Fotografia
di Carlo Bertelli
Fotografia
sommario: 1. Introduzione. 2. Accessibilità della fotografia. 3. Fotografia e realtà: memoria e imprevisto. 4. Fotografia creativa. 5. Arte e fotografia: riproduzione e interpretazione. 6. La fotografia e la stampa: impegno sociale ed evasione. 7. La fotografia e il museo. □ Bibliografia.
1. Introduzione
Nessuna esperienza visiva coinvolge tanto l'uomo moderno quanto la fotografia, sia nella sua presentazione statica, sia nella sua percezione in movimento, come avviene nel cinema e nella televisione. Benché sin dalla fine del secolo scorso se ne sia avvertito il predominio come un pericoloso diaframma frapposto a una percezione e a una rappresentazione più diretta della natura (uso dell'aggettivo ‛fotografico' in senso denigratorio in sede di critica d'arte), la fotografia resta lo strumento di comunicazione essenziale degli stessi movimenti radicali dell'arte moderna (land art, body art, happening, language art, narrative art) che intendono ristabilire un contatto non mediato dalla tradizione con la realtà della natura, del gesto, del segno. La fotografia è così penetrata nel nostro mondo perché costituisce la risposta a bisogni tipici della civiltà industriale, e nello stesso tempo si inserisce in maniera totalmente nuova nella lunghissima ricerca di mimare il mondo circostante e di distribuirne l'immagine. Storicamente la maggiore difficoltà nella distribuzione dell'immagine risiedeva nel codice. Ogni immagine rispondeva a un determinato codice di rappresentazione ed era compresa da coloro che possedevano lo stesso codice di chi l'aveva prodotta; per essere ammessa fuori dell'area dei possessori dello stesso codice andava reinterpretata e ricostruita. La storia dell'arte è fatta tutta di passaggi da una traduzione all'altra, dalla palmetta astratta dell'Asia centrale che ‛diviene' il tralcio d'acanto dei Greci, secondo la classica indagine del Riegl, allo studio e alla riassimilazione degli antichi, che occupa tutta l'arte europea fino alle soglie dell'avvento della fotografia, alla migrazione di forme iconografiche nell'ambito di una stessa religione o attraverso civiltà diverse. La fotografia, invece, grazie alla sua enorme diffusione, ha sconvolto i codici nella loro esclusività territoriale o religiosa, si è presentata come codice unico, così universale da imporsi come unica riproduzione della realtà.
2. Accessibilità della fotografia
Altro requisito essenziale nel rapporto storico stabilito sull'immagine, era quello dell'abilità del fabbricante d'immagini. La fotografia, invece, ammette l'inabilità manuale fin dalle sue origini e il suo progresso tecnico si è svolto nei grandi laboratori dell'industria - non negli studi dei singoli fotografi - ed è stato in gran parte rivolto alla conquista di un pubblico larghissimo attraverso la costante semplificazione dei metodi operativi. Questi tratti distintivi sono presenti già nell'opera dei primi inventori della fotografia e dei suoi perfezionamenti tecnici. W. H. F. Talbot, l'inventore, fra il 1833 e il 1839, della fotografia su carta, nel suo lungo racconto della scoperta ammette francamente di aver incominciato le ricerche partendo dalla constatazione della sua inadeguatezza a disegnare persino servendosi di un apparecchio che facilitava il compito come la ‛camera lucida' di Wollaston. Nel modo tipico delle grandi invenzioni, il riconoscimento della propria inferiorità è così assunto come l'indicazione della necessità di rovesciare il problema, che voleva dire ignorare il lungo tirocinio accademico per mettere invece i mezzi della tecnica a disposizione anche dei meno dotati. Nel 1844, presentando i suoi photogenie drawings, Talbot potrà dire: ‟Esiste una strada maestra del disegno: (...) lasciare il pennello e armarsi di soluzioni chimiche e di camerae obscurae. Specialmente per coloro, e non sono pochi, che trovano difficili le leggi della prospettiva". Lo stesso Daguerre era stato un pittore, e così D. O. Hill, che si era rivolto alla fotografia non potendo altrimenti svolgere il compito che si era proposto: il ritratto di gruppo dei 450 delegati alla convenzione della Free Church of Scotland.
Con la fotografia, per la prima volta, dopo una lunga tradizione basata sull'insegnamento delle ‛arti del disegno', l'apprendimento di come realizzare le immagini è affidato soltanto allo studio di materie ‛scientifiche', che non hanno nulla di ‛artistico'. Senonché già parlare di studio delle scienze significa, dal punto di vista della fotografia, chiedere troppo ai suoi operatori. Mentre molti fra i primi fotografi circondano di mistero le loro manipolazioni, la fotografia tende sempre più a rendere il processo accessibile a tutti, anche a chi non abbia nessuna cognizione dei suoi fondamenti ottici e chimici, demandando all'organizzazione industriale i compiti della ricerca. Avviene cioè con la fotografia qualcosa che non ha precedenti in qualsiasi tentativo anteriore di diffusione dell'immagine. Mentre nella stampa, che nello stesso tempo tende sempre più alla meccanizzazione e che mutua dalla fotografia molti procedimenti e scoperte, il problema resta sempre e soltanto quello della diffusione dei prodotti, con la fotografia si pone il problema della moltiplicazione dei produttori. Già nel 1839 Daguerre invia negli Stati Uniti Fr. Gouraud con il compito di diffondere la dagherrotipia, ossia il sistema fotografico brevettato da Daguerre. Gouraud allestì mostre di dagherrotipi suoi e di Daguerre a New York, a Boston e a Providence, e dette pubbliche dimostrazioni del processo fotografico. Nel 1850 già si contavano in America 2.000 dagherrotipisti, nel 1853 si calcola che siano stati eseguiti 3 milioni di fotografie. Il proliferare delle riviste fotografiche e delle società fotografiche è un aspetto ancora più indicativo della partecipazione di massa alla fotografia; il pubblico vi partecipa non soltanto come oggetto (e per il ritratto fotografico, allora più che mai, era necessaria la collaborazione del modello), ma come attore. Tra il 1850 e il 1861 Gernsheim registra ventotto riviste fotografiche, cui si deve aggiungere l'italiana ‟Il progresso fotografico", fondata da R. Namias nel 1894 e tuttora attiva; nello stesso periodo, le società fotografiche, a incominciare dalla Sociétè Héliographique di Parigi, fondata nel 1851, sono trentotto e le loro dislocazioni sono, oltre alle grandi capitali europee, Bombay, Odessa, ecc. Nel 1887 è fondata, a Firenze, la Società Fotografica Italiana (primo congresso, Torino 1898). Nel 1856, a Woolwich, fu introdotto per la prima volta l'insegnamento della fotografia nell'esercito britannico; in breve tutti gli eserciti avrebbero adottato la fotografia come una parte essenziale del loro equipaggiamento, tanto che oggi gli archivi militari contengono riserve preziose, non ancora esplorate, per la storia della fotografia.
Ma fino al 1880 il proselitismo fotografico è ostacolato da alcune condizioni tecniche che rendono difficile l'accesso dei veri dilettanti. Le società fotografiche più illustri si nobilitano della presenza di personaggi titolati e persino di sovrani (la black art, l'arte che annerisce le mani con i sali d'argento, è praticata da Vittoria e Alberto d'Inghilterra, da Elena di Savoia, dal giovane principe Umberto di Napoli); le riviste offrono informazioni utili dal punto di vista tecnico e danno consigli ‛estetici'. Il loro pubblico è fatto di amatori provvisti di mezzi per solidi studi, o di gente che si dedica alla fotografia per puro spirito commerciale. Intorno al 1860, con la produzione delle lastre secche al collodio (la prima patente è del settembre del 1856), le innovazioni abbandonano definitivamente l'alchimia del piccolo laboratorio individuale e diventano un problema di perfezionamento e di concorrenza industriali. Produzione industriale significa uniformità di tecniche produttive e di prodotti e la stessa uniformità si ripete negli avvertimenti estetici impartiti dalle riviste specializzate. La fotografia non è soltanto questione di concorrenza al livello della grande industria produttrice, ma lo è anche a quello delle migliaia di studi che esistono in tutto il mondo. Le numerose descrizioni degli studi fotografici, i consigli stampati nelle riviste, i fregi e i titoli stampati sul rovescio delle fotografie costituiscono un documento di primissimo ordine per comprendere il gusto ‛medio' di gruppi sociali che entrano per la prima volta nella categoria dei ‛possessori di immagini', e, in particolare, della ‛propria immagine'.
Nel 1879 Ch. Harper Bennet aveva esposto alla South London Photographic Society le fotografie ottenute a 1/25 di secondo con il nuovo processo, da lui inventato, delle lastre ricoperte di gelatina al bromuro d'argento. Il 1880, con l'avvento della lastra al bromuro d'argento, che non richiede più le manipolazioni della lastra al collodio, segna la fine dello stadio aurorale della fotografia. Negli stessi anni comparve un numero straordinario di macchine fotografiche portatili, con magazzini che contenevano fino a dodici lastre, con le quali non era più necessario nè ricaricare ogni volta l'apparecchio in camera oscura, nè usare un cavalletto. Infine, nel 1887, O. Eastman lanciò la più rivoluzionaria delle macchine fotografiche, la Kodak, che così chiamò perché gli parve un nome facile a ricordarsi e a pronunciarsi in qualunque lingua. La Kodak era una piccola scatola con un obiettivo a fuoco fisso (57 mm f/9), caricata in fabbrica con una pellicola fotografica sufficiente per cento scatti. Dopo aver scattato tutte le fotografie, la macchina veniva rinviata alla ditta, che provvedeva allo sviluppo e alla stampa dei negativi che venivano rispediti al cliente in montature di stagnola insieme alla macchina nuovamente caricata. ‟You press the button, we do the rest", ‟voi premete il bottone, noi facciamo il resto", era lo slogan che accompagnava il lancio del prodotto.
Poche cifre indicano la portata degli avvenimenti: nel 1880 vi erano 14 società fotografiche in Gran Bretagna e 4 in America, nel 1885 ve ne erano rispettivamente 40 e 20; nel 1890, 131 e 82. Nel 1851 sono registrati in Inghilterra 50 fotografi e una fotografa, nel 1871 4.563 fotografi e 876 fotografe, nel 1891 9.119 e 3.278, nel 1911 13.205 e 5.863; negli Stati Uniti, si hanno 938 fotografi nel 1850, 7.558 nel 1870, 9.990 nel 1880, 20.040 nel 1890, 27.029 nel 1900, 31.775 nel 1910. Un calcolo del 1905 stima che vi fossero allora in Gran Bretagna quattro milioni di fotografi dilettanti, ossia circa uno ogni dieci abitanti; una stima del 1951 conta negli Stati Uniti 34 milioni di macchine fotografiche, con una spesa annua di 400 milioni di dollari per materiale fotografico.
3. Fotografia e realtà: memoria e imprevisto
Così la fotografia aveva raggiunto il bersaglio che era prevedibile ai suoi inizi. Mentre l'industria propagandava la facilità dei suoi ritrovati (‟no previous knowledge of photography is required": ‟non è richiesta alcuna preparazione tecnica"; ‟ognuno può fare fotografie presentabili fin dal primo momento"...), i fotografi professionisti si ribellavano di fronte alla straordinaria potenza del mezzo. Già nel 1886, sir W. De Wiveleslie Abney, che aveva contribuito largamente, con le sue invenzioni, all'avvento della fotografia istantanea, era allarmato dalla prospettiva che tutti avrebbero potuto esporre le loro pellicole a ogni possibile occasione, con il risultato che il 99% di ciò che avrebbero ottenuto sarebbe stato del tutto inartistic. Eppure l'inartisticità era un traguardo inevitabile della fotografia. ‛Fotografia' (pittura della luce), sun-pictures (pitture del sole), erano termini che designavano la passività dell'immagine fotografica. Era stata, agli inizi, una passività accettata con reverenza: per Talbot, quello che operava era il pennello della natura (‟the pencil of nature"), infinitamente superiore alla mano dell'uomo; per la ‟Leipziger Stadtzeitung" del novembre 1840, quella automaticità dell'immagine fotografica, che nasceva senza un intervento manuale, era addirittura sospetta come un procedimento diabolico. Già nel 1838 G. Belli, descrivendo il sistema di Talbot, asseriva che ‟la natura stessa è fatta di se medesima pittrice"; nel 1851, A. Castellani firmava una fotografia di Castel Sant'Angelo con l'epigrafe: ‟la luce eseguia".
Ma al rapporto di soggezione e di venerazione verso la natura era subentrato, grazie alla scienza, all'industria, al decadere dei valori rurali in favore di uno stile di vita cittadino, un atteggiamento di dominio e di opposizione. La ‛naturalezza' dell'impressione fotografica non poteva più essere accolta come un segnale misterioso. Soltanto in tempi assai recenti, in opere come la grande serigrafia di A. Warhol, Ethel Sculi, 36 times, o My Marilyn di R. Hamilton, Omaggio a Niepce di U. Mulas, la fisicità della fotografia, il suo poter essere un'estensione della vita, anziché una sua ricostruzione mimetica, secondo le nostre tradizioni artistiche, sono accettati come dati inevitabili in tutta la loro drammaticità. La composizione di Warhol presenta i trentasei scatti ottenuti introducendo una moneta nella gettoniera di un chiosco. La meccanicità della fotografia, in questo caso, è tale da non richiedere neanche che qualcuno diriga l'obiettivo verso il soggetto da ritrarre; è il soggetto stesso che si dispone davanti alla macchina, aspettando. La macchina fotografica è ritornata quello che parve agli inizi della sua carriera, quando, chinandosi con stupore sui primi dagherrotipi, O. Wendell Holmes, lo scrittore e medico americano, li aveva chiamati ‟the mirror with a memory", lo specchio con memoria. Nel dagherrotipo, che per i suoi riflessi metallici andava osservato collocandolo in un certo angolo visivo, l'immagine appariva in controparte, e dunque veramente il soggetto vi si trovava riflesso come in uno specchio. Non diversamente oggi chi entri in un photobooth si osserva nel riflesso nero del vetro che ha davanti, mentre attende il lampo della fotografia. E tuttavia l'immagine che ne ricava non è mai esattamente quella che si aspettava. La ripetizione delle immagini nell'opera di Warhol mette in evidenza proprio questa esitazione davanti alla macchina fotografica, l'esitazione di Ethel Sculi o di Marilyn Monroe di fronte all'imprevedibile rivelazione della fotografia. Benjamin aveva parlato dell'opposizione fra lo spazio elaborato consciamente dall'uomo e lo spazio ottico elaborato inconsciamente, e aveva aggiunto: ‟soltanto attraverso la fotografia l'uomo scopre questo inconscio ottico, come, attraverso la psicanalisi, l'inconscio istintivo". Ma la fotografia scopre anche aspetti di comportamento, gesti inconsci.
A questa scoperta ha giovato moltissimo la non professionalità della fotografia di massa. Nelle prime fotografie modelli e fotografi sono sospesi nella stessa tensione; le pose, gli sguardi intenti - non soltanto nei capolavori della Cameron o di D. O. Hill, ma anche nelle fotografie più commerciali - hanno la solennità di chi si affida a un ricordo indelebile. Anche le vedute di città, dove le lunghe pose fanno sparire tutti i passanti, le acque appaiono ferme e stranamente opalescenti, hanno la fissità di pitture antiche. Nella firma di Castellani, che abbiamo citato incompleta, il fotografo aveva scritto: ‟Castellani compose", un verbo che in nessun caso si adatterebbe alla rapida decisione dell'istantanea, ai milioni di vedute di Castel Sant'Angelo che ogni anno i turisti riportano con sé nelle parti più lontane del mondo.
Fr. Arago, nella sua presentazione della fotografia all'Académie des Sciences, aveva tracciato una previsione eccezionalmente lucida di quella che sarebbe stata la storia della fotografia, fino ad avvertire che, in questo caso come in ogni altro in cui gli osservatori applicano uno strumento nuovo allo studio della natura, ciò che si prefiggono di vedere è sempre poca cosa a confronto delle scoperte che il nuovo apparecchio consentirà. ‟En ce genre, c'est avec l'imprévu qu'on doit particulièrement compter". Con questa osservazione, Arago aveva spostato il problema della fotografia, da quello di un'impressione fedele e permanente dell'immagine trasmessa da un obiettivo sulla parete di fondo della camera (che è già altra cosa dalla pretesa di carpire la natura quale è, presunzione cui poteva portare soltanto una radicata convinzione che la visione prospettica, riprodotta dalla lente, fosse la sola vera) a quello dell'uso dell'obiettivo e della sua memoria (l'immagine impressa e indelebile) come strumento di esplorazione, capace di rivelare più cose di quante ne osservi, sul momento, lo stesso operatore. Era questa una chiave interpretativa fondamentale della fotografia. In questo senso, una volta superate le difficoltà tecniche, e dunque una volta che lo strumento era stato liberato dalle limitazioni di un tipo di organizzazione relativamente stabile, legato allo studio professionale, al rapporto con le associazioni fotografiche, alla soggezione ai principi convenzionali delle mostre, dei premi, delle riviste specializzate, proprio allora la fotografia avrebbe manifestato tutta la sua potenzialità innovativa. E da questo momento che la macchina fotografica passa nelle mani di scrittori, di pittori, di dilettanti di genio. Per costoro la fotografia è ‛trovar e immaginar'. Sono situazioni, non composizioni. Il fotografo si rivela allora nel risultato, non nella ricerca, e nel risultato è tutta la sua cultura, il suo spirito di osservazione, la sua formazione e le sue tendenze. Sono fotografi Zola, Shaw, Hugo, Strindberg; in Italia Verga, Capuana. È fotografo Degas, come sono fotografi anche A. Mucha, A. Tadema, F. P. Michetti, A. Sartorio. Un geniale fotografo dilettante è, in Italia, il conte G. Primoli, proprio per la sua vena di diarista e di narratore. Altri, come il principe M. Chigi, o il banchiere Nunes Vais (entrambe le collezioni sono presenti, per donazioni, al Gabinetto Fotografico Nazionale) alternano un'attività di studio a riprese più libere.
4. Fotografia creativa
In breve, la fotografia affida la propria fortuna all'‛idea' che vi è dentro, non all'imitazione, più o meno riuscita, di modelli pittorici. Questa constatazione provoca, all'inizio del secolo, le prime serie discussioni su che cosa sia, veramente, la fotografia al di fuori del suo uso pratico immediato. Il dibattito avviene in un periodo in cui i pittori ricorrono frequentemente, e più o meno apertamente, alla fotografia (e l'appoggio della fotografia è ricercato da artisti come Degas, Manet, Cézanne, Gauguin, Toulouse-Lautrec, per limitarsi solo ai maggiori nomi francesi), mentre i nuovi metodi di stampa (i cosiddetti bromoli, la photogravure, i vari tipi di pigment print) consentono di far assomigliare sempre più una fotografia a una stampa d'arte. L'interlocutore più conseguente è l'inglese P. H. Emerson. Nel suo libro Naturalistic photography (1889), all'arte è attribuito lo scopo d'imitare l'effetto della natura sull'occhio umano e, in questo senso, la fotografia appare superare ogni altra arte visiva. Da questa premessa discende che la fotografia non deve essere adulterata in nessun modo, né dal ritocco né dall'imitazione della pittura, anzi la fotografia dovrà esprimersi con i propri mezzi e, per essere più aderente al vero della visione umana, poiché normalmente noi vediamo più chiaramente l'area centrale del campo visivo e meno distintamente la sua periferia), anche la fotografia dovrà cercare una certa sfocatura. Malgrado le premesse rigorosamente naturalistiche, la proposta significava riconoscere la soggettività nell'operazione fotografica, era un invito a una forma di manipolazione con i mezzi della fotografia. La soggezione alla natura dei primi tempi era insieme accettata e rinnegata: ammessa, poiché il credo naturalistico dell'arte come imitazione non era stato scosso; rifiutata, perché il perfezionamento dei mezzi tecnici di riproduzione aveva sostituito alla venerazione incondizionata per qualunque fantasma fosse stato fissato attraverso la camera oscura, il senso preciso della possibilità d'intervenire, nella ricerca di una maggiore fedeltà alla natura, con le manipolazioni dell'ottica e della stampa. L'animata discussione che seguì le proposte di Emerson, che intanto aveva dato saggio della propria sensibilità di fotografo in alcune stampe affascinanti, dedicate al paesaggio e alla vita nei Norfolk Broads, indusse il loro autore a una clamorosa ritirata. Sotto l'influenza di un ‟great painter", che l'aveva ammonito a non confondere la natura con l'arte, Emerson pubblicò un opuscolo listato a lutto intitolato The death of naturalistic photography (1891). Nel 1898 ristampò Naturalistic photography, ma cambiò il titolo del capitolo finale, Photography, a pictorial art, in: Photography-not art. Con profondo dolore, Emerson dichiarava che la fotografia non consentiva la libertà creativa che lui stesso aveva annunciato; i suoi limiti erano tali che non consentivano le scelte di un'arte veramente libera (‟the all-vital powers of selection and rejection").
Ma ormai l'intervento coraggioso di Emerson aveva chiaramente sollevato gli interrogativi sulla natura della fotografia in se stessa; il crollo della fiducia nell'imitazione del vero naturale, provocato dai simbolisti, rischiava di separare nettamente una realtà della fotografia da una realtà dell'arte. Tanto più che le affermazioni delle avanguardie artistiche sono ormai rivolte contro la fotografia, nella dichiarazione, frequentemente ripetuta, che la ‟fotografia ha liberato l'arte dalla necessità dell'imitazione".
Per reazione, i fotografi cercarono di distinguere nettamente la parte tecnica e commerciale da quella creativa. Nel 1891 il Camera Club di Vienna tenne la prima mostra dedicata esclusivamente a fotografie considerate valide sul piano artistico; nell'autunno del 1893 The Linked Ring di Londra inaugurò il primo Photographic salon; nel 1895 il catalogo del terzo Salon annunciava che ormai la chimica, l'ottica e la meccanica erano diventate ancillari e d'importanza secondaria. Nel 1894 il Photo-Club di Parigi tenne la Premiére exposition d'art photographique; nella giuria erano quattro pittori, uno scultore, un critico d'arte, un ispettore delle Belle Arti, un incisore. Già nel 1891-1892 a Roma era stato collocato nella calcografia l'ingegner Gargiolli, esperto fotografo. Nel 1893 A. Lichtwark aprì la Kunsthalle di Amburgo alla prima mostra internazionale di fotografi dilettanti. La scelta era chiaramente una scelta critica, poiché, secondo Lichtwark, soltanto i fotografi dilettanti, liberi dalle pressioni economiche dei professionisti, erano in grado di dedicarsi alla fotografia con il disinteresse, la curiosità e l'inventiva richiesti da un'arte liberale. Il padiglione dedicato alla ‛fotografia artistica', all'esposizione di Torino del 1902, consacrò, insieme al dominio del liberty, la fotografia ‛pittorica', che aveva i suoi maggiori esponenti in F. H. Evans, A. Keighley, R. R. Demachy, C. Puyo, M. Bucquet. L'anno dopo nasceva a Torino la rivista ‟La fotografia artistica", con larga collaborazione internazionale.
Benché in questo periodo siano sorti tutti gli equivoci che ancora oggi aduggiano le riviste specializzate di fotograflà, i premi e i circoli fotografici, in questo contesto si sono fatte strada anche le tendenze più vitali della fotografia del XX secolo. L'americano A. Stieglitz, che a Berlino aveva conosciuto Emerson, sarebbe stato colui che avrebbe accettato i limiti della fotografia non come una condizione d'inferiorità, ma come un elemento costitutivo fondamentale. La famosa Paula, del 1889, è la prima fotografia moderna. La luce che penetra dalla persiana e ripete dovunque arrivi il suo disegno regolare crea una spazialità astratta che nessun pittore avrebbe potuto proporsi. Nello stesso tempo la concretezza documentaria della fotografia nella breve posa riassume tutta una storia. Paula non è una donna che scrive, è Paula, è quella precisa donna. Le fotografie sul tavolo e al muro, i cuori appesi alla parete sono storia di quella particolare stanza, la sua (o di una stanza in cui si è trovata casualmente, non sappiamo). Ma vorremmo sapere di più. La fotografia domanda la didascalia. La fotografia è il frammento di un discorso. Proprio per questa capacità individuante della fotografia, per la concretezza e la limitatezza del campo dell'immagine, ben diverso dall'illimitata invenzione pittorica, nell'opera di Stieglitz il particolare è sempre il rinvio a un'unità non ottica, ma reale e vissuta. Il taglio fotografico è il taglio sulla realtà.
Stieglitz non fu soltanto un grande fotografo. Fu uno dei maggiori ‛operatori culturali' d'America. ‟Camera notes", la rivista del Camera Club di New York (dal 1896) e poi ‟Camera work" (dal 1902 al 1917) divennero sotto la sua direzione le due più raffinate riviste fotografiche che siano mai esistite. ‟Camera work" rappresentava un aggiornamento e una nuova rotta rispetto a ‟Camera notes", con maggiore spazio alla discussione e alla critica. Ma il vero centro del movimento suscitato da Stieglitz era la famosa ‛291' (dapprima, dal 1905, Little galleries of the photosecession), la piccola galleria sulla Fifth Avenue che insieme al lavoro dei fotografi presentava le opere di Rodin, Matisse, Cézanne, Picasso, BrâncuŞi, Braque e Picabia.
In questo contesto stimolante e criticamente consapevole, era inevitabile che la fotografia si allontanasse dalle lusinghe simbolistiche del pictorialism. La critica incomincia a parlare di ‟true photographic themes and textures", invita i fotografi a non vergognarsi se le ‟loro fotografie sembrano proprio fotografie", e non dipinti. Quando Steichen, uno dei membri più giovani del gruppo, esegue nel 1903 il sanguigno ritratto di J. Pierpont Morgan, su cui si baserà l'imbalsamato ritratto di C. Baca-Flor, dà una dimostrazione chiarissima di quale sia la potenza della verità fotografica, nella folgorazione che esprime in un attimo tutta la personalità del grande capitano d'industria e del raffinato collezionista.
Fra i fotografi patrocinati da Stieglitz era P. Strand. Strand era l'uomo nuovo. Per lui fotografare significa scoprire valori compositivi e formali inerenti alle cose. Sono le cose che futuristi, cubisti ed espressionisti esaltano caricando di significati e che Strand fissa in una loro calma bellezza, quasi decretando l'impossibilità della pittura contemporanea a esprimere serenamente il mondo moderno e affidando alla fotografia quest'ultima occasione di un colloquio non alienante. Sono le immagini ravvicinate dei bulloni e degli ingranaggi della sua stessa macchina fotografica; lo scavo del tempo in una roccia, presentata senza scala, senza riferimenti d'ambiente intorno, eppure vera come può essere soltanto una cosa fotografata; il disegno astratto delle ombre di una balaustra su un muro e su un pavimento. Ogni fotografia suggerisce la presenza o l'assenza dell'uomo, le sue tracce e le tracce del tempo, nella staccionata di legno bianca in primo piano in una fotografia dei 1915, il vuoto e il freddo di Wall Street un mattino d'inverno, quando i primi impiegati stanno per essere inghiottiti dalle costruzioni faraoniche.
Incoraggiato da Stieglitz fu anche E. Weston, la cui storia è piuttosto complessa. Nel 1923, in Messico, dove suoi amici sono Rivera, Siqueiros, Orozco, avverte un bisogno morale di liberazione e di semplificazione. Nel 1927 presenta ingrandimenti fotografici di peperoni, conchiglie, penne d'uccello, radici. Queste forme naturali, non umane, non controllate, sono lontane dalla dignità architettonica delle macchine fotografate da Strand. Rimandano un mondo naturale divenuto misterioso ed estraneo; la loro monumentalità è aggressiva perché insieme carnosa e irreale e irriconoscibile. Per la prima volta è detto in modo eloquente che la realtà fotografica può essere una realtà sconcertante, la rivelazione di attrazioni e ripulse segrete, inconscie. Nel 1937, come primo fotografo a ricevere una borsa di studio, Guggenheim fotografa, in giro per il West, tronchi, rocce, acque ghiacciate, sabbia. Produce 15 mila negativi e dichiara che la sua opera è la riprova della validità del mass production seeing: il vedere nei termini di una produzione di massa. Il fotografo ha bisogno di una frazione minima di tempo per fermare ciò che richiede tempi lunghissimi agli altri artisti visivi, il fotografo divora la realtà, per lui ‟creare dovrebbe essere così semplice come respirare". Weston prepara così la strada a quella consapevolezza di un universo fotografico, subdolo e inquietante, che è alla base dell'esperienza dell'iperrealismo americano degli anni settanta.
Fu Man Ray che scoprì E. Atget (1856-1927) e fu l'assistente di Man Ray, B. Abbot, che ne recuperò le lastre dopo la sua morte. Da inizi molto modesti, deluso come pittore, aveva lavorato come fotografo con mezzi tecnici ancora ottocenteschi. In origine i suoi intenti erano puramente documentari, ma la sua attenta osservazione d'introverso lo portava, nella città ferma nelle sue lunghe pose, ritratta in lastre 18×24 - il formato usato per ritrarre le opere d'arte -, a scoprire i segni lasciati da gente sconosciuta a gente ugualmente ignota, i richiami delle vetrine - un modo di comunicare con passanti che non si vedono -, le prostitute immobili su marciapiedi su cui non passa nessuno, l'intera città che sprofonda nel riflesso d'una vetrina di barbiere, di dove sorridono mannequins di gesso, fra cartelli minuziosi che nessuno legge. Forse per l'ultima volta, nella storia della fotografia, Atget ha dato l'immagine di una città chiusa in se stessa come una natura morta, l'immagine circondata dal silenzio. Ma proprio quel silenzio ci appare così incredibile da sembrarci magico, surreale. Il rapporto con la realtà è così presente nella fotografia che ogni allontanamento dalla realtà delle nostre abitudini diventa inquietante.
È partendo da queste considerazioni che rinasce, intorno al 1918, fra i dadaisti, il fotomontaggio. In sé non era una trovata nuova, ma nuovo fu l'uso che ne fecero O. Grosz, R. Hausmann, H. Höch, M. Ernst, P. Citroen e J. Heartfield. Nonostante le tendenze non del tutto omogenee dei gruppi dadaisti e il maggiore impegno politico di Heartfield, le dichiarazioni concordano nell'indicare l'operazione come l'aggressione a una concezione statica della realtà e all'illusione della stabilità dell'ordine costituito rappresentata dall'obiettività fotografica. L'inversione dei ruoli nel fotomontaggio, l'apparente realtà delle situazioni più assurde, la frantumazione dello spazio costruito dalla piramide ottica, l'associazione della fotografia a frammenti di parole stampate, a oggetti, a incisioni, a tutto ciò che testimonia una ripetizione del messaggio, nell'uso o nella riproduzione meccanica, sono tutti assalti all'assuefazione borghese complice del nazismo. La fotografia consentiva di ritrarre cose che nessuno aveva mai potuto ritrarre. Che cosa c'è di più labile delle nuvole basse spinte dal vento? Anche i rapidi acquerelli di Constable erano una ricostruzione a memoria di ciò che il pittore osservava nel cielo; muri verdi erano le onde di Courbet, al confronto dello spettacolo reale. O. Le Oray fu il primo (1856) cui riuscì di fotografare un cielo nuvoloso sopra le onde del mare. Ma la fotografia poteva scoprire altri mondi. Poteva fissare le immagini che lo scienziato vedeva nel microscopio (di queste si erano occupati già Wedgwood e Talbot ai primordi della fotografia), oppure documentare ciò che si vede da un pallone in volo (la prima fotografia aerea fu scattata da Nadar nel 1856; la prima ricognizione aerea del Foro Romano fu eseguita nel 1911. A parte le ovvie applicazioni topografiche e militari, si rammenta che le fotografie scattate dalla RAF nella seconda guerra mondiale hanno portato alla scoperta degli insediamenti preistorici in Puglia e successivamente a numerose scoperte archeologiche. La fotografia può fotografare ciò che è invisibile, per esempio l'interno dei corpi (l'applicazione dei raggi X era stata scoperta da W. C. Roentgen, nel 1895), oppure un oggetto o un animale in movimento che l'occhio non percepisce.
La rivelazione fotografica di una realtà invisibile ebbe ripercussioni profonde sull'arte. Mentre la fotografia era nata come un atto di dedizione assoluta alla natura, come il mezzo che doveva darne l'immagine vera, non adulterata dalla mano dell'uomo, ora invece la fotografia scopriva ciò che nella visione naturale non c'era. Di conseguenza anche la fotografia diventava un atto critico, creativo. Ciò era molto vero a proposito delle fotografie di uomini e animali in movimento, cui E. Muybridge si era applicato fra il 1872 e il 1877 in California e a Philadelphia e che dal 1879 incominciarono a essere conosciute in Europa. In una presentazione delle sue osservazioni fotografiche, Muybridge segnalava il carattere simbolico della percezione: il nostro schema mentale di movimento ci fa interpretare ciò che vediamo diversamente da come esso risulta documentato dall'osservazione fotografica. Le rivelazioni di Muybridge ebbero profonde ripercussioni nel mondo artistico e contribuirono, grazie soprattutto all'intervento chiarificatore di Rodin, a definire una ‛realtà' simbolica dell'arte che non è quella accertata dall'osservazione scientifica. Negli stessi anni ricerche sul movimento erano condotte da E. J. Marey, avvalendosi anche della fotografia. I diagrammi che Marey pubblicò fra il 1887 e il 1888, ricavandoli dall'osservazione fotografica, non sono saggi di naturalismo, ma astrazioni matematiche, studio strutturale del movimento e non riproduzione della sua apparenza.
Si preparava così il terreno su cui le avanguardie artistiche sarebbero intervenute, adottando la fotografia fra i loro strumenti espressivi. Per le avanguardie si trattava di appropriarsi della fotografia non più come strumento di riproduzione della realtà, ma come strumento atto alla costruzione dell'immagine. Perché la fotografia fosse usata a questi fini, al posto di altri mezzi tradizionali, occorreva che essa presentasse determinate qualità specifiche e insostituibili. La ricerca di una fotografia non rappresentativa diveniva dunque una ricerca sulla struttura della fotografia stessa. Non sorprende, di conseguenza, che nel corso della ricerca riaffiorino esperienze, come la solarizzazione, la deformazione, l'impressione diretta dell'oggetto posato sulla carta ecc., che erano state abbandonate nel corso della storia perché non conducevano verso l'assunto fondamentale, che era quello della maggiore aderenza possibile all'immagine naturale. Le avanguardie centrano i punti fondamentali del processo fotografico indipendente dal dato naturale, che è considerato esterno. Considerano poi altri momenti che appaiono fondamentali: la possibilità di costruire l'immagine senza manualità, e cioè senza l'intermediario dell'educazione, mentale e manuale, legata alla propria formazione artistica, l'imprevisto della fotografia (la scoperta del particolare significativo a posteriori, e dunque indipendentemente dall'intenzionalità imitativa del momento dello scatto), l'uso libero e creativo della luce, la manipolazione chimica, l'associazione dell'immagine fotografica con altre icone mnemoniche - e dunque la presa della fotografia sull'inconscio - la grana, la pellicola, il retino e tutti gli altri aspetti costitutivi dell'immagine fotografica nelle varie tecniche, che ne provano il carattere arbitrario, convenuto dentro le regole di un codice riproduttivo e interpretativo, infine lo studio, attraverso la fotografia, di rapporti elementari di luce e d'ombra, lo studio dei materiali, l'individuazione delle loro qualità espressive e di segno.
Si riportano qui alcuni momenti significativi di questo processo che, al di là della partecipazione e del successo delle avanguardie, ha inciso profondamente sulle concezioni attuali e sull'uso che è stato fatto della fotografia in sede tipografica, nella documentazione dell'architettura ecc.:
1889, Parigi: L. Ducos du Hauron e soci inventano un apparecchio fotografico che, per mezzo di fori stetoscopici mobili, ottiene deformazioni dell'immagine.
1888-1890: Ch. Henry pubblica Cercle chromatique, studio sulla percezione ottica. Seurat dipinge Le chahut. J. Antoine, in ‟Art et critique" del 16 agosto 1890, osserva che ‟M. Seurat a tenté d'appliquer les travaux de M. Charles Henry sur la ligne".
1893: Marey pubblica Études de physiologie artistique.
1907: il Brücke Manifest dichiara che la fotografia ha liberato l'arte da ogni necessità imitativa. Lo stesso concetto ritorna nelle affermazioni di Boccioni del 1913 nel manifesto dei futuristi sul colore, nel manifesto del 1918 (Balla). A. Breton confronta la fotografia alla scrittura automatica, ‟una fotografia del pensiero".
1911, Roma: primo collage di Picasso. Esce Fotodinamismo futurista di A. G. Bragaglia.
1912, Parigi e Barcellona: M. Duchamp espone il suo Nu descendant l'escalier.
1913: G. Apollinaire in Peintres cubistes accusa la fotografia di avere completamente distorto l'idée de forme.
1914: dietro suggerimento di G. Papini, C. Carrà dipinge Ufficiale francese che osserva i movimenti delle truppe. Una fotografia è inserita al posto della testa dell'ufficiale.
1916: a questa data O. Grosz e J. Heartfield fanno risalire la loro invenzione del fotomontaggio, rivendicata anche da H. Höch e R. Hausmann.
1917: A. Langdon Coburn esegue i Vortographs, fotografie astratte di frammenti di legno, vetro ecc., riflessi fra tre specchi. Il nome si riferisce ai Vorticists inglesi. E. Pound presenta Coburn come fotografo vorticista.
1918: esce il libro Material der Malerei, Plastik, Architektur di R. Hausmann. A Zurigo, Ch. Schad esegue stampe fotografiche disponendo direttamente gli oggetti sulla carta sensibile. Tr. Tzara le battezzerà schadographs.
1919: E. Quedenfeldt pubblica a Düsseldorf una serie di Lichtzeichnungen, raffigurazioni ottenute con materiali fotografici, che considera ‟assoluta", perché libera dalla meccanicità ottica della camera.
1920: Man Ray e M. Duchamp pubblicano la fotografia Élevage de poussière. Th. van Doesburg pubblica il saggio sul cinema come forma pura: alla fase imitativa e alla fase tecnica deve subentrare ora la fase creativa.
1921, Berlino: L. Moholy-Nagy crea i primi ‛fotogrammi'.
1921-1923: L. Hirschfeld Mack e K. Schwerdtfeger producono ‛composizioni in luce riflessa' su carta sensibile.
1922: Man Ray, cui Tr. Tzara ha mostrato gli schadographs, crea i primi rayographs.
1923, Weimar: Moholy-Nagy insegna fotografia al Bauhaus. Continua a lavorare intorno al ‛modulatore di spazio e luce', progetto cinetico cui attende dal 1921 e di cui si occuperà fino al 1930. Nel Typophoto unisce la parola stampata alla fotografia e al fotomontaggio. Cura la pubblicazione dei ‟Bauhausbücher" (1922-1923). A Berlino El (Lazar) Lissitzky e I. Ehrenburg pubblicano Veèč, Gegenstand, Object. Esce nel 1922 il libro di I. Ehrenburg Sei racconti a lieto fine con illustrazioni di Lissitzky in tecnica mista di acquarello, collage, matita, fotomontaggio. Sempre a Berlino, nel 1922, Lissitzky collabora alla prima mostra costruttivista: Erste russische Kunstaustellung, di cui cura il catalogo. 1923, Mosca: esce l'antologia di Majakovskij, Pro Eto, illustrata da fotomontaggi di Rodčenko.
1924: Man Ray, Le violon d'Ingres.
1925: Moholy-Nagy pubblica Malerei, Fotografie, Film. Parigi: il padiglione sovietico all'esposizione internazionale, progettato da K. C. Melnikov, ospita ingrandimenti di fotomontaggi di Lissitzky. E forse la prima volta che al fotomontaggio è dato tanto prestigio architettonico.
1926-1928: fotomontaggi di Fr. Vordemberghe-Gildewart.
1927: i ‟Bauhausbücher" pubblicano Die gegenstandlose Welt di K. Severinovič Malevič, dove sono presentate anche fotografie aeree. In Russia, i fratelli Stenberg fanno largo uso del fotomontaggio per manifesti di teatro e di cinema. A. Hoffmeister realizza a Praga collages fotografici con intenti satirici e realizza i primi collages tipografici. A Parigi, M. Berman vince la medaglia d'oro con il fotomontaggio per il manifesto della Exposition internationale des arts et métiers di Parigi.
1928: Moholy-Nagy pubblica Von Material zu Architektur (ristampato poi col titolo The new vision). W. Baumeister, che ha già prodotto disegni con collages fotografici dal 1923, è professore di tipografia e fotografia alla Städelsche Kunstschule di Francoforte.
1929: Man Ray, Anatomie. La fotografia di un nudo stampata ricoprendo la lastra di biglie di vetro. Nello stesso tempo riprende la tecnica della solarizzazione (così detta da J. W. Draper nel 1840) e passa alla sovrapposizione di retini tipografici all'immagine fotografica. Fr. Roh pubblica a Berlino Neue Fotografie; vi appaiono, fra l'altro, ben 60 fotografie di Lissitzky. A. Ozenfant pubblica fotografie al telescopio e al microscopio in Fondations de l'art moderne.
1930: la rivista di Varsavia ‟1930" pubblica fotomontaggi di Berman.
1931, maggio: ‟The illustrated London news" pubblica fotografie a colori al microscopio (photomicrographs) di M. Albin Guillot e di M. H. Ragot per le loro somiglianze con la pittura astratta.
Man Ray e Moholy-Nagy occupano una posizione tutta particolare nella fotografia d'avanguardia. Entrambi arrivano alla fotografia partendo da problemi di ricerca formale maturati nell'ambito della pittura, entrambi insoddisfatti, anche se con motivazioni diverse, dell'intellettualità precostituita della pittura. Nel loro attacco alla preselezione della realtà condizionata dagli schemi interpretativi della tradizione, entrambi, con i rayographs o con i photograms, rinunciano all'obiettivo, cioè proprio al modo di vedere, anzi all'organo visivo della fotografia, per ritornare alla collocazione diretta degli oggetti sul materiale sensibile (che era stato il procedimento dei primissimi esperimenti d'impressione fotografica di Talbot). Ma in loro non vi è nessun intento storico o ricostruttivo. Per Man Ray, il riporto diretto dell'oggetto sulla carta sensibile ha la provocazione dell'evento inconscio e incontrollato; non contento di questa scrittura automatica dell'objet trouvé, che da solo e senza intermediari si rivela, ma che, per ora, non esce dal repertorio formale degli schadographs, così legate al cubismo (v. sopra), Man Ray mette in discussione lo stesso processo chimico della fotografia senza obiettivo. Ingrandimenti della grana di sali d'argento della fotografia, interventi a caldo sulla gelatina perché si fessuri in una minuta craquelure, griglie e retini tipografici, biglie collocate sulla lastra rompono fin l'ultima normalità della visione.
L'approccio di Moholy-Nagy è assai diverso. Per Moholy-Nagy, che dal 1923 al 1933 insegnò al Bauhaus e che poi, con l'avvento del nazismo, dopo un periodo di vita errabonda in Europa, si trasferì nel 1937 nel New Bauhaus di Chicago, il photogram ha un'altra motivazione. Per lui, la collocazione degli oggetti sul piano è un modo nuovo di studiarne le deformazioni prospettiche, in un'analisi che tiene conto di un'infinità di elementi, della sezione come della deformazione dell'ombra o della prospettiva, della reazione alla luce, della trasparenza, della tessitura. Nei suoi libri, Moholy-Nagy parla di una nuova visione che si organizza con i mezzi della fotografia e nella fotografia, di una nuova conoscenza dei materiali e dei rapporti dimensionali, di una nuova sperimentazione con la luce. Negli stessi anni lavorano al Bauhaus, servendosi della fotografia, H. Bayer, K. Kranz, L. Feininger. Sotto lo stimolo dei ‟Bauhausbücher" il milanese L. Veronesi compie una sua ricerca indipendente, ma in stretta relazione con il movimento razionalista nell'architettura - che fa capo a ‟Casabella" e con il rinnovamento tipografico, sostenuto, in senso antiretorico e su uno sfondo sindacale, da ‟Campografico".
Nessuno dei fotografi citati si è limitato al ‛fotogramma' o al fotomontaggio. Tutti sono stati anche fotografi della scena cittadina, della vita umana, della natura. Ciò che qui preme ora sottolineare è un altro aspetto dell'attività dei fotografi degli anni trenta, ed è il loro rapporto con l'architettura.
5. Arte e fotografia: riproduzione e interpretazione
L'architettura contemporanea esiste soprattutto nella fotografia. Dispersa su un territorio vasto come tutto il mondo, presente spesso in luoghi di difficile accesso, molte volte soggetta alla rapida sparizione, non si offre come i grandi monumenti del passato all'esplorazione dei conoscitori o delle grandi masse di turisti. La sua immagine è la fotografia, e molto spesso la fotografia è la sua seconda coscienza, perché entra nell'architettura già nella fase di progettazione, è un primo e fondamentale mezzo di studio, e non soltanto di documentazione, in tutte le fasi dell'opera. Inoltre senza la fotografia non avvertiremmo una delle maggiori tensioni dell'architettura moderna, la diversità di proposizioni spaziali fra la fase del cantiere e quella dell'opera ultimata. Scorrendo le collezioni di riviste di architettura, dall'inizio del secolo a oggi, ci si rende conto che soltanto la fotografia poteva essere l'interprete dell'architettura contemporanea. Naturalmente non una fotografia distratta, ma quella che da Strand a Kértesz, a Cartier-Bresson, si era educata all'osservazione dell'ambiente creato dall'uomo.
Infine la fotografia entra in rapporto con l'architettura in un modo ancora più intimo. Da quando, nel 1925, il padiglione sovietico alla fiera di Parigi fu decorato con ingrandimenti fotografici da El Lissitzky, l'ingrandimento fotografico è diventato la forma più tipica di introduzione dell'immagine nell'architettura moderna.
La fotografia era nata alla fine del neoclassicismo e nel pieno risveglio delle forme storiche. Niente avrebbe potuto interpretare così puntualmente la sete ottocentesca di documentazione e di riproduzione come la fotografia. Nello stesso tempo niente sarebbe arrivato a saturare così pienamente la nostalgia per gli stili storici quanto la messe indiscriminata d'informazioni e di modelli che la fotografia rovesciò sul tavolo di architetti, mobilieri, arredatori, gioiellieri. Niente avrebbe contribuito maggiormente alla conoscenza delle tecniche antiche e avrebbe incoraggiato meglio la loro imitazione e falsificazione. Ma la fotografia è stata anche un fattore unificante. Gestita dalla cultura accademica d'ispirazione europea, ha contribuito notevolmente alla crisi delle culture extraeuropee. Nello stesso tempo ha fornito i materiali su cui la storia dell'arte si è definita come scienza (Kunstwissenschaft). Dai baffi alla Gioconda dei surrealisti agli ambigui trompe l'oeils di riproduzioni di quadri famosi di G. Paolini, l'arte contemporanea ha cercato di esprimere un giudizio sulla presenza schiacciante della riproduzione fotografica di opere d'arte nella nostra vita quotidiana.
Questo particolare bagaglio culturale, proprio dell'uomo moderno, è stato teorizzato da A. Malraux. Per Malraux la fotografia ha talmente dilatato l'esperienza figurativa dell'uomo moderno, da permettergli, più rapidamente della poesia, e senza alcun approfondimento linguistico, di intendere le voci di tempi e di civiltà diversissime, che parlano a lui per immagini, con le voci del silenzio (cfr. La voix du silence, 1951, discusso da E. Gombrich in una problematica recensione nell'‟Art bulletin" dello stesso anno). Senonché le informazioni di cui l'uomo moderno dispone in tanta abbondanza non sono affatto obiettive. La riproduzione ha creato des arts fictifs, arti della finzione, in cui il museo reale è ricreato in un museo immaginario (cfr. La musée imaginaire de la sculpture, 1952), dove la scala e le proporzioni degli oggetti, il loro legame con l'ambiente circostante, non sono rispettati ma ricreati.
Quando Malraux scriveva, e quando si accingeva a dare il suo taglio particolare ai libri editi sotto la sua direzione, l'incontro fra la cultura figurativa francese e le culture di aree remote, specialmente con l'arte negra e con l'arte della Polinesia, era già un'esperienza storica. Il problema che aveva davanti, reso attuale dalle nuove tecniche tipografiche, da un innalzamento generale dei livelli di cultura media, dalla collaborazione internazionale, era quello di edizioni che offrissero all'uomo della strada la possibilità di formarsi la sua biblioteca di riproduzioni d'arte, il suo ‛museo immaginario'. Si trattava di riprendere su basi nuove, che in Italia furono realizzate in maniera brillante specialmente dai Fratelli Fabbri, un'iniziativa che aveva una lunga storia. Nel 1930 la ditta Braun di Parigi aveva incominciato a diffondere la collana Les Maîtres-Musée de poche, che comprendeva cartelle con riproduzioni a colori di opere prevalentemente contemporanee (da van Gogh a Bonnard, a Picasso, a Matisse), accompagnate da brevi testi in tre lingue.
Ovviamente, la documentazione dei monumenti e delle opere d'arte ha una storia assai più lunga della diffusione delle loro riproduzioni. Già nel novembre del 1849 M. du Camp partiva con O. Flaubert per una spedizione in Egitto e nel Medio Oriente patrocinata dal Ministero della Pubblica Istruzione. Nel 1851, al suo ritorno in patria, pubblicava, Égypte, Nubie, Palestine et Syrie: dessins photographiques recueillis pendant les années 1849, 1850 et 1851. In maniera del tutto indipendente una simile spedizione era stata compiuta fra il 1850 e il 1852 dall'inglese J. Shaw Smith, con risultati ancora superiori a quelli ottenuti da du Camp. Intanto, nel 1851, l'Académie des Beaux-Arts inviava in provincia tre fotografi, fra i quali Le Gray, con il compito di documentare i monumenti dell'Alsazia e di altre regioni. In Inghilterra sorgevano enti che avevano come scopo la documentazione delle opere d'arte: l'Antiquarian Photographic Club, l'Architectural Photographic Association, la Arundel Society (che si è occupata specialmente della riproduzione dei manoscritti). Nel 1855, il rev. A. F. S. Marshall pubblicava un saggio dedicato all'argomento Photography: the importance of its application in preserving pictorial records of the nationai monuments of history and art.
La grande attrazione dei fotografi interessati a documentare i monumenti non poteva non essere l'Italia. Dal 1839 in poi Roma è un centro in cui operano fotografi di tutta Europa (oggetto di un'accurata indagine di S. Negro). Nel 1850-1852 il conte Flacheron presiede un circolo cui aderisce, fra gli altri, G. Caneva, autore della più antica fotografia romana (se non è preceduto da un callotipo della raccolta del fotografo L. Tuminello, ora nel Gabinetto Fotografico Nazionale). Già nel 1839 G. G. Belli illustrava la scoperta della fotografia nel suo Zibaldone; poco dopo il milanese L. Secchi si dette a fotografare i monumenti della penisola. A parte Roma, dove la fotografia s'innesta con continuità nella tradizione della veduta e della rappresentazione di rovine (un grande maestro è R. Macpherson, morto nel 1872; un organizzatore esperto l'inglese Parker, la cui collezione è alla British School di Roma), e dove l'attività dei fotografi mette presto in crisi l'antica calcografia, ditte rigogliose sorgono a Firenze, a Venezia (Alinari, Brogi, Baccani, Reali, Böhm, Ponti, Bardi), a Napoli (Sommer, che ha anche una fonderia per le riproduzioni dei bronzi di Pompei e di Ercolano) e persino in piccoli centri come Orvieto (Armoni). Soltanto nel 1893, circa quarant'anni dopo la pubblicazione del primo catalogo Alinari, lo Stato italiano farà sua la preoccupazione di un servizio pubblico di documentazione del patrimonio artistico, con l'istituzione del Gabinetto Fotografico del Ministero della Pubblica Istruzione (poi Gabinetto Fotografico Nazionale), che avrà vita difficile, malgrado rari momenti di successo, al punto di non essere dotato neppure del prescritto regolamento sino alla sua estinzione, avvenuta nel 1975 con l'assorbimento nell'Istituto Centrale del Catalogo. Veniva meno così la speranza di avere una raccolta nazionale della fotografia. Nello stesso anno in Gran Bretagna l'Art Council stabiliva definitivamente la sua sezione fotografica.
Per molti anni, per tutto l'Ottocento e fino a questo dopoguerra, salvo rare punte isolate, la fotografia italiana risente del tono provinciale delle arti figurative, del giornalismo, della ricerca scientifica e, in genere, della mancanza di strutture culturali nel nostro paese. Le eccezioni sono del tutto individuali e spesso legate, anche attraverso la fotografia, a esperienze europee. Così nel caso del raffinato conte Primoli, del drammatico I. Cugnoni, legato ai pittori veristi della scuola di Olevano, al geniale L. Morpurgo dei primi tempi, specialmente durante la collaborazione con l'ancora misterioso A. Ravaglioli. Morpurgo è particolarmente significativo per la sua documentazione della vita popolare, fatta con simpatia e senza distacco accademico, dapprima con le raffinatezze del pictorialism dominante agli inizi del secolo, poi con tono sempre più documentario.
Il mondo contadino costituisce una parte preponderante dell'archivio fotografico di F. P. Michetti. Il caso di questo pittore, un tempo celebratissimo, è interessante non tanto per i suoi meriti di fotografo, ma piuttosto perché in lui la fotografia, in modo intuitivo e in un grande vuoto di cultura, interviene a far precipitare la crisi della sua pittura, intesa come mediazione fra la tragica realtà meridionale e la sua trasposizione mitica: egli si orienta verso tenui soluzioni liberty o verso la rinuncia totale alla pittura in nome di un rispetto di maniera per la natura ‛quale essa è'. Il confronto fra la lettura della fotografia che risulta dai quadri di Munch, di Sickert, di Sargent, di von Stuck, di Lembach, dai grafici di Mucha e la lettura che invece rivelano i faticosi montaggi pittorici di Michetti, dimostra chiaramente l'incapacità del pittore italiano di cogliere le motivazioni delle due esperienze, la pittorica e la fotografica, attraverso la sua ottica incerta fra naturalismo e stilizzazione liberty. In un senso più vasto, se si tiene conto del suo legame organico con il potere monarchico, dagli anni dell'ascesa della sinistra al governo fino al periodo giolittiano, il dramma di Michetti s'inserisce nella generale difficoltà di analisi dell'Italia post-risorgimentale.
Il rapporto fra la fotografia e le arti figurative era sempre stato intimo e profondo. Il primo successo dell'inventore della fotografia, N. Niepce, era consistito, nel luglio del 1822, nell'ottenere una copia eliografica del ritratto, inciso, di Pio VII. Per tutto il secolo la tecnica fotografica e la tecnica tipografica progrediscono insieme. Nella stampa era stata compiuta per la prima volta l'esperienza della riproduzione e della moltiplicazione dell'immagine e l'ordine di idee della stampa persiste a lungo nella storia della fotografia. La stessa idea del negativo fotografico è una geniale applicazione della teoria della traduzione: il positivo non è altro, di fatto, nella tecnica tradizionale, che la riproduzione con valori invertiti del negativo, e non a caso l'idea di ripetere il processo per invertire i risultati ottenuti era occorsa a Talbot che lavorava con la carta. Malgrado le intuizioni di H. W. Vogel (1873) sulla diversa sensibilità cromatica delle sostanze impiegate in fotografia, fino all'invenzione dell'Autochrome da parte dei fratelli Lumière (1904) e ancora fino all'introduzione del Kodachrome (1935) e dell'Agfacolor (1936), le ricerche si orientarono verso la selezione dei colori fondamentali e la loro sovrimpressione in fase di stampa, secondo un indirizzo che ancora affidava alla stampa la soluzione del problema, con la sovrapposizione di diverse matrici colorate.
6. La fotografia e la stampa: impegno sociale ed evasione
Nella stampa tipografica, non nella diffusione diretta delle copie, la fotografia avrebbe trovato il suo grande pubblico, e in questo rapporto anche il suo stile più inconfondibile. Fotografie documentarie e d'attualità erano state eseguite fin dal 1842. La battaglia del Gianicolo, nel 1849, era stata fotografata - o, meglio, erano stati fotografati i luoghi della battaglia -, una serie impressionante di fotografie documenta le barricate per le vie di Palermo nel 1860, Pio IX stesso aveva fatto fotografare i garibaldini uccisi a Mentana e persino il suo ultimo discorso alle truppe, il 19 settembre del 1870, fu fotografato; la repressione del banditismo meridionale è accompagnata da spietate fotografie. Nel 1855 R. Fenton aveva reso la severa, completa e fedele testimonianza della crudeltà e della miseria di una guerra fotografando per la prima volta gli scontri durante la guerra di Crimea. E importante ricordare che riproduzioni delle fotografie di Fenton apparvero anche in Italia, nella rivista ‟Il fotografo" di Milano. Sul ‟Times" apparvero riproduzioni silo grafiche delle sue fotografie che scossero profondamente l'opinione pubblica. Il ‟Times" chiama still lifes, nature morte, le trincee sventrate dai bombardamenti, i cumuli di armi e di munizioni, e con questa espressione qualifica in modo stringente l'alto rigore della documentazione di Fenton. La guerra civile americana fu documentata da T. O' Sullivan, A. Gardner, M. B. Brady e altri. Fotografie come Raccolto di morte di O' Sullivan e La casa di un cecchino ribelle di Gardner, sono fra i più grandi monumenti della fotografia di ogni tempo e una desolata testimonianza della guerra. Nel 1877 il giornalista A. Smith e il fotografo J. Thomson pubblicarono Street life in London, la prima documentazione sociale che fosse mai apparsa. Fra stata preceduta da oltre venti anni di agitazione sociale fra gli artisti inglesi. Nel 1851 era uscito London labour and the London poor di H. Mayhew, che era stato illustrato da silografie derivate dai dagherrotipi di R. Beard; nel 1852 F. M. Brown aveva incominciato a dipingere Work, dove è evidente una documentazione diretta; nel 1857, insieme con W. Morris e Burne-Jones, Brown aveva fondato lo Hogarth Club. Intanto la collaborazione fra Brown e Ch. Dickens doveva modificare profondamente la funzione della grafica. Alla vignetta satirica e alla caricatura si sostituiva il commento sui fatti sociali. ‟Graphic", il nuovo giornale illustrato fondato nel 1869 e diretto dall'incisore W. Luson Thomas (amico di Dickens), che aveva come principale collaboratore L. Fildes (autore della serie Applicants for admission to a casual ward, 1874), doveva lanciare una figura nuova, quella dell'incisore-reporter. L'influenza inglese fu avvertita anche fuori dell'isola; nel 1870 usciva il volume di G. Doré sugli slums e le prigioni di Londra, London. A pilgrimage, che avrebbe ispirato lo stesso van Gogh.
Ma l'incisione non poteva uguagliare la fotografia nella sua presa diretta sulla realtà. La scuola documentaria inglese ebbe un largo seguito. Le fotografie di A. Genthe (1869-1942), per esempio della Chinatown di San Francisco prima della sua distruzione, sono un grande monumento eretto a una comunità che si sarebbe profondamente trasformata. L'antropologia doveva fare della fotografia documentaria uno dei suoi strumenti principali di ricerca. Thomson aveva pubblicato nel 1874 duecento fotografie sotto il titolo di Illustrations of China and its people, come membro della Royal Geographical Society, e tra il 1868 e il 1875 erano usciti gli otto volumi, con oltre 450 fotografie, di F. Watson e J. W. Kaye, The people of India.
Lo sbocco naturale della fotografia documentaria era la pagina stampata, ma soltanto nel 1880 circa si riuscì a risolvere il problema tecnico di una matrice ottenuta foto- graficamente che avesse i tratti scuri in rilievo come i caratteri tipografici. Da allora parola scritta e immagine poterono coesistere sulla stessa pagina. Una buona parte della storia della tipografia moderna è infatti occupata dai problemi di questa coesistenza, cui ci si è abituati gradualmente, dopo aver cercato di adattare, con cornici, fregi, tagli circolari, talora d'ispirazione giapponese, l'aggressività della fotografia rispetto all'ordine architettonico della pagina stampata.
Il 4 marzo del 1880 il ‟New York Daily Graphic" pubblicò per la prima volta la riproduzione meccanografica di una fotografia, una veduta di Shantytown, una delle piaghe sociali alla periferia di New York. Il giornale dava anche una descrizione del processo seguito per ottenere la matrice e avvertiva che l'immagine veniva ‟direct from nature", senza alcun passaggio manuale. Tuttavia passò molto tempo prima che i giornali accettassero questa nuova forma di illustrazione. Giornali di provincia che non potevano permettersi blocchi di legno per la stampa ricorsero piuttosto a clichés fotografici su zinco ottenuti da disegni anziché ammettere la diretta riproduzione della fotografia. Il direttore artistico del ‟New York Herald", che nel 1893 aveva proposto l'adozione di clichés fotografici, fu mandato via dal giornale, e soltanto nel 1897 poté vedere le sue proposte accolte dal ‟Tribune". Nel gennaio del 1904 uscì a Londra il ‟Daily Mirror", letteralmente ‛lo specchio quotidiano', il primo giornale del mondo illustrato soltanto con fotografie.
Nonostante una storia tanto tortuosa, sin dal 1886 Nadar aveva intuito quale alleanza si potesse stabilire fra la fotografia e il giornalismo. La sua intervista a M.-E. Chevreul il giorno del suo centesimo compleanno - una serie di ventuno fotografie di cui un buon numero fu pubblicato in sequenza nel ‟Journal illustré", con didascalie estratte dalla registrazione stenografica della conversazione - è uno straordinario documento di buon umore, un trattenimento sottile e anche un modo di cogliere la notizia, di legare l'istantanea della fotografia all'istante del discorso, di legare così parola e immagine, di dare il tempo e il ritmo a un tipo di immagine che è di per sé l'arresto del tempo e del movimento. È insomma uno studio del gesto.
Gli effetti dell'incontro fotografia-stampa sono molteplici. Attraverso la stampa la fotografia ha definitivamente condizionato il nostro modo di guardare, attraverso la stampa la fotografia ha trovato un suo stile inconfondibile. La necessità di ‛fare notizia' costringe il fotografo a cogliere il momento tipico in una catena di avvenimenti (non a caso il Monumento alla seconda guerra mondiale, a Washington, è la traduzione in bronzo di una fotografia), a inventare un tipo di ritratto che non sia quello desiderato dal cliente, ma quello che sarà più informativo per i lettori e che quindi sarà meno atemporale, più caratterizzante. Nello stesso tempo la mancanza di controllo sulla stampa costringe il fotografo a concentrare tutti i suoi sforzi nel momento della ripresa, non nelle manipolazioni della camera oscura. Due invenzioni tecniche sarebbero venute incontro al nuovo tipo di fotografo: l'esposimetro (il Weston Exposer Meter fu messo in vendita nel 1932) e la nuova, piccola macchina portatile degli anni trenta, la Leica, che la Leitz di Wetzlar presenta al pubblico alla fiera di Lipsia del 1925; una macchina complessa - oltre settecento sono i pezzi che compongono la sola camera - derivata, per il formato, dal cinema e facilissima ed estremamente duttile per l'operatore. Con l'inserimento nell'ingranaggio del giornalismo il fotografo ha una possibilità immensa di comunicazione, diventa uno dei maggiori manipolatori d'immagini, ma nello stesso tempo la sua indipendenza è sempre più condizionata. The cameraman (Io e la scimmia) di B. Keaton, 1928, e La dolce vita di Fellini, 1960 (e si ricordi che Paparazzo, oggi diventato un nome comune, era il vero cognome di un fotoreporter) sono due esempi fra tanti di come il giornalista fotografo sia diventato un personaggio della nostra società.
Il fotogiornalismo nacque in Germania, in un clima culturale e politico effervescente. Fra il 1928 e il 1933 E. Salomon stabilì le regole di questo gioco ignoto. Munito di una Ermanox, una macchina relativamente piccola con obiettivo particolarmente luminoso, Salomon si propose di fotografare i personaggi della cronaca politica senza che se ne accorgessero e di fotografare nei luoghi interdetti ai fotografi. La sua prima fotografia di successo pubblicata nella ‟Berliner Zeitung" del 19 febbraio 1928, fu la fotografia di un processo, eseguita violando tutte le disposizioni. Soprattutto, vi è un modo nuovo di leggere dentro le cose che definisce la fotografia di Salomon. Le sue immagini non sono il commento di ciò che si può leggere nelle colonne scritte, ma aggiungono qualcosa di inedito. Sono le osservazioni dell'uomo che vuol scoprire gli uomini nel loro comportamento, al di là e al di sotto delle loro affermazioni ufficiali. Le pause di una conferenza internazionale, la colazione del mattino di un gruppo di diplomatici, un gesto furtivo, gli atteggiamenti spontanei momenti di riposo rompono con un iconografia precostituita, rivelano, interrogano, diventano una storia segreta, discreta e vera, soprattutto medita. In Inghilterra i suoi réportages furono chiamati candid photographs; nel 1930 pubblicò un volume, Berühmte Zeitgenossen in unbewachten Augenblicken (Contemporanei famosi in momenti non sorvegliati). I suoi personaggi vanno da Casals a Einstein a Hearst, a Mussolini e a Thomas Mann. È interessante confrontarli con i ritratti eseguiti, per esempio, da un fotografo italiano raffinato ed esperto, come M. Nunes Vais (la cui raccolta è oggi nell'ex-Gabinetto Fotografico Nazionale) per rendersi conto dell'enorme anticipo di Salomon.
St. Lorant, dal 1930 redattore capo della ‟Münchner Illustrierte Presse", impresse una grande svolta alla fotografia per la stampa. Gli eroi del réportage fotografico non erano più le grandi personalità che occupavano i titoli dei giornali, ma la gente minuta, che racconta la propria storia in una successione di immagini.
H. Baumann, A. Eisenstaedt, A. Kértesz, M. Muncaszi, G. Krull, Moholy-Nagy, sono alcuni dei nomi che compaiono nei giornali e nelle riviste tedesche di quest'epoca. Il nazismo avrebbe distrutto tutto ciò, intervenendo sulla fotografia in modo da trasformarla in strumento di propaganda. Manca ancora uno studio critico della fotografia nazista, nella quale occupa un posto di direzione H. Hoffman, suocero di B. von Schirach, fotografo personale di Hitler, che si serve della sua documentazione per studiare i propri movimenti in pubblico. Il film Olympia, di L. Riefenstahl, del 1936-1938, è molto vicino alla tematica della fotografia nazista, di cui risente anche nello sfoggio freddo e calcolato delle risorse tecniche.
Conseguenza della repressione nazista fu la dispersione di molte personalità per l'Europa e l'America. G. Krull, A. Kértesz, Muncaszi e Capa (R. Capa, pseudonimo di A. Friedmann) lavorarono per ‟Vu", la rivista francese diretta da L. Vogel che fra il 1928 e il 1936 tentò un tipo di informazione di alto livello basata prevalentemente sulla fotografia (nel 1933 uscì un numero sulla situazione in Italia sotto il fascismo, nel 1934 un numero sulla Cina, finché un numero speciale sulla guerra di Spagna, vista dalla parte repubblicana, fece togliere il sostegno finanziario alla rivista).
Il primo numero di ‟Life", la rivista cui avrebbero collaborato alcuni dei profughi tedeschi, come Eisenstaedt, uscì il 23 novembre del 1936. Doveva contenere un servizio di M. Bourke-White sulla costruzione di una diga nel Montana, ma il servizio divenne invece un inchiesta con un taglio netto e penetrante sulla vita nella piccola colonia che si era formata intorno ai cantieri della diga. Per molti anni la Bourke-White, che lavorava spesso in collaborazione con E. Caldwell, sarebbe stata una documentarista obiettiva della vita americana, attraverso la crisi e le guerre. Fra la depressione e il New Deal l'America doveva trovare un ritratto appassionato e romantico, ma fedelmente americano, nella fotografia. La Rural Resettlement Administration (poi Farm Security Administration) ebbe una divisione fotografica, diretta da R. Stryker, per far conoscere al pubblico le condizioni di vita nelle aree più depresse del paese. Fra i maggiori fotografi impiegati dalla Farm Security furono D. Lange e W. Evans, due eccezionali maestri dell'American scene.
La fotografia per la stampa non è, ovviamente, tutta denuncia o celebrazione. L'intrattenimento vi ha una parte considerevole. Le riviste di moda hanno incominciato relativamente tardi a servirsi della fotografia, e fino al 1945 in pochi casi essa ha prevalso sui disegni. ‟Vogue", per la quale dal 1913 lavorava il barone A. De Mayer, elaborò un suo stile ben riconoscibile, in cui alla posa ricercata della modella si univa la precisione dei particolari, che dovevano essere ben individuati. Dal 1911 E. Steichen lavorava per ‟Art et décoration"; nel 1923 passò al gruppo di Condé Nast e continuò a pubblicare fotografie su ‟Vogue" e su ‟Vanity fair". Le figure di Steichen sono raccolte e isolate, una galleria di personalità intense, che dominano la pagina e che possono giustificare il tributo al loro divismo; le figure di A. De Mayer sono invece più accomodanti, colte in gesti quotidiani, inserite in un ambiente. Attraverso le riviste di moda la fotografia compiva forse il passo più insidioso, proponendo esplicitamente dei tipi di comportamento e dei tipi fisici, cosicché valori che un tempo duravano un'intera generazione cambiavano rapidamente.
Nel secondo dopoguerra uscivano in Italia le prime riviste rivolte a un pubblico femminile di scarsissima cultura, quasi al limite dell'alfabetismo, in cui, nello schema tradizionale dei comics, erano narrati racconti fotografici, storie del tutto fantastiche recitate da attori, i cosiddetti ‛fotoromanzi', ai quali la fotografia forniva un notevole credito, risultando inevitabilmente ‛veri' e non ‛inventati', come invece sarebbero apparsi se fossero stati disegnati. La formula ha avuto un successo vastissimo, non soltanto in Italia, ma in Spagna e nei paesi dell'America Latina.
A lungo la fotografia del nudo si è dibattuta fra pornografia ed estetismo, entro una circolazione assai limitata e spesso clandestina. Con molta esitazione, infatti, la macchina fotografica si è avvicinata a un territorio tanto geloso e proibito. Una forte motivazione formale sembra quasi giustificare i rari nudi di Man Ray, di Weston, di Kértesz, di H. Hayez-Halke e ancora, recentemente, di K. Székeszy, di M. Nakagawa. Nel dicembre del 1953, l'apparizione della rivista ‟Playboy", che presentava come ‛omaggio' ai suoi lettori la fotografia a colori di Marilyn Monroe nuda, ha concorso notevolmente a modificare la mentalità corrente, con una graduale ma costante conquista di ciò che è lecito di fronte alla legge e al costume. L'erotismo fotografico (a ‟Playboy", diretto per la grafica da A. Paul, sono seguiti il francese ‟Lui", con direttore artistico F. Giacobetti, e poi iniziative analoghe in vari paesi, tra cui l'Italia) è diventato così un fattore non secondario della generale erotizzazione dei rapporti sollecitata dai mass media, e oggi un certo tipo di nudo femminile, ritratto in modo che sia poco realistico e abbia tutto il suo forte valore metaforico, è frequentissimo anche nella pubblicità più castigata. Più ancora che gli ambienti tradizionali, hanno reagito contro questo tipo di fabbricazione dell'immagine femminile i movimenti femministi, e filosofi come H. Marcuse. In contrasto con le posizioni della grande stampa, in America come in Europa, i movimenti underground hanno anch'essi proposto il nudo, ma come manifestazione liberatoria e di rifiuto, sollecitando una documentazione fotografica esplicita, che volutamente non seleziona i modelli secondo i canoni delle riviste di moda e che li rappresenta in un ambiente reale, diverso da quello fittizio da cui li fanno circondare i grandi rotocalchi. Nello stesso tempo, la vera e propria pornografia, sostenuta da un'organizzazione industriale considerevole, dapprima nei paesi scandinavi, poi in Germania (gruppo Uwe) e altrove ha avuto una diffusione senza precedenti. Dibattiti parlamentari, aggiornamenti legislativi nei vari paesi fanno comprendere quanto la materia sia ancora incerta; ma anche se talvolta in modo rozzo e volgare, la fotografia del secondo dopoguerra ha certamente rivelato agli uomini, dopo una lunga reticenza, quale sia l'immagine del corpo umano.
7. La fotografia e il museo
Il collezionismo fotografico ha una lunga tradizione, sin da quando i dagherrotipi erano esemplari unici e abbastanza costosi e da quando gli album fotografici sono diventati la pinacoteca familiare di tutti. La legge sull'esemplare d'obbligo, in Italia, in Francia e altrove ha accumulato notevoli fondi fotografici nelle biblioteche centrali. La Bibliothèque Nationale di Parigi e la Library of Congress di Washington hanno speciali sezioni che raccolgono, studiano, promuovono la fotografia. Dal 1940 il Museum of Modern Art di New York ha una sezione fotografica (Department of Photography); nel 1949 fu fondata a Rochester, nello stato di New York, la George Eastman House, con compiti di raccolta, archivio, aggiornamento e promozione di studi sulla fotografia; la legge istitutiva del Ministero dei Beni Culturali (dicembre 1975) attribuisce al nuovo Istituto Nazionale della Grafica competenza sulla fotografia creativa.
La ‛museificazione' della fotografia è dunque un fenomeno relativamente recente, ma con conseguenze non meno importanti di quelle che ha avuto l'ingresso della fotografia nella stampa e nella pubblicità. Il fotografo è ritornato, come nell'età dei pionieri e come al tempo del pictorialism di fine secolo, a essere considerato come un artista, alla stregua dei pittori. Egli è anzi diventato un attore importante in molte manifestazioni dell'arte contemporanea, specialmente, ma non soltanto, in tutto ciò che riguarda il ‛comportamento'. Riporto fotografico, serigrafia, hanno reso instabile il confine fra pittura e fotografia, fra fotografia e stampa. La fotografia ha assunto alcune forme di produzione proprie della stampa d'arte contemporanea, prima fra tutte quella delle edizioni limitate e firmate. Si tratta, per quest'ultimo aspetto, di un fenomeno involutivo, dettato da una specifica organizzazione della cultura e del mercato dell'arte, in contraddizione con la natura stessa della fotografia (con la conseguenza della distruzione dei negativi per assicurare il limite dell'edizione). La stessa creazione fotografica risente delle nuove condizioni. Per esempio, soltanto nella nuova prospettiva del museo e del collezionismo si è potuto pensare a una fotografia retrospettiva, che è tale nella ripresa di antichi metodi di stampa (stampa al platino, stampa al carbone ecc.), talvolta nell'uso di apparecchi e di ottiche datati, oppure in una decisa scelta stilistica, con il ritorno nostalgico al pictorialism pur nell'uso raffinato delle più avanzate tecniche moderne del colore (D. Hamilton).
La collocazione in secondo piano dell'assetto documentario della fotografia, nelle sue espressioni d'arte come nella pubblicità, ha poi dato spazio ad applicazioni tecniche che distruggono l'impressione di realtà della fotografia per consentire la creazione di immagini guidate soggettivamente: dalla solarizzazione si va così al solo contorno degli oggetti, alla riduzione dei grigi, al solo contrasto di bianco e nero, infine al sistema di stampa elettronica detto colorkey, con il quale si può attribuire un valore cromatico qualsiasi a un dato valore nella scala dei grigi. Al polo opposto, l'invenzione della Polaroid, la piccola macchina che consente lo sviluppo e la stampa immediata della fotografia al momento dello scatto (messa in vendita nel 1948, si è imposta al pubblico con un fatturato di 504 milioni di dollari nel 1971), ha cercato di violare l'ultima resistenza professionale nella fotografia, quella che separava il tempo e la produzione del dilettante dalla stampa prodotta a distanza di tempo in un laboratorio specializzato. Osservazione del vero e osservazione della fotografia - due sistemi di lettura -, l'istante dell'avvenimento e il suo ricordo visivo, soggettività della percezione e oggettività della riproduzione si sono dunque ravvicinati.
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