Fotografia
Non si può pretendere di aver visto veramente qualcosa se non lo si è fotografato
(Émile Zola)
L'occhio del secolo
di Ferdinando Scianna
25 gennaio
Al Palazzo dell'Arengario di Milano si inaugura una rassegna dell'opera di Henri Cartier-Bresson, uno dei più grandi maestri della fotografia del Novecento. La mostra consente di ripercorrerne l'itinerario artistico e insieme offre l'occasione di ripensare criticamente il determinante ruolo che l'immagine fotografica ha svolto nella cultura del secolo appena terminato.
Images à la sauvette
Nel suo Il secolo breve (uscito nel 1995), lo storico inglese Eric Hobsbawm afferma che i linguaggi espressivi principali della cultura del 20° secolo sono stati la fotografia e il cinema. Si è dovuto aspettare che il secolo finisse per scoprire un'evidenza sotto gli occhi di tutti, per quanto macroscopicamente, e non disinteressatamente, sfuggita a quasi tutti gli addetti ai lavori.
Henri Cartier-Bresson, nato il 22 agosto 1908 - leone sotto il segno del sole, ha detto il suo amico André Pieyre de Mandiargues - a Chanteloup, nella Seine et Marne, ha oggi 93 anni. Benché da trent'anni abbia smesso di fotografare professionalmente, il secolo breve, o troppo lungo, per almeno cinquant'anni lo ha attraversato da fotografo. Anzi, non soltanto lo ha attraversato, da fotografo lo ha incarnato, tanto che una delle definizioni che di lui sono state date è appunto "l'occhio del secolo".
La consacrazione definitiva, ancora più che dalla mostra 'postuma' del 1947 - che il Museo d'Arte Moderna di New York aveva preparato quando Cartier-Bresson, prigioniero in Germania, era stato creduto morto -, si può datare al 1952, anno in cui grande editore, suo amico e mentore, Tériade (al secolo Efstratos Eleftheriades), pubblica Images à la sauvette, libro chiave della storia della fotografia contemporanea, uscito con la splendida copertina appositamente disegnata da Matisse. Libro chiave non soltanto per le definitive e da allora diffusissime e celebratissime immagini che contiene, ma altrettanto, e forse ancora di più, per l'importantissimo testo di Cartier-Bresson che le precede.
È in questa prefazione che troviamo la celebre definizione: "La fotografia è per me il riconoscimento, nello stesso istante e in una frazione di secondo, da una parte del significato di un fatto, dall'altra dell'organizzazione rigorosa delle forme visualmente percepite che esprimono e significano questo fatto".
Cartier-Bresson scrive in modo molto personale. La sua scrittura deve il gusto della formula sferica, aforistica, poi più volte splendidamente praticata, certamente alla forte influenza dei suoi amici surrealisti, che frequentò fin da giovanissimo, attratto dalle istanze libertarie e intuitive dei discorsi di André Breton. Ma deve anche la concisa eleganza alle lunghe frequentazioni della prosa di Saint Simon, dei memorialisti del Settecento non meno che di Stendhal e di Joyce.
Le poche pagine che precedono Images à la sauvette, scritte - racconta Cartier-Bresson - perché Tériade lo costrinse a farlo e che dovevano semplicemente raccontare il modo in cui faceva le sue fotografie, si sono rivelate, nell'apparente leggerezza discorsiva, un testo di straordinaria portata teorica. Non solamente egli ha fornito in quell'introduzione una chiave di interpretazione delle sue fotografie che nessun critico da allora è riuscito ad aggirare, ma ha anche proposto una definizione specifica della fotografia e del fotografare che è sembrata insormontabile e con la quale tre generazioni di fotografi hanno dovuto necessariamente confrontarsi.
Il titolo francese, che significa "immagini prese alla svelta, di nascosto", diventa, nell'edizione americana, The decisive moment, ricavato dalla frase del Cardinale de Retz che Henri aveva posto en exergue: "Non c'è nulla in questo mondo che non abbia un momento decisivo". Quel titolo si trasforma in una definizione estetica che da allora non ha cessato di identificare la fotografia di Cartier-Bresson. "Come esiste un ABC della fotografia di base - ha scritto Ernst Haas - esiste oggi un HBC della fotografia creativa".
Molti hanno finito con il sentire quella che era una dichiarazione di poetica, della sua poetica, come una camicia di forza. "Come se io - dice Cartier-Bresson - avessi voluto dettare regole a chicchessia. Queste sono norme che io impongo a me stesso, le sole che sono disposto ad accettare. La libertà dell'artista è un quadro di norme rigorose all'interno delle quali tutte le varianti sono possibili". Il fatto è che, a volerla utilizzare lucidamente e coraggiosamente, quella formula si rivela un affilatissimo strumento critico.
In un testo successivo, Cartier-Bresson aggiunge alla celebre definizione che l'atto del fotografare, una maniera di vivere, implica mettere sulla stessa linea di mira l'occhio, la mente e il cuore.
Quanta fotografia concettuale vive di ipertrofia del discorso mentale: ma dov'è il senso della forma, dove l'emozione? Quante ricerche di belle forme soffrono di asfissia da mancanza di giudizio e inesistente partecipazione emozionale? Che cosa rende tante immagini di propaganda ideologica, o di privata testimonianza, retoriche, brutali o mielosamente sentimentali, se non l'assenza di intelligenza delle cose e di intelligenza della forma? È molto più facile ribellarsi a questa difficile disciplina che cercare di raccoglierne la triplice sfida etica, intellettuale ed estetica.
Di fatto, comunque, da quando lui ha proposto assieme alle sue immagini anche il discorso che definisce il come e il perché di quelle immagini, da cinquant'anni, insomma, si è fatta fotografia, e si è discusso di fotografia, contro o con Cartier-Bresson.
Si potrebbe tracciare in curve parallele il diramarsi delle varie strade percorse dalla fotografia e dal discorso sulla fotografia con le oscillazioni della fortuna di Cartier-Bresson: oscillazioni che dall'esaltazione assoluta sono potute arrivare fino al rifiuto sprezzante. A ragione Jean Kempf ha affermato che Cartier-Bresson ha finito con l'incarnare nel mondo della fotografia il ruolo simbolico del padre: "Il padre Cartier-Bresson supera tuttavia le relazioni di paternità 'artistica' classiche. Esso significa, agli occhi di alcuni di noi ma anche del grande pubblico, la fotografia stessa. Siamo entrati nel mondo delle immagini o della pratica fotografica attraverso di lui. È tutta un'idea della fotografia che abbiamo concepito attraverso di lui, un rapporto al formato, uno statuto della realtà, una funzione dell'immagine, e forse persino, ciò che è più importante, un tipo di gesto fotografico".
Ora, con il padre, come si sa, in un modo o in un altro si devono fare i conti, ci si deve misurare, confrontare. Tanto più che, fenomeno straordinario, la celebrità mondiale di Cartier-Bresson ha esorbitato dal territorio degli addetti ai lavori per diventare misteriosa popolarità. Il suo nome ha finito con l'essere identificato con la fotografia stessa anche da gente che assai poco, se non per nulla, conosce davvero le sue immagini. Il suo discorso, così rigoroso, mille volte ripetuto, frainteso, volgarizzato, si è trasformato in un diffusissimo luogo comune, una giaculatoria: la fotografia come istante spontaneo colto al volo. Un colpo di fortuna, in definitiva.
Il fotogiornalismo
La faccenda è stata complicata dal fatto che Cartier-Bresson, con Robert Capa, 'Chim' Seymour, William Vandivert e George Rodger, fondò, nel 1947, l'agenzia fotografica Magnum Photo. Questa ottenne rapidamente un grande successo, soprattutto nei giornali e nelle riviste che in quegli anni incisero più profondamente sulla comunicazione visiva.
Intorno alla metà degli anni Sessanta era opinione diffusa che i 25 migliori fotografi del mondo facessero parte di quel gruppo. "Come tutti gli ordini religiosi - ha scritto spiritosamente Elliott Erwitt - l'Agenzia Magnum è da sempre abitata da presenze tutelari, da una parte Robert Capa, benché sia morto tanto giovane nel 1954, dall'altra Cartier-Bresson, autentico padre spirituale. Le morti, le catastrofi, i terremoti economici, il declino della stampa di qualità e la crescente volgarità dei giornali contemporanei non sono ancora riusciti a seppellirci". Tutto ciò ha finito con il fare considerare Magnum, ancora miracolosamente in piedi dopo oltre mezzo secolo, un po' come la Scuola di Atene, la Chiesa che incarnava il verbo bressoniano. Naturalmente non potevano mancare le reazioni, che presto si sono sviluppate, spesso con violenza. Quel verbo, si disse, si era sclerotizzato, era diventato un fondamentalismo ideologico, un accademismo. Lo stesso Cartier-Bresson, diventando fotogiornalista professionale, aveva perduto la magia visionaria delle grandi immagini degli anni Trenta e aveva cristallizzato il suo approccio fotografico trasformandolo in una formula, un manierismo estetico. La Chiesa, insomma, aveva generato i suoi miscredenti, di cui molti, come è umano, si trovavano tra quanti non erano riusciti a far parte del gruppo. Ci furono, tuttavia, eresie anche all'interno dell'agenzia stessa.
Ma è soprattutto avvenuto che, dopo la straordinaria espansione dell'uso giornalistico e illustrativo della fotografia e l'inizio del suo declino, le nuove utilizzazioni pubblicitarie, il dilagare della televisione, la lenta presa di coscienza del ruolo centrale che la fotografia ha avuto nella cultura visiva del 20° secolo, si è sentita l'esigenza di cercare strade diverse, di creare nuove basi che nobilitassero un linguaggio che magari cominciava a declinare come strumento di comunicazione e informazione, ma che ci si preparava ad accreditare nel nuovo ruolo di creazione artistica. Per facilitare questa transizione bisognava liberarsi di quel padre ingombrante e del suo ingombrante discorso. Questo, nonostante Cartier-Bresson, fin dai primi anni Settanta, avesse di fatto smesso di fare fotografie consacrandosi al disegno, così riprendendo il filo di una vocazione che credeva di avere definitivamente abbandonato con la scoperta della Leica e della folgorazione dell'istante fotografico decisivo.
Dalla fondazione di Magnum Cartier-Bresson è stato anche reporter, presente nel teatro di alcuni fra i più importanti avvenimenti della storia del secolo, dall'apertura dei campi di concentramento nazisti al disgelo dell'URSS, dall'arrivo dei comunisti a Pechino alla morte di Gandhi. Ma lui sostiene di non avere mai avuto né idee né spirito giornalistici. "Era Capa che mi suggeriva che cosa fare e dove andare" dice con candore. Gli si può dare ragione.
La scrittura fotografica può essere assimilata, molto più fruttuosamente che al linguaggio pittorico, alla scrittura. Riconosciamo scrittori giornalisti, saggisti, sociologi, antropologi, di viaggio, romanzieri, poeti, ma non confondiamo le loro diverse specificità espressive pur dentro il comune linguaggio letterario. Lo stesso vale per i fotografi.
Se analizziamo la vastissima produzione bibliografica di Cartier-Bresson, vediamo che ha pubblicato Le danze a Bali, un Viaggio in Turchia, immagini dell'URSS, un ritratto di Mosca, un altro, lungo e impegnativo, della Francia degli anni Sessanta, e ancora un libro memorabile, che racconta il capitale passaggio storico Da una Cina all'altra. Vi sono poi molti altri libri sull'India, su Parigi, sugli Stati Uniti, sul Messico.
Nessuno di questi libri, tuttavia, e ben pochi dei suoi reportage su fatti di pur storica attualità, come la morte di Gandhi, o l'inizio del disgelo in Unione Sovietica, o l'arrivo delle truppe di Mao a Pechino, è eccezionale per l'impianto narrativo giornalistico o per l'approccio saggistico o antropologico. Quei libri, quei reportage appaiono invece straordinari per la forza e la penetrazione di alcune singole, insuperabili immagini. Ciò, naturalmente, non significa affatto che i libri di Cartier-Bresson manchino di intelligenza giornalistica, di capacità narrativa, di penetrazione psicologica, sociologica, antropologica, storica, o che le altre foto siano brutte o inutili.
Stendhal non era giornalista, né un tecnico dell'arte militare, nondimeno la sua descrizione della battaglia di Waterloo nella Certosa di Parma, pur contenendo tutte le informazioni che su quell'evento avrebbe potuto darci un giornalista o un generale, ci dà in più quel senso interno delle cose, la vita che i fatti prendono nella coscienza degli uomini, la profondità che soltanto sa dare e può dare la grande scrittura letteraria.
Fra le varie scritture letterarie quella di Cartier-Bresson si riconosce inequivocabilmente come scrittura poetica. In questo senso il libro che meglio lo rappresenta rimane Images à la sauvette, che si propone come raccolta di immagini singole, come lo sono le raccolte di poemi.
Una raccolta di poemi certo può raccontare un mondo, il mondo, fatti, storie, sentimenti, ma specialmente racconta la maniera in cui il poeta vede, sente, comprende, canta quel mondo. Ciascuno dei poemi, come ciascuna delle immagini di Cartier-Bresson, mantiene nella conclusa individualità del discorso, nella perfezione estetica, la propria autonomia. Questo non vuole assolutamente dire che l'approccio fotografico di Cartier-Bresson sia prevalentemente formale, che il suo obiettivo sia soprattutto estetico e che il soggetto, qualunque soggetto, sia per lui soltanto un pretesto per cercarvi fulmineamente la perfezione dell'immagine.
Questa accusa, più che giudizio critico, come l'altra, che ne consegue, di indifferenza borghese - moneta corrente in anni di ideologismo contenutistico - era probabilmente soprattutto il frutto del comprensibile sgomento di alcuni di fronte a tanta rigorosa armonia formale ottenuta pur dentro una folgorazione spaziotemporale, tagliando nel vivo della vita, nel suo stesso accadere, inarrestabile, si direbbe, salvo che da Cartier-Bresson. Come se non si potesse concepire un così esatto controllo dell'immagine senza il sospetto di un estraniamento etico e intellettuale.
Così non è, e ben lo sanno quanti hanno scontato le celebri rabbie e il disprezzo di Cartier-Bresson per le 'belle fotografie' di fotografi la cui visione del mondo, per usare una sua ricorrente espressione, "manca di spessore": condanna senza appello per lui, così insofferente di belle foto, inutili perché solo belle. Insofferente persino nei confronti di fotografi che, benché abbiano 'spessore', si compiacciono di eccessivi formalismi. "Un esteta filantropo" l'ho sentito una volta seccamente definire un fotografo, mito della fotografia impegnata, ma, così incongruamente, eccessivamente preoccupato dei 'bei neri' delle sue stampe. Quello di estetismo appare ancora più irrevocabile di altri suoi giudizi candidamente violenti su immagini di pur celebri fotografi, dei quali può dire con grande naturalezza che non hanno sensibilità visiva, conservando tuttavia rispetto per il valore sociologico, giornalistico, testimoniale del loro lavoro.
La vicenda del secolo appena trascorso Henri l'ha raccontata sia sul teatro dei grandi avvenimenti storici sia nella quotidianità della vita delle anonime persone, ovunque abbia vissuto, più che viaggiato: nella campagna francese come a New York, in Cina, in Messico, a Scanno, in India, in Svizzera o nella sua Parigi. Il legame indistruttibile tra fondo e forma nelle sue immagini è dimostrato anche dal fatto che nella sua opera si può entrare da molte porte, anche dalla porta narrativa, il che ha reso possibile, per esempio, fare libri con sue fotografie sui rapporti tra uomini e macchine, su luoghi, fatti e momenti i più vari, soggetti ai quali ha prestato attenzione, giudizio, passione e non soltanto sguardo estetico.
Ci sono fotografi che devono la loro magari meritata fama ad alcuni fiori coltivati in un giardinetto. Cartier-Bresson ha fotografato l'Oriente e l'Occidente, i contadini e gli operai, la città e la campagna, i ricchi borghesi e i disperati del mondo. Ha preso di petto un'intera foresta.
Quanto alla supposta distanza borghese di Cartier-Bresson, si dimentica la copernicana democratizzazione dello sguardo, che le sue fotografie hanno proposto fin dai primi anni Trenta, e la rottura anarchica, radicale, della gerarchia delle cose, dei fatti, degli uomini meritevoli di essere guardati, visti, considerati, messi in valore. Basta riferirsi a che cosa era la fotografia negli anni in cui la sostanziale novità estetica, tecnica, ma anche etica delle sue immagini irruppe sulla scena culturale mondiale.
I ritratti
Per non parlare della sua imponente opera di ritrattista, non meno innovativa e determinante delle altre sue fotografie. Nel ritratto Cartier-Bresson propone un discorso che si allontana dall'idea del fotografo testimone invisibile propugnata per il reporter.
Per fare un ritratto - dice Cartier-Bresson - bisogna domandare udienza e ottenerla, bisogna raggiungere un accordo, una connivenza. Un buon ritratto è il frutto di una reciproca disponibilità. Ma per riuscirci non ci sono regole. O, per meglio dire, le regole cambiano di volta in volta, a seconda delle persone e delle situazioni. A volte la folgorazione può arrivare di colpo, nel primo momento dell'incontro, come nel caso dei coniugi Joliot-Curie, visti e intuiti nell'istante stesso in cui gli aprivano la porta. A volte l'approccio può essere lento, come nel caso di Ezra Pound, con il quale si sono fronteggiati a lungo senza pronunciare una parola. A volte basta un nulla perché l'incantesimo si rompa e diventi impossibile ricostituirlo. Occorre informarsi sulla persona da fotografare, ma a saperne troppo si rischia di non saperne più abbastanza. Bisogna essere discreti, non aggredire mai. Come un picador - dice - che colpisca tra la pelle e la camicia. A Cartier-Bresson non interessa affatto la 'spontaneità'. Un vero ritratto coglie sempre il soggetto in un misterioso 'momento di silenzio'. "Abbasso la spontaneità - esclama - viva la folgorazione!".
Nella straordinaria galleria dei suoi ritratti gli umili e i potenti, gli sconosciuti e i famosi vengono accostati con lo stesso rispetto e la stessa attenzione umana. Ma non ci sono politici, dei quali non è mai riuscito a comprendere, dice, la misteriosa passione per il potere.
La peculiarità dell'uomo e del fotografo
Reporter visionario, sociologo lirico, ritrattista peculiare, specialissimo paesaggista, Cartier-Bresson ha davvero affrontato la foresta del secolo, su tutto posando il suo sguardo lucido e partecipe, infallibilmente sostenuto da un perfetto senso della forma. Uno sguardo europeo che sa sospendere l'istante di vita senza mai ucciderlo, in equilibrio miracoloso.
Dal dopoguerra, che è anche un dopo-Ottocento, in sostanza iniziato negli anni Cinquanta del secolo successivo, molte nuove maniere di intendere e praticare la fotografia sono nate e hanno cercato di imporsi. Alcune hanno dato frutti e allargato gli orizzonti, tante si sono aggrovigliate, avvitate su sé stesse, e sono oggi morte e sepolte. Ma morto e sepolto non è Cartier-Bresson, non soltanto nella vitale lucidità e creatività dei suoi superati novant'anni, ma nell'intatta gioventù della sua opera di fotografo. Le mostre con cui viene accolto nelle più grandi istituzioni culturali mondiali non solo concludono un secolo che ha avuto, come dice appunto Hobsbawm, nella fotografia la sua principale forma espressiva, ma consacrano Cartier-Bresson come l'autentico occhio di questo secolo.
Come nasce e come si può definire la peculiarità dell'uomo Cartier-Bresson e delle sue fotografie? Se penso a una definizione, la più adatta mi sembra quella di specialista in evasioni. Non c'è prigione, fisica o intellettuale, nella quale abbiano cercato di rinchiuderlo, dalla quale non sia riuscito a fuggire. Anche dal campo nazista, nel quale era prigioniero, evase. Lo ripresero due volte; alla terza, riuscì. Ottima formazione, commenta, per un giovane borghese surrealista.
Lo spirito di rivolta Cartier-Bresson se lo porta dentro. La sua avventura esistenziale nasce all'insegna della rivolta. Il nome Cartier-Bresson era sinonimo di industria tessile in Francia. Primogenito di una grande famiglia borghese cattolica progressista, erede di una grande fortuna industriale, il giovane Henri dice no al ruolo sociale cui era predestinato e alle conseguenze di ingiustizia che avrebbe dovuto assumerne. Il padre gli spiega subito che non sarà un figlio di papà. Avrà un piccolo assegno che gli viene dalla sua dote, nulla di più.
La complicità di un sorvegliante del collegio di preti, dove non ha mai superato gli esami di licenza, gli aveva fatto scoprire scrittori come Rimbaud, Proust, Joyce, Freud e Romain Rolland, attraverso il quale ebbe il primo contatto intellettuale con l'induismo che lo ha poi portato alla scoperta del buddismo, vissuto anche questo con laica indipendenza.
L'atmosfera culturale a casa Cartier-Bresson era molto ricca, la madre lo portava bambino a sentire Cortot, Thibaud, Casals e la musica da camera di cui è rimasto grande appassionato. Un suo zio mitico, Luis Cartier-Bresson, era un brillante pittore - Prix de Rome nel 1910 -, destinato a grande avvenire se non fosse morto in guerra. Suo padre disegnava molto bene. "Ho sempre avuto una passione per la pittura": così comincia il suo testo di Images à la sauvette.
Dai 17 anni frequenta le riunioni surrealiste nel caffè di Place Blanche. Breton, Aragon e il discorso surrealista entusiasmano il suo infiammato animo giovanile. In quell'ambiente trova amici che lo accompagneranno sempre: Pieyre de Mandiargues, Max Ernst, Benjamin Perret, René Crevel. Frequenta i corsi di pittura di André Lhote, cui dice di dovere molto, ma li abbandona presto, insofferente dell'accademismo teorico del pittore cubista.
Poi, forse in fuga per un amore impossibile, compie un viaggio avventuroso in Africa, dove vive facendo il cacciatore e dal quale ritorna quasi morente per un'infezione contratta in quei climi insalubri e per sempre marcato da disgusto contro le ferocie del colonialismo e la stupidità dell'economicismo fine a sé stesso.
È allora che scopre la Leica, il piccolo apparecchio duttile e leggero che diventerà, il 'prolungamento' del suo occhio. Aveva già provato, racconta umoristicamente, a fare fotografie con una vecchia macchina di grande formato, cavalletto e canonico telo nero. Ci voleva molto tempo, le pellicole erano poco sensibili e non si poteva fotografare niente che fosse vivo o si muovesse. "Tutto ciò mi sembrava molto artistico", commenta oggi con sarcasmo. Molto artistico forse, ma certo inadatto al temperamento di questo gran nervoso, seguace della massima di Breton: "D'abord, la vie!".
La folgorazione sulla sua vocazione lo coglie quando si imbatte in una fotografia dell'ungherese Martin Munkacsi: tre bambini che corrono nudi verso le onde del lago Tanganika, scattata intorno al 1929. "Che forza plastica, che senso della vita, il bianco, il nero, la schiuma! Ero sconvolto". Un istante decisivo. Una fotografia, in effetti, perfettamente bressoniana ante litteram.
Il giovane Henri ha capito quello che vuole fare e da allora, per quasi cinquant'anni, macchina al polso, mai più abbandonata, con straordinaria determinazione, diventa il perfetto interprete dell''azzardo obbiettivo' teorizzato dai surrealisti e produce una serie di immagini che costituiscono uno dei raggiungimenti culturali più alti e originali del 20° secolo.
Quest'opera gli ha dato una fama immensa, che lo accompagna da sessant'anni. Ma il suo istinto libertario lo ha sempre fatto diffidare della fama, una delle forme del potere, che può diventare trappola e prigione a sua volta. Bisogna sempre rimettersi in gioco, ripete.
Il suo amico Tériade glielo ripeteva da tempo: hai detto quello che avevi da dire con la fotografia, hai sempre pensato alla pittura, cerca di andare più lontano con la pittura. Agli inizi degli anni Settanta Henri si decide, abbandona la macchina fotografica e ritorna al vecchio amore del disegno: un disegno scabro, in presa diretta sul soggetto, riconquistato con tenacia umile e paziente, affrontando i giudizi severi degli amici pittori ai quali si affida come allievo e i sarcasmi di chi considerava che il celebre fotografo, ormai stanco, si dedicava infine al suo hobby. Niente di più lontano dal carattere di Cartier-Bresson che ha considerato la fotografia un duro piacere, non un lavoro, ma non è mai stato un dilettante.
Soltanto da poco tempo, dopo trent'anni di quotidiano, altrettanto duro piacere di disegnare per cinque ore al giorno, i disegni di Cartier-Bresson vengono apprezzati per il loro valore. Cartier-Bresson ha sempre detto che per lui la fotografia era un disegno istantaneo e che non vedeva differenze tra le due forme espressive. I suoi disegni dicono il contrario. Si tratta di opere assai diverse rispetto alle fotografie. Per fortuna. Sono degne dello sforzo che l'autore vi ha dedicato e dell'apprezzamento che musei, grandi gallerie e collezionisti gli manifestano. A Henri Cartier-Bresson è riuscita anche questa straordinaria evasione.
repertorio
La storia della fotografia
Le origini
L'invenzione della fotografia fu preceduta da un ventennio di intense ricerche e sperimentazioni. Nel 1826, le conoscenze chimiche dell'epoca applicate alla camera oscura, strumento largamente in uso tra gli artisti, portarono J.-N. Niepce a produrre la prima immagine stabile, con la veduta dalla finestra della sua tenuta Le Gras non lontano da Chalon-sur-Saône. Il metodo usato da Niepce, da lui chiamato eliografia, consisteva nello spalmare una lastra di peltro con bitume di Giudea sciolto in olio di lavanda, che si induriva nelle parti colpite dalla luce mentre restava solubile nelle zone d'ombra; attraverso un lavaggio con una soluzione di acqua ragia e olio di lavanda che asportava la parte ancora solubile, si otteneva un'immagine positiva diretta in cui le ombre erano date dal peltro nudo e le luci dal bitume.
Nel 1829 Niepce si associò con L.-J.-M. Daguerre, pittore di un certo rilievo, che aveva ottenuto un notevole successo con il diorama, un sistema consistente in enormi dipinti circolari per ottenere i quali Daguerre si serviva con grande perizia della camera oscura. Morto Niepce, Daguerre ne approfondì le ricerche e nel 1837 ottenne un'immagine stabile su una lastrina d'argento sensibilizzata (cioè trattata con vapori di iodio in modo da formare uno strato superficiale di ioduro d'argento); dopo l'esposizione, la lastrina era trattata con vapori di mercurio che si depositavano soltanto sulle zone colpite dalla luce, annerendole. L'invenzione fu resa nota da D.-F. Arago all'Accademia delle Scienze di Parigi il 7 gennaio 1839 e prese il nome di dagherrotipia.
Molti altri reclamarono la paternità di sistemi per ottenere immagini attraverso l'azione diretta della luce. Tuttavia, il solo procedimento che si pose in alternativa al dagherrotipo fu quello inventato in Inghilterra da W.H. Fox Talbot e chiamato calotipia. Esso consisteva nell'esporre nella camera oscura un foglio di carta sensibilizzato (ovvero imbevuto di bromuro o ioduro di argento), per poi svilupparlo con acido gallico e fissarlo con soluzione di sale comune. Il risultato era un'immagine negativa che, dopo la ceratura della carta allo scopo di renderla più trasparente, veniva esposta a contatto con un altro foglio di carta sensibilizzata, ottenendo così la stampa finale positiva. Una maggiore nitidezza delle immagini fu poi ottenuta utilizzando come supporto il vetro invece della carta, che lasciava sulle copie positive la traccia delle sue fibre, e impiegando una nuova emulsione fotosensibile, formata da un miscuglio di collodio (nitrocellulosa, alcol ed etere) con un sale d'argento, e come fissante l'iposolfito di sodio, secondo il suggerimento dell'astronomo J. Herschel. A quest'ultimo, fra l'altro, si devono i termini 'negativo', 'positivo' e la stessa parola 'fotografia' (photography).
Le difficoltà derivanti dal lungo tempo di posa richiesto (nonostante i miglioramenti presto apportati sia alle emulsioni sia alle macchine, come per es. l'obiettivo a grande apertura progettato sin dal 1840 da J. Petzval e commercializzato da F. Voigländer, che ridusse il tempo di posa intorno al mezzo minuto) fecero sì che il dagherrotipo fosse impiegato nel decennio 1840-50 per riprendere quasi esclusivamente immagini fisse, principalmente ritratti e monumenti. Il ritratto fotografico divenne di gran moda: secondo stime dell'epoca, nel 1849, a dieci anni dalla divulgazione della scoperta di Daguerre, furono eseguiti nella sola Francia 100.000 ritratti in dagherrotipo. Contemporaneamente si diffuse la pubblicazione di libri di viaggi corredati di incisioni realizzate copiando dagherrotipi e dedicati prevalentemente, secondo la tradizione del Grand Tour, all'Egitto, ai luoghi santi, alla Grecia e all'Italia. Ne sono esempi famosi le Excursions daguerriennes (1841-43) di N.-M.-P. Lerebours e i Monuments arabes d'Egypte, de Syrie e de l'Asie Mineur (1846) di J.-P. Girault de Prangey. Il fotografo di origine tedesca F. Martens nel 1845 mise a punto una macchina in grado di riprendere dagherrotipi panoramici che misuravano 38,10x12,06 cm2.
Tuttavia la tecnica del dagherrotipo venne ben presto abbandonata perché l'immagine era in copia unica. Per la sua riproducibilità si impose, invece, il calotipo che assicurava anche una maggiore resa dei dettagli e una più elevata sensibilità. Fu lo stesso Fox Talbot a diffondere la sua opera stampando tra il 1844 e il 1846 quello che è considerato il primo libro illustrato con fotografie, The pencil of nature, con cui, oltre a offrire un vasto campionario dei possibili campi di applicazione della nuova invenzione, l'autore dimostrava la superiorità del metodo negativo/positivo rispetto al dagherrotipo. Tra coloro che usarono il calotipo vanno ricordati R. Adamson e D.O. Hill, che fotografarono i partecipanti alla convenzione di Edimburgo per la fondazione della Chiesa libera di Scozia nel 1843 e ritrassero anche la vita e i volti dei pescatori di New Haven. In Italia va segnalato il fotografo romano L. Tumminello. In Francia la calotipia si affermò con relativo ritardo ma, grazie ai miglioramenti tecnici apportati da G. Le Gray e di L.-D. Blanquart-Evrard nel 1851, divenne ben presto la tecnica preferita dai viaggiatori, tra cui il letterato Maxime du Camp, autore con G. Flaubert di Egypte, Nubie, Palestine et Syrie. Notevoli anche i calotipi di C. Marville e H. Le Secq, nonché la cospicua produzione di Ch. Nègre.
L'era del collodio
Nel 1851 l'inglese F. Scott Archer con l'invenzione del metodo al collodio umido dette il primo grande impulso alla diffusione della fotografia. Con questo procedimento, infatti, vennero risolti molti dei problemi che presentava la trascrizione fotografica, in funzione sia della semplificazione del processo sia dei risultati tecnici, sempre più precisi e suggestivi. Grazie ai nuovi sviluppi, la fotografia dimostrò largamente la sua importanza come mezzo di veicolazione delle immagini, soprattutto nel settore della riproduzione d'arte e di architettura e in quello del ritratto, e attivò anche un settore commerciale sempre più ricco e influente.
Emblematico per il genere collegato alla riproduzione di arte e di architettura diventò il laboratorio fiorentino di L. Alinari, che nel 1852 avviò quello che era destinato a diventare il più grande catalogo di opere d'arte del mondo. Grazie all'atelier di Alinari e ad altri analoghi nati negli stessi anni, si impose un nuovo modo di studiare l'arte: attraverso la fotografia non solo si avevano immagini dotate di una 'memoria' immensamente più fedele di qualsiasi altro mezzo fino ad allora usato, come il disegno e l'incisione, ma era possibile analizzare e confrontare a tavolino le riproduzioni di opere d'arte tra loro distanti.
Il ritratto fotografico che già aveva avuto successo con la dagherrotipia, ebbe un grandissimo sviluppo, in una pratica che trovò operanti anche molti fotografi ambulanti, nelle fiere e nelle piazze dei più remoti paesi. Grande importanza ebbe l'introduzione delle cartes-de-visite con il metodo di A.-A. Disderi, inventore nel 1854 di un apparecchio a obiettivi multipli con il quale era possibile ottenere, sopra una medesima lastra fotosensibile una serie di piccole immagini eseguite in sequenza; le cartes-de-visite divennero subito assai di moda e dovunque si aprirono studi specializzati nella loro produzione. La grande ritrattistica fiorì tuttavia grazie al lavoro di alcuni grandi ateliers, primo fra tutti quello di Nadar (pseudonimo di G.-F. Tournachon): questo fotografo parigino, pioniere in vari campi della fotografia (a lui si devono le prime foto in Europa prese da un pallone aerostatico e le prime esperienze con la luce elettrica nelle fogne di Parigi), raggiunse nel genere del ritratto i più alti livelli, non solo per il rigore tecnico e l'efficacia estetica delle immagini, ma anche per il loro accento psicologico; nel suo ricchissimo Panthéon fotografico Nadar raccolse il ritratto degli artisti e dei personaggi di maggior rilievo politico e culturale del suo tempo. Altra grande ritrattista fu l'inglese J.M. Cameron, che si dedicò alla fotografia in età già avanzata e che reagì alla piattezza del ritratto corrente con immagini di grande originalità, caratterizzate dall'uso sapiente del flou, cioè di una voluta, leggera sfocatura.
Iniziò nello stesso periodo la documentazione fotografica degli eventi bellici. Pioniere della fotografia di guerra fu R. Fenton, autore di un reportage di circa 300 lastre, realizzato nel 1855 durante la guerra di Crimea. Gli italiani F. e A. Beato nel 1858 documentarono la repressione di una rivolta a Lucknow in India e nel 1860 la guerra dell'oppio in Cina. Ma importante risultò soprattutto l'opera di M. Brady, organizzatore con il collega A. Gardner di un'équipe considerata la prima agenzia fotografica della storia, cui si devono le immagini della guerra di Secessione americana.
Si accendeva intanto il dibattito sul valore artistico della fotografia, stimolato dalla ricerca di una forma sempre più creativa. La fotografia artistica fu presentata con particolare efficacia da H.P. Robinson e O.G. Rejlander, ambedue ex pittori e capiscuola del movimento detto pittoricismo, che pensò di servirsi della fotografia come mezzo di espressione analogo alla pittura. Essi proposero una fotografia composita, ottenuta assemblando a mosaico varie immagini, dopo aver progettato la sintesi finale. L'opera di Robinson Fading away (1857) e quella di Rejlander Two paths of life (1858) furono considerate capolavori.
La diffusione di massa
Nel 1871 R. Maddox pubblicò il processo negativo alla gelatina-bromuro d'argento, più sensibile e facile da usare. Questa tecnica aprì le porte all'industrializzazione della fotografia e, come naturale conseguenza, alla sua diffusione capillare. Il fenomeno del dilettantismo di massa ricevette poi un ulteriore impulso nel 1888, quando G. Eastman, che nel 1880 aveva fondato a Rochester l'industria Kodak, mise in commercio, su suo brevetto, la prima macchina fotografica con pellicola in nitrato di cellulosa su rullo, con lo slogan "Voi premete il bottone, noi faremo il resto". Si assistette allora anche a una straordinaria fioritura di associazioni dilettantistiche (nella sola Inghilterra ne sorsero ben 256).
La semplificazione della tecnica fece sì che i giornali potessero arricchirsi sempre più di immagini, di cui divenne evidente il forte valore di immediata testimonianza. Il genere della fotografia documentaria, intesa come strumento di indagine sociale, che già si era espresso nel lavoro di J. Thomson dal titolo Street life of London (1877), si sviluppò soprattutto negli Stati Uniti - dove negli ultimi decenni dell'Ottocento stavano avvenendo profonde trasformazioni sociali, causate in gran parte dall'immigrazione proveniente dall'Europa - e vide fra i suoi protagonisti J.A. Riis: le sue opere, in particolare How the other half lives (1890), documentarono la vita nei quartieri malsani di New York dove erano relegati gli immigrati, con conseguenze sociali disastrose, e contribuirono largamente a richiamare l'attenzione delle autorità sulla gravità del problema. L'immigrazione e il lavoro minorile furono poi i temi preferiti anche di L.W. Hine. La fotografia di denuncia di Riis e di Hine si distingue chiaramente da quella che alcuni fotoamatori fin-de-siècle - perlopiù intellettuali benestanti e nobili, come in Italia il conte G. Primoli - praticarono lungo le strade di città e di campagna, alla ricerca di situazioni curiose, colte con la vivacità consentita da strumenti divenuti sempre più agili e versatili, ma scelte più per suggestioni letterarie che per fini documentari e sociologici.
Altri autori invece si orientavano verso la rigorosa applicazione della tecnica a vari settori scientifici, occupandosi soprattutto dello studio del molto piccolo e dell'analisi del movimento. In Italia si dedicarono con successo alla microfotografia, con cui si era già cimentato lo stesso Fox Talbot, G. Roster e F. Negri, che fu fra i primi a fotografare al microscopio, nel 1884, il bacillo di Koch. Negli studi sulla visualizzazione del movimento eccelse E. Muybridge che mediante l'automatic electro-photograph, in grado di ottenere immagini con la rapidità di un millesimo di secondo, riuscì a cogliere in fasi successive un cavallo al galoppo e portò poi a termine un'indagine approfondita sul movimento sia umano sia animale, che pubblicò nel 1887 con il titolo Animal locomotion. Ad analoghe ricerche si dedicò nello stesso periodo il fisiologo francese E.-J. Marey, inventore di un 'fucile fotografico', con cui poteva eseguire una sequenza di dodici immagini con una velocità di otturazione di 1/700 di secondo. Gli studi cronofotografici (in cui le fasi del moto erano fissate in sequenza su lastre diverse) e quelli stroboscopici (in cui le varie immagini risultavano sovrimpresse in una stessa lastra) furono fondamentali per l'invenzione del cinematografo.
Numerosi furono gli impieghi della fotografia anche in altri campi del sapere scientifico. Fin dal 1859 A. Laussedat l'aveva applicata alla topologia, istituendo la nuova disciplina della fotogrammetria, integratasi in seguito con la ripresa aerea. A. Bertillon e U. Ellero la usarono negli studi criminologici, costruendo anche specifici strumenti di ripresa per ottenere immagini segnaletiche. Analoghe ricerche, a fini antropologici, furono compiute da Ch. Darwin, che se ne servì per illustrare il suo saggio sulle espressioni nell'uomo e negli animali (1872). Ma l'applicazione scientifica più emblematica della tecnica fotografica fu, con l'impiego di radiazioni di lunghezza d'onda diversa da quella della luce visibile, la radiografia di W.K. Roentgen (1895).
La massificazione della fotografia, alla quale contribuì ulteriormente l'affermazione del primo processo a colori accessibile al grande pubblico, l'autochrome, messo a punto nel 1904 dai fratelli Lumière, determinò una reazione da parte di alcuni fotografi, impegnati nella ricerca di una definizione dell'estetica fotografica. Nel dibattito, contro l'imperante ossequio ai dettami del pittoricismo di H.P. Robinson, che si trovava allora all'apice della fama, intervenne P.H. Emerson, autore anche di importanti saggi come Naturalistic photography (1889) e fautore di una fotografia naturalistica, immune da manipolazioni. Emerson fra l'altro suggeriva, contrariamente al pregiudizio che voleva l'immagine tutta nitidamente a fuoco, la necessità di sfocare certe parti, proprio per far corrispondere la fotografia al modo di vedere fisiologico dell'occhio umano.
Nei primi decenni del 20° secolo, la problematica sullo 'specifico' del mezzo fotografico orientò l'opera e gli studi teorici di alcuni dei protagonisti della fotografia, primo fra tutti A. Stieglitz. Questi riprese le teorie di Emerson sulla fotografia naturalistica, proponendo di realizzarla in modo 'diretto', con l'utilizzo esclusivo dei mezzi tecnici specifici della fotografia stessa, e si fece sostenitore di istantanee dalla composizione rigorosa fondata sull'equilibrio di linee e luci, realizzate con procedimenti quali la stampa alla gomma bicromata o la stampa al platino. Insieme a Stieglitz fotografi come E. Steichen, C.H. White, G. Käsebier, diedero vita, a New York, nel 1902, al gruppo Photo-Secession e un anno dopo cominciarono a pubblicare le loro immagini sul trimestrale dal titolo Camera work. Stieglitz contribuì anche, come gallerista, alla conoscenza delle avanguardie artistiche.
In Europa analoghe ricerche estetiche furono compiute da A. Renger-Patzsch, da A. Sander e da L. Moholy-Nagy. Quest'ultimo, nella sua esplorazione delle possibilità espressive della fotografia, adottò anche nuove tecniche, come quella del fotogramm, un procedimento consistente nell'ottenere suggestive silhouettes senza l'uso della macchina fotografica, illuminando oggetti opachi o semitrasparenti posti su carta fotosensibile. Simili al fotogramm furono lo schadograph di Chr. Schad e il rayograph di Man Ray. Moholy-Nagy, inoltre, teorizzò in alcuni saggi la 'nuova visione' della fotografia, proponendo, come A.M. Rodcenko, un'insolita prospettiva dove la linea dell'orizzonte era in diagonale o riferita a inconsueti punti di osservazione, dal basso o dall'alto.
Altri esponenti della sperimentazione fotografica d'avanguardia furono A. Langdon-Coburn che, partendo dalla prospettiva forzata delle inquadrature realizzate nel 1912 dall'alto dei grattacieli newyorkesi, approdò successivamente alle vortografie - immagini astratte realizzate con l'uso di prismi -, e P. Strand, che con la sua ricerca di un estremo rigore formale, riscontrabile nelle composizioni astratte o nei particolari di manufatti industriali, contribuì a diffondere l'idea di una fotografia 'pura' e di un realismo che, escludendo qualsiasi manipolazione, si basava unicamente sulle proprietà tecniche dell'apparecchio e dell'emulsione sensibile. A questa idea di fotografia vanno ricondotte, negli Stati Uniti, le opere di E. Weston, I. Cunningham e A.E. Adams, autori di immagini in cui la sapienza tecnica permetteva di cogliere con straordinaria nitidezza le forme del reale.
In Italia si segnala la sperimentazione del fotodinamismo di Anton Giulio e Arturo Bragaglia, che tra il 1911 e il 1913 realizzarono una serie di immagini in cui tendevano a visualizzare per la prima volta nella storia della fotografia un concetto ideale piuttosto che la fisionomia di un soggetto: in questo caso l'idea del movimento dei corpi, che esprimevano fissando non l'istantanea ma la traiettoria compiuta durante l'azione.
Fotografia oggettiva e soggettiva
Gli apparecchi di piccolo formato - in particolare la Leica, progettata nel 1914 da O. Barnack come strumento di prova per le pellicole cinematografiche e commercializzata nel 1923 dalla Leitz di Wetzlar, che utilizzava la pellicola perforata di 35 mm - permisero ai fotografi di muoversi più agilmente e realizzare reportage di grande vivacità. Anche grazie a questa enormemente accresciuta facilità di impiego, la fotografia si affermò come mezzo di comunicazione di massa. Nacquero giornali illustrati di grande diffusione, come i tedeschi Berliner illustrierte Zeitung e Münchner illustrierte Zeitung, il francese Vu, l'inglese Picture post, gli italiani L'illustrazione italiana, Omnibus e Tempo, e soprattutto l'americano Life, fondato nel 1936 da H. Luce. In questi periodici la fotografia sostituiva lo scritto, imponendosi in forza della sua immediatezza e credibilità. Pioniere del fotogiornalismo fu E. Salomon ('il re degli indiscreti'), seguito poi da altri fotoreporter come F. Man, A. Feininger, M. Bourke-White, B. Brandt, A. Eisenstaedt, F. Patellani e R. Capa. Riemergeva intanto, dove era possibile compiere una libera analisi dell'ambiente, la fotografia sociologica. A Parigi, negli anni Venti, E. Atget aveva portato avanti un'opera sistematica di riprese della vita e degli aspetti quotidiani della Parigi minore, al di fuori della retorica monumentalità che era stata alla base dell'iconografia fotografica ottocentesca. Negli Stati Uniti, nel periodo della depressione, per conto del Congresso fu organizzata, nell'ambito della Farm security administration, un'équipe di fotografi, con lo scopo di avviare una sorta di censimento visivo delle condizioni umane e naturali delle regioni colpite dalla crisi economica. Le immagini realizzate da A. Rothstein, D. Lange, B. Shan, R. Lee, C. Mydans e soprattutto W. Evans, segnarono una svolta importante nella foto documentaristica. Evans, profondo sostenitore del realismo fotografico, considerava l'immagine, al contempo, documento e oggetto estetico. In tal senso, portò alle estreme conseguenze la descrizione degli spazi della realtà quotidiana, già iniziata da Atget, e il ritrattismo documentaristico di A. Sander, influenzando in modo decisivo una folta schiera di fotografi tra cui D. Arbus, R. Frank, L. Friedlander, G. Winogrand.
Le immagini realizzate in Spagna da Capa durante la guerra civile, da A. Eisenstaed in Abissinia, da Brandt a Londra durante il bombardamento a opera dei nazisti, sono paradigmatiche di un fotogiornalismo di guerra che ebbe la sua massima espressione nell'opera di fotografi come D. Baltermants, M. Bourke White, Y. Khaldey, C. Mydans, G. Rodger, E.W. Smith, e che, nell'estrema partecipazione al dolore e alle sofferenze delle vittime di tutte le guerre, ha condizionato l'opera di numerosi fotoreporter segnandone, talvolta, il destino (paradigmatico il caso di Capa, che si qualificò come il maggior fotografo di tutti gli eventi bellici fino alla guerra in Indocina del 1954, dove trovò la morte).
Nel dopoguerra, l'idea del reportage inteso come saggio fotografico divenne predominante e, parimenti, assunsero sempre maggiore importanza le agenzie fotografiche. Tra tutte, si distinse la Magnum Photo, fondata nel 1947 da R. Capa, H. Cartier-Bresson, G. Rodger, D. 'Chim' Seymour e W. Vandivert. I fotografi che, a mano a mano, entrarono a farne parte, erano tutti animati dal desiderio di coniugare immagini fotogiornalistiche e documentarismo sociale. Tra loro, alcuni privilegiarono la composizione ed esaltarono lo specifico fotografico, come W. Bishof, R. Burri e M. Riboud, dimostrandosi manifestamente vicini all'impostazione che aveva avuto tra i suoi maggiori esponenti lo stesso Cartier-Bresson; altri, come R. Cagnoni, L. Freed, D. McCullin e più recentemente R. Depardon, G. Peress, S. Salgado, e R. Rai, hanno evidenziato, riallacciandosi al documentarismo sociale delle origini e portandolo alle sue estreme conseguenze, le potenzialità della fotografia nel denunciare accadimenti e situazioni.
Di contro alla fotografia oggettiva, propria del fotodocumentarismo, altri autori sostennero invece la validità di una fotografia fortemente soggettiva, in cui emergessero la personalità del fotografo e la sua estetica. Così in Germania O. Steinert propose, con il gruppo Fotoform (1949) e l'iniziativa editoriale ed espositiva di Subjective fotografie (1952), una fotografia intesa soprattutto come mezzo espressivo e creativo. Sulla stessa linea si pose, alcuni anni dopo, W. Klein con una fotografia energicamente chiaroscurata e sgranata accostata secondo gli schemi della sceneggiatura cinematografica, di cui è espressione compiuta il fotolibro su New York (1956).
Anche in Italia, dopo un periodo di stasi durante il fascismo (allora i fermenti di una fotografia creativa furono rari e affidati a singole iniziative, come quelle di G. Pagano o di L. Veronesi), alcuni autori come V. Balocchi, M. Bellavista, G. Cavalli, F. Vender e altri si proposero di compiere una ricerca sul linguaggio fotografico, sottraendolo sia all'artigianato sia al fotogiornalismo documentario, per evidenziarne particolarmente i valori estetici. In seguito, fu soprattutto U. Mulas, con la sua serie di Verifiche (1972-73), a demitizzare la retorica del documentarismo fotografico, suggerendo nuove esplorazioni espressive, legittimate anche dalla contemporanea massificazione della televisione come mezzo d'informazione, che sembrava liberare la fotografia da questo compito, così come essa aveva fatto cento anni prima nei confronti della pittura.
La fine del 20° secolo
Negli ultimi decenni del 20° secolo, la fotografia ha assistito a una sempre più marcata specializzazione nei generi della pubblicità, della moda, dell'architettura, del paesaggio geografico, aprendo così nuovi mercati alternativi a quello dell'informazione, rimasta condizionata invece dalla simultaneità della veicolazione e dalla diretta penetrazione casalinga del medium televisivo. In questi settori sono emersi autori come R. Avedon, C. Beaton, S. Moon, B. Morgan, H. Newton, D. Bailey, O. Toscani.
Nel campo della fotografia artistica, si è assistito al proliferare di generi e tendenze aventi come tratto distintivo prevalente un processo di 'concettualizzazione' della fotografia. Devono essere ricordate in tal senso le ricerche sul paesaggio inteso come spazio artistico, di cui sono esempio i lavori sul colore di F. Fontana e del giapponese H. Hamaya, l'analisi distaccata della scena americana proposta da W. Eggleston, J. Meyerowitz, S. Shore, gli spazi metafisici creati da R. Misrach. L'attenzione stessa per l'oggetto fotografato si è trasformata, sempre più consciamente, in riflessione sulla forma attribuita all'oggetto stesso, prima dal fotografo e poi dallo spettatore-lettore. La fotografia si è dimostrata sempre più incline ad accreditare soggetti volti a rafforzare la dimensione espressiva dell'autore; così avviene per le sequenze, spesso accompagnate da un testo, di D. Michals, per le composizioni neoclassicheggianti di R. Mapplethorpe, per i set di ispirazione surrealista di S. Skoglund, per le realizzazioni grottesche di C. Sherman o per le immagini di W. Wegman che hanno come unico protagonista il cane dell'autore.
Nel fotoreportage, in maniera analoga, si è assistito all'affermazione, sempre più vistosa, di una tendenza degli autori a prediligere l'immagine d'effetto, in cui persino l''orrore', come nei lavori di J. Nachtwey, diviene sopportabile in quanto mediato.
Peraltro la fotografia, rivalutata dalle avanguardie storiche e acquisita come medium artistico a tutti gli effetti a partire dagli anni Sessanta, con i lavori di R. Rauschenberg e A. Warhol, è diventata per molti artisti uno strumento che, esponendo in modo radicale la propria natura 'di confine', permette di investigare sui meccanismi della creazione artistica, come accade nelle opere dello statunitense J. Baldessari. Entro tale orizzonte, se le scomposizioni operate da C. Close e i 'mosaici' di polaroid realizzati da D. Hockney hanno permesso di far riferimento alla fotografia non più solo come indice della realtà ma anche come chiara allusione alla potenzialità della percezione artistica, le immagini che hanno per soggetto installazioni, performance e happening prodotti da Christo, Y. Klein, C. Boltansky o da esponenti della body art, della land art e di altre espressioni della cosiddetta arte concettuale, connotano la fotografia come unica traccia superstite a memoria dell'operato dell'artista.