fotografia
fotografìa s. f. – Nei primi anni del nuovo millennio la f. – partecipe in ciò di tendenze più ampie, comuni a tutti i fenomeni della contemporaneità – sembra connotarsi anzitutto come un campo di questioni complesso e frammentato: un insieme di forme interconnesse e talvolta contraddittorie, segnato dalla rivoluzione tecnologica inaugurata dall'avvento del digitale. Si è qui deciso di presentare i principali temi di ordine generale che attraversano il dibattito critico della prima decade del 21° sec., delegando a ulteriori approfondimenti, di volta in volta segnalati, l’illustrazione di casi e problemi più specifici.
Generi. – Le novità tecnologiche hanno contribuito a mutare le tradizionali distinzioni tra i generi fotografici. Con alcune fotocamere, per es., è ormai possibile realizzare riprese video in alta definizione e ciò ha rapidamente determinato l’adozione di questi mezzi soprattutto nelle forme audiovisive brevi, come la pubblicità o il videoclip, e nel fotogiornalismo (v.), pratica visuale e forma comunicativa sempre più multimediale. Sotto questo aspetto la f., perlomeno in alcuni suoi campi di applicazione (oltre al reportage, per es., la moda e l’advertising), si sta fortemente integrando con altri generi di produzione visiva (video, animazione, grafica, ecc.), recuperando o adattando al nuovo contesto tecnologico una serie di procedimenti assai diversificati (stop motion, light painting, chroma key, ecc.) che oggi in sostanza vanno a confluire in quell’insieme di operazioni tecniche e strumenti informatici comunemente definito digital compositing. Sul versante degli usi storici della f. si è molto discusso intorno all’idea di una crisi dei generi classici. Molti autori sostengono che i generi tradizionali (paesaggio, ritratto, nudo, natura morta, ecc.) si sono ormai dissolti in una pluralità di forme 'aperte', flessibili e intermediali. Il problema è probabilmente più complesso, visto che non tutti i generi classici hanno perso rilievo (il ritratto e l’autoritratto, per es., hanno avuto in questi anni un notevolissimo sviluppo, tanto nelle pratiche artistiche quanto negli usi sociali del medium, specie sui molti social network proliferati in rete); taluni permangono sostanzialmente immutati (gli utilizzi tradizionali, turistici e familiari o la fotografia di documentazione in ambito storico, sociologico, antropologico); altri sembrano per certi versi mescolarsi o cercare soluzioni di compromesso. Ciò accade in particolare nei contesti più evoluti del reportage, della f. concettuale e sperimentale (esemplare in tal senso la figura di Joan Fontcuberta, v.) e di quella paesaggistica e architettonica, che spesso hanno operato sinergicamente, forzando i tradizionali limiti dei propri ambiti espressivi. Joel Meyerowitz (n. New York 1938), per es., ha dedicato alla tragedia dell’11 settembre 2001 (v.) il volume Aftermath: world trade center archive (2006), un progetto che opera in un territorio intermedio tra i modelli del reportage, della veduta e dell’archivio storico, registrando i processi di elaborazione del lutto, della memoria e dell’identità nazionale. Il tema dell’identità, nelle sue molteplici sfaccettature, attraversa in effetti buona parte delle ricerche contemporanee, contribuendo a ridefinire prassi operative e schemi di genere della fotografia. Nell’ambito del ritratto, per es., Rineke Dijkstra fa emergere attraverso la posa, spesso misteriosamente sospesa, ed enfatizzando la relazione tra fotografo e soggetto fotografato, le molteplici forme di autocoscienza e costruzione del sé espresse da soggetti che vengono osservati in rapporto al loro ruolo generazionale, sociale o sessuale. Se insomma è lecito parlare di una fase di declino o stagnazione dei modelli tradizionali, parallelamente si assiste allo svecchiamento di alcune forme classiche e alla ripresa di numerosi procedimenti arcaici. Molti autori contemporanei si collocano su questa linea di ricerca, che procede nella direzione di una sorta di 'archeologia del vedere', nel suo radicarsi profondamente alle intrinseche limitazioni tecniche dei processi fotografici storici. Tra essi, per es., Christopher Thomas, che utilizza il grande formato e il materiale Polaroid, rifacendosi all’iconografia della veduta topografica ottocentesca, per rappresentare alcune città europee e americane; o Michael Wesely, che fotografa anch’esso aree urbane in lenta trasformazione (ma anche nature morte e interni) posizionando grandi scatole ottiche sulle pareti dei palazzi circostanti i luoghi che fotografa e adottando una serie di accorgimenti allo scopo di prolungare enormemente l’esposizione: ottiene così tempi di posa che possono superare i tre anni, ed effetti che ricordano le vedute dei primordi della fotografia. Nell’ambito della staged photography (v.) – nuovo genere fortemente imparentato con la f. pittorica del 19° sec. e considerato per molti versi l’epitome del postmodernismo in f. – autori come Sandy Skoglund o Gregory Crewdson hanno proseguito le loro ricerche ormai trentennali sui confini tra realtà e finzione. Sul versante opposto, di una f. che affonda le sue radici nelle pratiche delle origini e del modernismo novecentesco, autori come Paolo Gioli o Miroslav Tichý – attivi da decenni ma scoperti dalla critica solo con l’emergere di un nutrito dibattito sulla f. come arte contemporanea (v.) – si sono rivelati antesignani di un approccio filosofico, radicalmente antitecnologico e non convenzionale al medium fotografico e ai suoi linguaggi.
Icone. – Quanto accade sul piano degli equilibri interni ai diversi generi fotografici sembra trovare un corrispettivo negli orientamenti globali della f. in questa fase storica, tanto al livello dei suoi processi creativi e immaginativi, quanto delle sue più diffuse modalità di fruizione. All’incirca a partire dall’ultimo ventennio del Novecento, la storia della f. comincia a essere considerata da molti fotografi, e fruita da una larga fascia di pubblico, alla stregua di un grande repertorio di immagini cui attingere. Nei suoi diversi ambiti di produzione, talune icone sembrano ripetersi e rispondersi, passando attraverso molteplici stili, modalità comunicative, ideologie. Numerosi critici hanno sottolineato come un simile fenomeno tenda per un verso a omologare e banalizzare l’immagine fotografica, offuscandone l’unicità, il valore di testimonianza e la dimensione propriamente storica; per un altro a produrre ogni sorta di anacronismo, migrazione, sovrapposizione tra diverse modalità temporali (arcaiche/moderne, reazionarie/progressiste, ecc.) e tra forme estetiche un tempo del tutto inconciliabili (elitarie/popolari, fotografiche/artistiche, ecc.). Nel saggio Regarding the pain of others (2003), Susan Sontag ha sottolineato come la familiarità con alcune fotografie tenda ormai a «plasmare la nostra conoscenza del presente e del passato, tracciando percorsi di riferimento che incapsulano idee condivise e innescano pensieri e sentimenti facilmente prevedibili». Altri studiosi mettono in risalto la nuova dimensione immateriale e quasi a-temporale della f. a seguito della rivoluzione digitale (che, mutando lo statuto semiotico del medium, ne avrebbe di conseguenza anche assimilato le funzioni a un sistema di simulacri interscambiabili). Ciò accadrebbe in particolar modo laddove essa è stata assorbita dalle logiche della 'società dello spettacolo', della comunicazione televisiva, del web. Nell’ambito della f. di moda e pubblicitaria, anche in autori molto innovativi quali Erwin Olaf e David LaChapelle, si possono riscontrare frequenti citazioni o rielaborazioni di icone del passato, perlopiù appartenenti alla cultura pop. Molto diffusa è poi l’adozione – riconducibile alla più ampia nozione di vintage (v.) – di immaginari e stili di ripresa desueti: è forse questo il tratto più caratteristico della cultura fotografica mainstream dell’ultimo decennio. Nonostante le generalizzazioni, però, la situazione attuale appare caratterizzata da fenomeni ambivalenti, difficilmente riconducibili a una formula univoca. Al di là della dimensione sociale più conformista e omologante di questa tendenza, facilmente riscontrabile negli stereotipi della pubblicità e dei mass media, la f. più impegnata sul versante della ricerca estetica e della testimonianza etica si è spesso alimentata di tali contraddizioni, sfruttando l’immediata riconoscibilità iconica di talune immagini per suscitare nel pubblico reazioni emotive o proporre riflessioni sulla realtà contemporanea più complesse e incisive rispetto a quelle diffuse dai grandi network dell’informazione. In tal senso, dopo le sperimentazioni tardo-novecentesche di autori quali Richard Prince, Yasumasa Morimura, Cindy Sherman, Tracey Moffatt, sono innumerevoli le recenti operazioni imperniate sulla citazione o rielaborazione di storiche icone artistiche e fotografiche, che vengono così decontestualizzate e rese funzionali all’analisi di fenomeni e problemi attuali. Per es. Paul Seawright introduce nel racconto del conflitto bellico esploso all'inizio del nuovo millennio in Afghanistan, riferimenti alle rappresentazioni delle guerre coloniali ottocentesche; Adi Nes re-interpreta alcune fotografie di reportage, nonché l’iconografia cristiana rinascimentale e barocca – in particolare, tra il 2003 e il 2009, i miti e le figure della Bibbia – all’interno di una complessa analisi dell’identità culturale e politica israeliana; l’artista femminista Jemima Stehli si autorappresenta 'appropriandosi' di diverse immagini preesistenti (per es. le fotografie di Helmut Newton), rispetto alle quali pone in evidenza i meccanismi di costruzione dello spettatore e la relazione tra sguardo maschile e corpo femminile; Michael Somoroff spinge fino al paradosso un simile procedimento e realizza, nel 2007, una serie di immagini intitolata The absence of subject, ottenuta eliminando digitalmente le figure umane da alcuni notissimi ritratti realizzati da August Sander tra gli anni Venti e i Quaranta del Novecento. Una tendenza per certi versi analoga si può riscontrare nel reportage, dove, in particolare dopo l’11 settembre 2001 (si veda a riguardo lo studio pubblicato da Clément Chéroux nel 2009) si è determinata una forte standardizzazione dei soggetti – dovuta anche alla riorganizzazione della distribuzione all’interno di un sistema di agenzie fotografiche sempre più monopolistico e globalizzato – e il frequente ricorso da parte dei fotografi a clichés facilmente riconoscibili (un caso tipico è quello del celebre ritratto dell’anonima bambina afgana fotografata da Steve McCurry nel 1985, poi ritrovata e ritratta di nuovo nel 2002) e all’iconografia religiosa (tra i molti esempi possibili, è almeno il caso di segnalare la produzione di un autore fortemente impegnato quale James Nachtwey, già attivo da molti anni, e i numerosi reportage di guerra premiati nelle recenti edizioni del World Press Photo).
Cultura fotografica. – Il concetto di cultura fotografica, che ha iniziato a essere definito qualche decennio fa, non ha ancora trovato un’accezione condivisa e oscilla tra un’idea elitaria e 'alta' di conoscenza della f. e un’idea più ampia di cultura in senso antropologico. Da un lato dunque si fa riferimento alla produzione degli autori e agli stili e al loro ruolo nei diversi contesti culturali, dall’altro all’impatto e alle funzioni della f. nella società. È stato Max Kozloff alla fine degli anni Settanta del Novecento a indicare nuove direzioni, suggerendo di approfondire i legami tra società e f., e quindi la produzione di immagini, la loro fruizione, i rituali connessi e i significati simbolici che in diversi ambiti vengono attribuiti all’immagine ottica. Da allora solo alcuni studiosi hanno seguito questi percorsi di ricerca. Di fronte al moltiplicarsi degli stimoli visivi nell’età contemporanea tuttavia, tra il 20° e il 21° sec. le scienze sociali e umane hanno sviluppato un nuovo interesse per le immagini (non più solo analizzate attraverso modelli euristici di origine linguistica), facendo spesso della fotografia un oggetto di studio privilegiato. Un contributo importante lo hanno fornito i Cultural studies; i Visual studies, in particolare, hanno rivolto la loro attenzione non semplicemente alle immagini in sé, ma alle modalità di rappresentazione dominanti e anche a quelle minoritarie e marginali. Anche l’immagine fotografica dunque viene ora analizzata nelle sua pratiche di fruzione e nelle istituzioni in cui tali pratiche si radicano o mutano, come la famiglia. Da Stuart Hall a Nicholas Mirzoeff, da Richard Howell a Gillian Rose, gli studi sono numerosi. L’esplosione del digitale e dei social network nel nuovo secolo apre poi ulteriori campi di indagine. Ma anche la cultura fotografica espressa dagli studiosi e dai produttori deputati ha dovuto confrontarsi con le novità: si assiste allora alla 'scoperta' di produzioni nazionali prima sconosciute, allo sviluppo degli insegnamenti accademici, di festival e di iniziative editoriali, alla sempre più significativa presenza della f. in contesti museali o sui media. In termini di cultura fotografica inoltre sarà in prospettiva utile ripensare, in modo nuovo, l’antica questione del rapporto della f. con l’arte, in considerazione del fatto che il confine tra artisti-fotografi e fotografi-artisti si è assottigliato fin quasi a scomparire.
Storia e storie. – Solo da pochi anni la storiografia fotografica ha iniziato a emanciparsi da un’idea di f. nata negli anni Trenta del Novecento per iniziativa di Beaumont Newhall, il curatore del Museum of modern art di New York, che considerava l’immagine ottica come un oggetto d’arte e la sua storia come una sequenza di invenzioni stilistiche condizionate dalle novità tecnologiche, un modello talmente tenace da influenzare anche le numerose collezioni museali nate nel corso del secolo. Questo approccio, oltre a ignorare le fotografie a cui non fosse riconosciuto un valore estetico, escludeva l’analisi dei contenuti, degli usi e della diffusione e fruizione delle immagini. Solo alla fine del 20° sec. si iniziano a delineare due tendenze: un’attenzione alle vicende fotografiche di paesi non appartenenti al mondo 'sviluppato' (Europa e Nord America) e l’approfondimento, nello studio della storia del mezzo, anche degli aspetti socio-culturali. A partire soprattutto dagli studi di Michel Frizot (1994) si può dire che la storiografia abbia inziato a considerare 'le fotografie' piuttosto che 'la fotografia', ad affiancare allo studio delle opere dei grandi autori la produzione corrente e le sue diverse motivazioni. Prima di questa svolta, la fortuna del modello teorico autoriale – alla quale non è stata probabilmente estranea la più che secolare e diffusa diffidenza verso l’artisticità della f. – ha impedito che la disciplina sviluppasse un aperto dibattito sui suoi obiettivi. A questo si è aggiunto un ostacolo ulteriore: se la disponibilità delle fonti è in grado di condizionare la storiografia tout court, lo stesso è avvenuto per la storiografia fotografica, che ha potuto contare a lungo solo sulle collezioni disponibili di singole nazioni (per lo più occidentali) che hanno finito per indirizzare la scelta delle priorità anche nella narrazioni storica. La complessità teorica ed estetica del documento fotografico rende ancora oggi arduo il passaggio da un’impostazione aneddotica e biografica a una che tenga conto ad esempio della stimolante categoria di cultura fotografica, in cui sono implicati concetti come la mentalità, l’identità, il potere e così via. Sono sempre più numerosi gli studiosi che si cimentano con l’analisi dei committenti e non solo dei produttori di immagini, con la percezione di queste, con i condizionamenti di tenaci ideologie fotografiche o semplicemente con autori e studi fotografici minori. Ci si è iniziato inoltre a chiedere se la storia della f. debba essere studiata come disciplina autonoma oppure se sia più produttivo metterla in relazione di volta in volta con altri ambiti in cui essa ha avuto un ruolo specifico (pubblicità, giornalismo, antropologia, arte, ecc.). Il dibattito è dunque aperto e questo anche per via di alcune non del tutto risolte questioni metodologiche, come la necessità di coniugare la storia dell’estetica fotografica con una storia sociale del mezzo e dei suoi usi. Ma proprio in una nuova prospettiva epistemologica risultano allora stimolanti le suggestioni che provengono da studi specifici e settoriali (Liz Wells, Oliver Lugon) utili a orientare la riflessione sull’intera disciplina. Negli anni intorno al passaggio del secolo infine sono comparse diverse storie fotografiche di aree geografiche e singoli paesi (spesso ex coloniali, ma non solo) che svilupparono una propria cultura fotografica a partire dai primi contatti con quella europea, alcune delle quali hanno saputo superare i vincoli dell‘impostazione tradizionale (Mette Sandbye, Peter Larsen, Sigrid Lien); va però ricordato che una parte significativa delle storie generali della f. tende spesso ancora a ignorare – e non solo per mancanza di fonti e studi specifici – le vicende di paesi periferici rispetto a quelli occidentali, privilegiando, nella narrazione, la cultura di provenienza.