difficilissimo ottenere risultati soddisfacenti stampando per contatto dalla negativa su lastra autocroma, perché, data la struttura dello schermo, la luce monocromatica che attraversa un determinato granulo dello schermo della negativa normalmente non cadrebbe tutta sopra un granulo dello stesso colore dello schermo della positiva; affinché questo non avesse importanza, bisognerebbe che lo schermo della positiva fosse fatto di granuli molto più piccoli dello schermo della negativa. Inoltre, siccome le lastre autocrome si stampano dalla parte del vetro, anche quando si stampa a luce parallela non si evita del tutto l'alone. Infine mentre la composizione della luce con cui si stampano le lastre monocromatiche non ha influenza sui risultati (perché tutte le radiazioni hanno azione fotochimica), nella stampa delle lastre autocrome il valore cromatico dei colori della positiva varia secondo la composizione della luce con la quale è stata stampata; sicché sarebbe necessario stampare con luce eguale a quella che ha impressionato la negativa. Per questo i fratelli Lumière adottarono il metodo dell'inversione dell'immagine, proposto da Rodolfo Namias al Congresso fotografico di Firenze del 1899.
I granuli colorati che costituiscono lo schermo delle autocrome Lumière hanno diametro di 10-15 micron, ve ne sono 6000 al mmq. Gli interstizî fra questi granuli sono riempiti di polvere di carbone. Visto al microscopio con un ingrandimento di 125 diam., lo schermo ha l'aspetto della fig. 79, nella quale appariscono neri i granuli blu, grigi quelli rossi e chiari i verdi. Quelli rossi sono trasparenti ai raggi di lunghezza d'onda > 5600 Å, con la trasparenza massima per quelle > 6300 Å; i verdi alle radiazioni 6000-4700 Å con massimo a 5300 Å; i blu alla radiazione 5300-4500 Å con massimo 〈 4500 Å. Oltre a quella che assorbe lo schermo compensatore, lo schermo a mosaico assorbe il 92,5% della luce, sicché la lastra riesce lenta (2,4 gradi H. D.) a meno che non sia ipersensibilizzata (v. sopra). Il caricamento dei telai e il primo sviluppo si compiono nell'oscurtà, oppure a luce debolissima, con uno schermo speciale (Virida); tutte le altre operazioni in piena luce, a cominciare dal trattamento con permanganato. Nella messa a fuoco bisogna tener conto che la lastra va esposta dalla parte del vetro; perciò bisogna spostare all'indietro l'obiettivo di una lunghezza eguale allo spessore della lastra (1,8 mm.); però esistono filtri che compensano la differenza. Si sviluppa al metochinone o al pirogallolo; poi si lava in acqua fredda e s'immerge in una soluzione di permanganato potassico ed acido solforico, l'immagine sparisce in 30-40 secondi. Si lava nuovamente e si sviluppa una seconda volta nel bagno al metochinone o al pirogallolo come la prima volta; si lava e si essicca rapidamente e si applica una speciale vernice senza usare alcool né riscaldare. Si finisce la lastra applicandovi una vernice di benzene e gomma dammar.
Lo schermo della lastra autocroma Agfa è anch'esso a mosaico e formato da granuli di destrina o di acido tannico, di diametro 8-17 micron, colorati con coloranti basici. I rossi sono trasparenti alle radiazioni > 5600 Å, con un massimo per quelle > 6600 Å; i verdi a quelle di 6100-4800 Å con un massimo per quelle di 5300 Å; i blu a quelle di 5250-4000 Å, con un massimo per quelle 〈 4300 Å. Le lastre Agfa sono più trasparenti delle Lumière, assorbendo l'86% della luce che passa dal filtro compensatore. Si trattano quasi come le Lumière. Lo schermo delle lastre Omnicolor di Jougla-Lumière ha invece disegno regolare, stampato su uno strato di lacca di cellulosa con colore grasso. Prima si stampano delle linee blu scuro, a distanza uguale al doppio della loro larghezza; poi si colora tutto in giallo e, stampando linee violette ad angolo retto con le blu, si ottengono dei rettangoli verdi; poi colorando in rosso gli spazî gialli rimanenti, si ottengono dei rettangoli rosso-arancio.
Cromofotografia per decolorazione. - Si fonda sul fatto che certi colori di anilina sbiadiscono sotto l'azione delle radiazioni luminose che esse assorbono; cioè di quelle di colore complementare al loro colore. Se si applicano alla carta tre strati di tali sostanze coloranti, p. es. uno giallo, uno blu-verde e uno porpora, e vi si proietta sopra un'immagine policroma, nei punti che ricevono raggi gialli scoloriscono il blu-verde e il porpora e rimane il giallo; e similmente rimane il blu-verde e il porpora nei punti che ricevono raggi di questi colori. Un tempo si bagnava semplicemente la carta con soluzione delle sostanze coloranti; in seguito le sostanze coloranti sono state unite a sensibilizzatori e applicate alla carta con gelatina oppure con collodio. I colori si possono fissare, sia distruggendo il sensibilizzatore, sia sciogliendolo e in tal modo eliminandolo (in questo caso s'impedisce l'eliminazione della sostanza trattando con speciali sostanze incollanti), sia trattando con sostanze (p. es., solfato di rame, tannino, tartaro emetico, ecc.) che rendono resistenti alla luce quei colori.
La decolorazione in assenza di sensibilizzatori è un'ossidazione; in presenza di un sensibilizzatore come la tiourea è una riduzione. In certi casi la riduzione è reversibile, sicché, per ossidazione all'aria nell'oscurità, torna parzialmente del colore originario.
Una carta a decolorazione, che fu messa in commercio nel 1905 da Smith sotto il nome di carta Uto, era composta di due strati, uno al collodio, verde e sensibilizzato all'anetolo, l'altro di gelatina con rosso di eritrosina, che doveva essere sensibilizzato con acqua ossigenata al momento dell'uso. Alcuni anni dopo apparve la carta Utocolor, che era un perfezionamento della prima, ma non ebbe maggior successo. Verosimilmente era sensibilizzata con alliltiourea.
Industria.
L'industria della fabbricazione di apparecchi, carte, pellicole e altro materiale fotografico, sorta poco dopo il 1870, è stata favorita nel suo sviluppo non solo dall'enorme diffusione della fotografia nel campo scientifico e dilettantistico, ma anche dall'invenzione e diffusione della cinematografia, per quel tanto che questa comporta di applicazione di tecnica fotografica (v. cinematografo). È appunto in forza di una tecnica similare, che imprese di costruzioni d'apparecchi o di preparazione di materiale chimico hanno pensato di creare rami distinti per cinematografia, o imprese fotografiche e imprese cinematografiche si sono collegate finanziariamente o addirittura riunite in unico gruppo produttore. Né questo è il solo aspetto caratteristico dell'industria, ché in molti casi si sono manifestati anche notevoli i legami di essa con l'industria delle costruzioni ottiche, che nella fotografia trova vasto campo d'applicazione.
Considerata nel complesso di questi rami l'industria fotografica si presenta abbastanza localizzata, accentrandosi, per la massima parte, in quattro soli paesi: Stati Uniti, Germania, Francia, Inghilterra. E se si tien conto che l'industria inglese provvede quasi esclusivamente al mercato interno. a tre soltanto si riducono i grandi centri di rifornimento del mercato mondiale. Dalla tabella seguente si possono rilevare ì valori dell'esportazione mondiale, valori che, per le connessioni illustrate, si riferiscono al materiale fotografico e cinematografico insieme.
Negli Stati Uniti le costruzioni fotografiche, cinematografiche e ottiche raggiungono cifre annuali ragguardevoli e sono dovute a pochi importanti gruppi produttori. Nel campo più propriamente fotografico, ad es., domina la Eastman Kodak Co. fondata da G. Eastman (v.): ha officine, oltre che nel territorio della Confederazione, a Harrow in Inghilterra, a Vincennes in Francia, a Vác in Ungheria, a Melbourne in Australia, a Toronto nel Canada, e organismi commerciali di vendita, talvolta automaticamente costituiti, in tutti i mercati del mondo. La Eastman è riuscita ad accordarsi in Francia con la Pathé S. A., principale gruppo produttore di quel paese, per la creazione di una società comune di fabbricazione e vendita, la Kodak Pathé, ma non ha potuto conseguire uguali accordi con i gruppi tedeschi,
In Germania controllano la massima parte dell'industria fotografica due gruppi: la Zeiss-Ikon A.-G. e il reparto Agfa della I. G. Farbenindustrie. La Zeiss-Ikon A.-G. si costituì nel 1926: è una fondazione creata con capitali della vecchia ditta di strumenti ottici Carlo Zeiss di Jena, che unisce numerose e importanti ditte tedesche di materiale fotografico, quali le Ernemann Werke, la Contessa Nettel A.-G., l'Ica A.-G., le Goerz A.-G.; in seno al gruppo vi è una certa divisione di lavoro: le Ernemann Werke producono principalmente apparecchi cinematografici, l'Ica e la Contessa Nettel apparecchi fotografici, la Goerz apparecchi fotografici, di proiezione e altri. Il reparto Agfa della I. G. Farbeindustrie, da molti anni esistente, originariamente si occupava soltanto della fabbricazione di pellicole e lastre, ma dal 1926 ha iniziato anche la produzione di apparecchi da dilettante di medio prezzo. Emanazione di questo gruppo e dell'americana Ansco Photoprodructs Inc. è anche la Agfa-Ansco Photoproducts Co. per la produzione e vendita di articoli fotografici di ogni sorta negli Stati Uniti.
Circa l'industria francese, si è accennato a uno dei maggiori gruppi produttori, la Pathé S. A., cui si collegano la Pathé Nathan, la Pathé-Baby, la Kodak Pathé. Questo gruppo tratta principalmente apparecchi cinematografici e fotografici. Ma altre ditte in Francia, come le Usines du Rhône, dànno un'alta produzione di lastre, pellicole e materiale fotografico minore.
Hanno anche una certa produzione l'Austria, l'Italia, la Svizzera, il Canada, quest'ultimo soprattutto attraverso l'officina Kodak. L'Italia, in particolare, ha ottime industrie di ottica (la Filotecnica di A. Salmoiraghi, 1e Officine Galileo, ecc.), di carte e materiale chimico fotografico (la Fabbrica italiana lamine, la Tensi, la Cappelli. ecc.), ma manca di un'industria di fabbricazione di apparecchi.
Bibl.: J. M. Eder, Ausfürliches Handbuch der Photographie, Halle (Saale) 1925-1932, contiene: J. M. Eder e E. Kuchinka, Geschichte der Photochemie und Photographie; J. M. Eder, Photochemie; id., Die Photographie bei künstlichem Licht; Dr. Weidert, Die photographischen Objektive; Dr. Lüppo-Cramer, Die Grundlagen der photographischen Negativverfarhren; Die Photographie mit der Kollodiumverfahren; J. M. Eder e E. Kuchinka, Die Daguerreotipie und die Anfänge der Negativphotographie auf Papier; J. M. Eder e A. Hay, Die theoretischen und praktischen Grundlagen der Autotypie; J. M. Eder e Dr. Lüppo-Cramer, Die Photographie mit Bromsilber- und Chlorsilbergelatine; F. Wentzel, Fabrikation der photographischen Platten, Filme und Papiere; J. M. Eder e Lüppo-Cramer, Verarbeitung der photographischen Platten, Filme und Papiere; Lüppo-Cramer, Sensibilisierung und Desensibilisierung; J. M. Eder, Die Sensitometrie, photographische Photometrie und Spektrographie; F. Wentzel, Die photographischen Kopierverfahren mit Silbersalzen; J. M. Eder, Das Pigmentverfahren, Öl-, Bromöl- und Gummidruck; J. M. Eder, Heliogravüre und Rotationstiefdruck; J. M. Eder e A. Trumm, Die Lichtpausverfahren, die Platinotypie und verschiedene Kopierverfahren ohne Silbersalze. V. inoltre: R. Namias, Manuale teorico-pratico di chimica fotografica, voll. 2, Milano 1926; id., Enciclopedia fotografica, Milano 1926; id., Il ritocco dei negativi, Milano 1927; G. Potonniée, Histoire de la découverte de la photographie, Parigi 1925; A. Watkins, Photography, its Principles and Practice, New York 1927; D. Argentieri, L'obiettivo fotografico, Milano 1930; C. B. Neblette, Photography, New York 1931; C. Schiaparelli, Fisica e chimica fotografiche, Milano 1931; L. P. Clerc, La technique photographique, Parigi 1927; E. Wall, Practical colour photography, Londra 1929; E. König, Die Praxis der Farbenphotographie, 5ª ed., Berlino 1930.
Fotografia militare.
L'applicazione della fotografia all'arte militare in Italia data dal 1896 con la costituzione di una sezione fotografica presso la brigata specialisti del genio. Gli studî furono dapprima indirizzati alla ricerca di potenti apparati telefotografici, poi furono volti alla ricerca di macchine da potersi applicare a bordo di velivoli. La fotografia militare ben presto fu riconosciuta un elemento di capitale importanza per la condotta delle operazioni di guerra; essa ha caratteristiche proprie. È un documento per la compilazione del quale ogni criterio artistico dev'essere escluso; esso non è fine a sé stesso, ma è elemento di studio e mezzo integrativo del servizio informazioni. La fotografia militare può essere presa, sia da terra, sia dal bordo dei velivoli.
Fotografia da terra. - Viene eseguita da sezioni fotografiche che sono assegnate alle grandi unità, le quali eseguono: vedute panoramiche di zone di terreno interessanti per lo svolgimento delle operazioni militari; fotografie di carattere documentario; e rilievi fotografici delle posizioni occupate dal nemico. Le vedute panoramiche servono per completare lo studio del terreno, e sostituiscono con molto vantaggio gli schizzi panoramici, molto usati in passato per completare la rappresentazione delle carte topografiche nelle operazioni militari; le fotografie documentarie, eseguite con macchina a mano, sebbene abbiano un relativo interesse dal punto di vista delle operazioni militari, riescono utili per la documentazione storica della campagna, rappresentando i più notevoli lavori eseguiti nel territorio delle operazioni e delle retrovie.
Si ricorre alle macchine telefotografiche per ritrarre a grandi distanze particolari del terreno dove si prevede che il nemico abbia eseguiti lavori di fortificazione, per lo studio delle posizioni rafforzate, quando a queste non ci si possa avvicinare notevolmente. I risultati della telefotografia sono collegati alle condizioni di luce ancora più che la fotografia ordinaria e richiedono condizioni d'atmosfera specialissime.
Sino alla distanza di dieci km., in buone condizioni di luce e d'atmosfera, si possono molto facilmente studiare con la telefotografia, trincee, cannoniere, appostamenti per mitragliatrici e per artiglierie, reticolati, ecc.; ma si possono raggiungere anche maggiori risultati, specialmente lavorando nelle regioni di alta montagna che offrono i migliori punti di vista e dove l'atmosfera è più trasparente. Con l'aumento delle distanze i risultati diventano meno buoni.
Fotografia aerea. - Non è facile stabilire l'epoca in cui furono eseguite le prime fotografie dagli aerei: alcune ne ottenne il Nadas, a Parigi, nel 1856 e nel 1858; ma certo altri, in altri paesi, debbono averlo preceduto. Il primo impiego d'importanza pratica si può far risalire al 1862 (v. aerostato, I, p. 647), anno in cui il Lincoln creò, durante la Guerra di secessione, il corpo degli aerostieri, i quali adoperarono dal pallone frenato il telegrafo per comunicare i movimenti del nemico, e la fotografia per individuare le posizioni. La fotografia dal pallone fu adoperata poi in Cina nel 1900 dalla spedizione europea e dai Giapponesi nella guerra russo-giapponese. Naturalmente i primi tentativi diedero risultati assai manchevoli, data l'imperfezione del materiale.
In quasi tutti gli eserciti erano intanto sorti, tra gli aerostieri, reparti fotografici: la fotografia aerea ricevette in Italia notevole impulso dal Moris, divenuto poi generale di Corpo d'armata, che comandava al principio del secolo gli specialisti del genio e che fece eseguire, oltre quelli di carattere eminentemente militare, notevolissimi rilievi della zona monumentale di Pompei e della laguna veneta.
Nella guerra libica poi (1911-13), l'Italia usò la fotografia aerea per rilevare posizioni di truppe, per controllare notizie provenienti da altre fonti, ecc. Però solo la guerra mondiale, col suo carattere di guerra di posizione, diede rapidamente un grandissimo sviluppo alla fotografia aerea, trovando in essa il migliore ausilio per la conoscenza degli apprestamenti difensivi avversarî, per lo studio e il preordinamento di qualsiasi operazione militare (v. anche esploraziove: L'esplorazione aerea).
La tecnica aerofotografica, specialmente per quanto riguarda le macchine da presa portate a bordo dagli aeroplani, sotto il pressante assillo di avere risultati sempre migliori, raggiunsero un notevole grado di perfezionamento, talché mentre in principio le macchine aerofotografiche erano poco dissimili dalle ordinarie e venivano adoperate a mano costringendo l'operatore a manovre poco agevoli a bordo, ben presto apparvero quelle semiautomatiche, nelle quali l'intervento dell'operatore si limitava a comandare volta a volta lo scatto dell'otturatore, e successivamente quelle completamente automatiche, nelle quali, fissato l'intervallo di scatto da tenersi fra un fotogramma e l'altro in dipendenza della quota rispetto al terreno e della distanza locale, l'operatore non aveva che da iniziare il funzionamento al momento opportuno, restando poi libero di attendere ad altri compiti.
Nella guerra mondiale, l'Italia impiegò quasi esclusivamente macchine Lamperti e Garbagnati di Milano (fig. 80), del tipo semiautomatico, capaci di portare 12 o 24 lastre 13 × 18, con obiettivo da 250 mm. di distanza focale. La camera fotografica, posta a distanza dell'operatore, veniva manovrata mediante una leva e una trasmissione flessibile; ad ogni movimento della leva avveniva lo scatto dell'otturatore e la sostituzione della lastra impressionata con un'altra lastra vergine. Questo tipo di macchina, leggiera, semplice e sicura, può oggi apparire sorpassato, ma rese allora preziosissimi servizî e permise ai nostri aviatori in guerra di eseguire ottime fotografie: la tenacia e l'ardimento dei combattenti supplirono spesso alla deficienza tecnica del materiale.
Da allora molti progressi sono stati compiuti, specialmente con l'uso, ormai generalizzato, della pellicola sensibile. I vantaggi della pellicola sulle lastre si possono così riassumere: leggerezza, infrangibilità, sicurezza del dispositivo di ricambio del materiale sensibile, grande quantità di materiale sensibile che può essere immagazzinato nella macchina. Il maggior impiego della pellicola è stato reso possibile anche per i recenti progressi della fotochimica, perché si sono ottenute oggi pellicole che consentono risultati pari a quelli delle migliori lastre.
Ogni paese ha, si può dire, i proprî modelli di macchine, le quali, pure essendo tutte informate agli stessi principî, variano a seconda delle tendenze prevalenti. Così si hanno tipi più o meno complicati e di altissimo rendimento (cioè capaci di rilevare in un solo volo estesissime zone di terreno) dove esistono regioni non ancora ben note nei loro particolari topografici (come in America) e dove la fotografia aerea viene largamente usata anche in tempo di pace per rilievi fotografici o fototogrammetrici (v. fotogrammetria); dove invece l'apparato fotografico è considerato più che altro un accessorio indispensabile per la ricognizione dell'aviazione militare, le miacchine, pure essendo sempre di tipo automatico e di elevato rendimento, hanno carattere di maggiore semplicità e praticità d'impiego.
In Italia la tecnica e l'industria specializzata in tale ramo hanno raggiunto un notevole grado di perfezione: si possono citare, p. es., i recenti tipi di macchine fotografiche prodotte dalla S.A. OMI di Roma, uno dei quali (fig. 81) di peso e volume molto ridotti, capace d'impressionare successivamente ed automaticamente 100 fotogrammi del formato 13 × 18, su pellicola continua della larghezza di 18 cm. e con obiettivo da 250 mm. di distanza focale, destinato ai velivoli piccoli e leggieri; e un tipo (fig. 82) capace d'impressionare 200 fotogrammi del formato 18 × 24 con obiettivo da 300 o 500 mm. di distanza focale, intercambiabili.
Il funzionamento automatico della macchina è ottenuto o per mezzo di un motorino elettrico alimentato dall'impianto elettrico di bordo o da una batteria di accumulatori a parte, oppure per mezzo di una piccola elica a mulinello che viene azionata dal vento prodotto dalla velocità del velivolo. Nelle figure riportate è adottato quest'ultimo dispositivo. Un apposito organo detto autocronometro permette all'operatore di fissare a volontà l'intervallo a cui deve avvenire l'impressione successiva dei fotogrammi, senza che nel corso della ricognizione egli debba intervenire con altre manovre. L'intervallo di scatto, per ottenere con i succesivi fotogrammi, senza discontinuità e senza eccessiva sovrapposizione, il rilievo di una lunga striscia di terreno, dev'essere regolato, per una determinata macchina, in base alla velocità del velivolo e alla quota che esso tiene.
Numerosi sono i problemi da risolvere nel progetto e nella costruzione di una macchina fotografica automatica: uno dei più complessi è quello di ottenere il perfetto spianamento del tratto di pellicola destinato ogni volta ad essere impressionato dal fascio di raggi costituenti l'immagine trasmessa dall'obiettivo. Altre difficoltà e altri inconvenienti si manifestano perché le macchine debbono funzionare in genere a basse temperature (che possono raggiungere anche i −30° o i − 40°).
Oltre alle macchine dette planimetriche, destinate a funzionare con l'asse ottico verticale per riprodurre il terreno secondo una planimetria approssimativa (che può essere poi resa esatta con procedimenti fotogrammetrici) vengono adoperate anche macchine che lavorano con l'asse ottico inclinato rispetto alla verticale per ottenere un'immagine panoramica del terreno, e che vengono dette macchine prospettiche (fig. 83).
Poiché ogni volta, specialmente con le macchine moderne, viene impressionata una grandissima quantità di materiale sensibile, si è dovuto realizzare un complesso macchinario per sviluppare e stampare le pellicole nel più breve tempo possibile (specialmente quando si tratta d'impiego militare). Svariatissimi sono i dispositivi ideati per raggiungere tale scopo; uno dei più semplici e pratici, adoperati nell'aeronautica italiana, è quello riprodotto nella fig. 84: per esso la striscia di pellicola (della lunghezza di 12 o di 25 metri) viene avvolta a spirale su un tamburo mediante l'introduzione automatica, durante l'avvolgimento, di asticciole destinate a tenere le spire a giusta distanza l'una dall'altra. Il tamburo, tenuto in lenta rotazione con la pellicola avvolta a spirale, passa successivamente in vasche semicircolari per le operazioni di sviluppo, lavaggio, fissaggio e ultimo lavaggio; indi in una speciale essiccatrice ad aria calda, dove in meno di un'ora la pellicola viene essiccata per uscire poi pronta per la stampa, che viene eseguita a mezzo di macchine speciali dette bromografi. La striscia di carta sensibile, impressionata sotto il negativo così ottenuto, può essere trattata in modo analogo e con gli stessi dispositivi impiegati per la pellicola. Come si vede, le operazioni vengono così ad essere tutte meccaniche, e al personale fotografico non rimane che seguire lo svolgersi delle successive operazioni per evitare inconvenienti.
Mentre tutto questo macchinario nei lavori di carattere civile trova la sua più adatta sistemazione in laboratorî opportunamente attrezzati, per l'impiego militare tutto deve essere contenuto in laboratorî autocarreggiati, indipendenti da ogni impianto fisso, sia per quanto riguarda l'energia elettrica necessaria, sia per le provviste di acqua, ecc. Detti laboratorî (fig. 87) sono generalmente costituiti da due autocarri, di cui uno porta il generatore di energia elettrica, il materiale di riserva, ecc. e l'altro costituisce la camera oscura ove si compiono le operazioni fotografiche di laboratorio.
La fotografia aerea è particolarmente utile quando permette di registrare quello che l'occhio non vede. È questo il caso della fotografia attraverso la nebbia e della fotografia notturna, entrambe importantissime dal punto di vista militare. Riguardo alla prima, si riesce allo stato attuale della tecnica ad eseguire ottime fotografie anche attraverso la foschia, mediante l'impiego di opportuni filtri di luce che lasciano passare soltanto le radiazioni dello spettro di maggiore lunghezza d'onda (rosso e infrarosso), e adoperando emulsioni sensibili, capaci d'impressionarsi con tali radiazioni (figure 85 e 86).
Per quanto riguarda la fotografia notturna il problema presenta notevoli difficoltà per il fatto che l'apparato fotografico è montato su un mezzo di così alta velocità quale l'aeroplano. Molti sono i sistemi adottati per l'apparato fotografico e per l'illuminazione del terreno da rilevare; finora i risultati sono abbastanza soddisfacenti ma assai di più si otterrà in avvenire.
V. tavv. CLXV-CLXXII e tavv. a colori.