FOTOGRAFIA
(XV, p. 782; App. II, I, p. 963; III, I, p. 663; IV, I, p. 842)
Storia della fotografia. - La storia della cultura di questi ultimi centocinquant'anni è connotata dalla coinvolgente presenza della f., come scienza e come arte, nei settori più diversi, dove è stata applicata fin dall'anno della sua invenzione. Questa risale ufficialmente al 7 gennaio 1839, ma ha una lunga preistoria, idealmente iniziata nel momento stesso in cui l'uomo si è accorto della sua ombra, o si è specchiato, come Narciso, nell'acqua di uno stagno. Durante l'evoluzione culturale, l'uomo ha preso via via coscienza dell'immagine della realtà, che lo sguardo all'inizio aveva affidato alla memoria, e quindi a segni grafici sempre più complessi e verosimiglianti, che rispecchiano l'esigenza di fissare in permanenza la configurazione delle immagini percepite. Dai graffiti delle caverne dell'uomo preistorico probabilmente inizia anche la storia della f., che ha così radicalmente segnato la cultura della nostra epoca, definita retoricamente ''era dell'immagine''.
Con l'evolversi dei moderni processi di comunicazione, accelerati già alla fine del Settecento dalla rivoluzione politica e industriale, la f. ha trovato nel 19° secolo una sua definitiva giustificazione, come mezzo di documentazione e al tempo stesso d'informazione sempre più ampia e persuasiva, che si pretende universale, quasi si trattasse di un linguaggio privo delle barriere linguistiche tradizionali. Ma la sua lettura, e non soltanto la sua realizzazione, apparentemente immediata e neutrale, è invece inevitabilmente orientata dalla cultura e dall'ideologia del fruitore, più o meno in grado di riconoscere sia il soggetto che i suoi significati. La f., comunque, si è precisata, fin dall'inizio, come una tecnica capace di fissare permanentemente nella memoria un'immagine ''obiettiva'', e comunque estremamente verosimile della realtà, senza che per ciò fosse necessario l'intervento diretto, manuale, in apparenza più manipolatorio, dell'uomo. "Una veduta qualunque, un paesaggio, un ritratto − informava un cronista della Gazzetta privilegiata di Milano, pochi giorni dopo l'annuncio dell'invenzione di Daguerre, dato all'Accademia delle Scienze di Parigi il 7 gennaio 1839 − si possono ottenere in pochi minuti senza il concorso dell'artista, e con una verità (meno nel colore) che l'arte non può ottenere; questo è il disegno il più perfetto".
Una tecnica magica, ad alta fedeltà, che è già stupefacente tecnologia, coinvolgendo settori scientifici diversi, la chimica e la fisica, risolvendo nella pratica osservazioni antiche, che soltanto allora vengono connesse tra di loro e perfezionate. Nel suo divenire storico, la f. è stata quindi ideologicamente indirizzata soprattutto a ottenere una sempre più sorprendente riproduzione del vero, quasi nell'intento di costituire un cosmo iconico, ossia fotografico, parallelo a quello reale, come sembra ipotizzare, per es., la più avanzata attuale ricerca sull'olografia, che propone immagini di un realismo tridimensionale talmente ingannevole, da offrire in apparenza il ''doppio'' della realtà stessa, escludendo soltanto la sua tattilità.
L'intero arco storico della f. appare d'altronde connotato dall'anelito a raggiungere una verosimiglianza totale, che le varie tecniche hanno insistentemente tentato di ottenere, nonostante le limitazioni, via via superate mediante appropriati perfezionamenti, sia nel settore dei materiali fotosensibili, che in quello degli strumenti ottici.
Dalle immagini baluginanti dei daguerréotypes (lastrine di rame placcato d'argento, sensibilizzate dai vapori dello iodio e rivelate dai vapori di mercurio, nell'invenzione di L.-J.-M. Daguerre), che sono in bianco-nero, come d'altronde i primi photogenic drawings (1839) e i calotypes (1841) di W. H. F. Talbot (immagini registrate in negativo, su un supporto di comune carta da lettere, sensibilizzata, nelle prime prove, con cloruro di sodio e nitrato d'argento), si passò, mediante innumerevoli perfezionamenti, a una tecnica, quella del collodio, che rese vincente il procedimento di Talbot del negativo-positivo, favorita rispetto al dagherrotipo, che era invece in copia unica, anche dalla maggiore nitidezza di dettagli e dalla più elevata sensibilità raggiunta. Ciò si ottenne utilizzando, come supporto, il vetro anziché la carta, che lasciava sulle copie positive la traccia delle sue fibre; sul vetro veniva distesa una nuova emulsione fotosensibile, che vi aderiva, formata da un miscuglio di collodio (nitrocellulosa, alcool ed etere) con un sale d'argento e sviluppando, dopo l'esposizione, con acido pirogallico; il fissaggio avveniva, come per le altre tecniche, con iposolfito di sodio, suggerito da J. Herschel, uno dei padri della fotografia.
Con le tecniche, prima dell'albumina (A. Niepce de Saint-Victor, nel 1849), poi del collodio umido (sperimentata da G. Le Gray e da F. Scott-Archer, tra il 1849 e il 1851, questa emulsione consente una maggiore istantaneità, specie se viene utilizzata prima della sua naturale essiccazione), si chiude quella che, per la f., è l'''era delle origini'', comprendente la fase del dagherrotipo e del calotipo (1839-51). Si apre così quella sfolgorante del collodio, durante la quale la f. definisce il suo ruolo e la sua importanza soprattutto come mezzo di riproduzione e di veicolazione delle immagini, superando le iniziali incertezze descrittive e facendo decollare anche il suo mercato, soprattutto nel settore della riproduzione d'arte, dell'architettura e del ritratto, che sono stati i generi di maggior successo nella seconda metà del 19° secolo. Quest'epoca durò circa trent'anni, durante i quali fiorirono i grandi ateliers come quelli di Nadar, A.-A. Disdéri, A. Salamon, P. Petit, a Parigi, o degli Alinari e dei Brogi a Firenze, di M. Brady a New York, di F. Beato a Tokio, che si specializzarono, i primi nel ritratto, gli altri nella riproduzione d'arte, nel paesaggio e nella scena di genere, assecondando, per questi ultimi settori, soprattutto le richieste degli studiosi e dei primi elitari turisti; questi potevano così finalmente raccogliere nei loro album le prodigiose immagini fotografiche dei luoghi e delle opere, che ora potevano ammirare in fac-simile sempre più fedeli e rigorosi, come quelli proposti dai primi cataloghi sistematici di fotografia. Nel frattempo s'intensificavano le ricerche per ottenere f. a colori naturali diretti, ossia riprese con un unico scatto dell'otturatore e non per successivi filtraggi tricromici. Per questo si dovranno attendere alcuni ulteriori perfezionamenti che si avviano negli anni Settanta del 19° secolo, quando alla tecnica del collodio (anche nella versione ''secca'', del procedimento Taupenot) si sostituisce quella alla gelatina-bromuro d'argento, un'emulsione che alcuni studiosi (H. Vogel, J. M. Eder, G. Pizzighelli), anche mediante l'aggiunta di coloranti, erano riusciti a rendere ortocromatica, ossia abbastanza sensibile alla parte rossa dello spettro visibile; in tal modo si era riusciti ad attenuare l'alta attinicità, che invece le emulsioni fotosensibili presentavano naturalmente per la luce azzurra e viola. La conseguenza fu una resa tonale del bianco-nero notevolmente migliore, in quanto i colori del soggetto apparivano trascritti in modo più equilibrato nei toni grigi dell'immagine fotografica; ciò risultò particolarmente importante soprattutto per la riproduzione d'arte, in quanto ne perfezionava il codice di trascrizione, e offriva contemporaneamente ulteriori illusioni di documentarietà ''obiettiva'' della fotografia. Documentarietà che andava considerata piuttosto come una ''traduzione'' che non una riproduzione, superando cioè la suggestione della sua apparente, ma ingannevole verosimiglianza, che ha lungamente fatto sì che la f. fosse considerata un prodotto meramente meccanico.
Alludendo alle intenzioni artistiche di alcuni fotografi, Baudelaire durante il Salon parigino del 1859 affermava che la f. doveva ritornare "al suo vero compito, che è quello di essere la serva delle scienze e delle arti, ma la più umile serva, come la stampa e la stenografia, che non hanno né creato né sostituito la letteratura" (Ch. Baudelaire, Le public moderne et la photographie, in Curiosités esthétiques et autres écrits sur l'art, Parigi 1980, p. 159).
L'invettiva lanciata da Baudelaire appare rappresentare emblematicamente questo concetto di f., intesa come riproduzione pressoché automatica della realtà, quasi non esistesse l'autore, il fotografo, con una sua identità culturale e ideologica, destinata inevitabilmente a connotare l'immagine, dalla scelta del soggetto a quella dell'inquadratura, del punto di vista, dell'attimo della ripresa, del processo fotochimico, e infine della sua veicolazione, anche diacronica, mediante i vari canali della comunicazione visiva.
La f., nel divenire della sua tecnica, in continuo perfezionamento, sempre però ai fini di un'alta fedeltà di riproduzione, dimostrò ben presto le sue qualità di medium affidate a un'elevata, inarrivabile ricchezza di ''verosimili'' informazioni riguardo al soggetto dell'immagine; al tempo stesso questa precisò la sua identità estetica, avviando un acceso dibattito sulle capacità creative del fotografo, in particolar modo nei decenni a cavallo tra il 19° e il 20° secolo, durante un periodo che possiamo definire l'''era della massificazione'', iniziata verso il 1880, mentre stava prevalendo, su quella al collodio, la tecnica alla gelatina-bromuro d'argento.
Mediante questa tecnica si semplificò il procedimento fotochimico, sia durante la ripresa che in laboratorio, e nel contempo si perfezionarono e si miniaturizzarono anche gli strumenti di ripresa, sempre più leggeri, agili e precisi; due studiosi inglesi, F. Hürter e V. Ch. Driffield, con i loro studi sull'immagine latente e sulla sensitometria (1890), definirono una formula per lo sviluppo delle lastre, stabilendo una scala sistematica di valori che ora anche un dilettante è in grado di seguire con buoni risultati.
L'incremento del numero dei fotografi dilettanti, sempre però negli strati socio-culturali più alti, si verificò anche perché gli appassionati, che consideravano oltretutto questa moderna pratica uno status-symbol, erano favoriti dalla nascente industria del settore, di cui divenne emblematica un'industria americana, la Kodak, fondata a Rochester da G. Eastman nel 1880; in Europa si dedicarono a questo settore produttivo su scala industriale soprattutto i fratelli A. e L. Lumière, di Lione, anche mediante una tenace ricerca per migliorare, semplificare e far quindi avanzare, a livello sempre più popolare, questo nuovo settore tecnologico; un'ulteriore affermazione si ebbe nel 1895, quando si confermò praticamente la possibilità di animare la f. con il cinématographe, che i Lumière realizzarono in concomitanza con analoghe invenzioni e studi, come quelli del francese E.J. Marey e dell'americano Th. A. Edison.
Negli ultimi decenni del 19° secolo la ricerca fotografica si sviluppò ulteriormente, sempre mirando a ottenere immagini ancora più verosimiglianti; ciò che anzitutto rimaneva da risolvere al riguardo era il problema della trascrizione del colore, nonostante le insistenti sperimentazioni, che lo stesso Daguerre aveva iniziato nel 1850. In Italia se ne occupò pionieristicamente (1849) anche F. Zantedeschi, professore di chimica all'università di Padova. In seguito gli studi sul colore fotografico vennero sostenuti, fino a raggiungere risultati concreti, sebbene poco economici e di difficile applicazione, da Ch. Cros, L. Ducos de Hauron e anche dall'italiano C. Bonacini, che fu tra i primi a suggerire l'adozione di un reticolo di selezione tricromica ''a mosaico'', basandosi sulle teorie della tricromia; queste teorie avevano già consentito al fisico inglese J. C. Maxwell di ottenere (1861) la prima immagine a colori, mediante la proiezione simultanea e sovrapposta di tre diapositive, effettuata con altrettante lanterne magiche, dopo aver ripreso il soggetto (in questo caso, una coccarda tricolore) su tre diverse lastre in bianco-nero, con tre camere fotografiche i cui obiettivi erano stati opportunamente filtrati con i colori fondamentali: verde, rosso e blu-viola.
G. Lippmann, seguendo studi rigorosamente scientifici sull'interferenza della luce, ottenne invece (1891) le prime f. a colori dirette, ossia con un unico scatto dell'otturatore di un unico apparecchio, ma il procedimento non presentò pratiche possibilità di applicazione e rimase piuttosto una conquista scientifica, per la quale Lippmann ebbe poi il premio Nobel per la fisica. Le sue teorie vennero in seguito riprese da altri scienziati, avviando le ricerche verso l'olografia (D. Gabor, 1948), la quale si ottiene mediante l'interferenza della luce monocromatica laser con quella riflessa dal soggetto, che determina un illusorio effetto di tridimensionalità, eccezionalmente superiore a quello già ottenuto con la stereofotografia o con gli anaglifi.
Furono i fratelli Lumière a risolvere il problema della f. a colori diretta, mediante la tecnica dell'autochromie da loro brevettata nel 1904, mentre i materiali fotosensibili vennero posti in commercio nel 1907. L'autochrome consisteva in una diapositiva, solitamente del formato 9 × 9 cm, che conteneva, tra uno strato di vernice e la lastra di vetro − sulla quale era stesa, ma sull'altro verso, l'emulsione fotosensibile in bianco-nero −, un sottilissimo filtro composto da un miscuglio di microscopici granellini di fecola di patate, colorati, in parti pressoché uguali, in bleu-verde, rosso-arancio, blu-viola. Ogni granellino, delle dimensioni di pochi micron, costituiva in effetti un piccolissimo filtro di selezione cromatica, che tratteneva o lasciava passare coerentemente i colori del soggetto, ricostruendo con le sue molteplici combinazioni, dopo lo sviluppo e l'inversione della lastra, l'immagine colorata del soggetto, con una notevole approssimazione.
Nei primi decenni del 20° secolo, durante quell'era che possiamo definire ''moderna'', si misero a punto e si perfezionarono vari procedimenti di f. a colori (Jougla, Dufay, Agfa, Kodak, ecc.), che, a partire dagli anni Trenta, avviarono a una profonda trasformazione anche l'editoria, sia nel settore giornalistico che in quello della riproduzione d'arte. I libri furono più doviziosamente illustrati mediante processi fotomeccanici a colori, che oggi, anche per la loro sempre crescente economicità, tendono a sostituire quasi completamente il bianco-nero.
Il rinnovamento tecnologico dovuto ai perfezionamenti nella trascrizione fotografica del colore non ha soltanto consentito d'ottenere immagini sempre più ricche di informazioni (il ''colore della realtà'' cui tanto si era anelato, anche in concorrenza con la pittura), ma ha coerentemente provocato un nuovo modo di osservare ''il vero'' e di confrontarlo con l'icona fotografica, che sempre più ne è la mediatrice, anche grazie ai suoi naturali ''prolungamenti'', quali possono intendersi il cinema e la televisione, in attesa dell'ultimo straordinario progresso tecnologico, rappresentato dall'olografia e dal cinema olografico.
La f., però, nel salvare dall'oblio ciò che trascorre e che chiede "un posto negli archivi della nostra memoria", ha invaso, diversamente da quanto Baudelaire avrebbe voluto, anche "il dominio dell'impalpabile e dell'immaginario", assumendo sempre più un'identità estetica, che le compete inevitabilmente in quanto prodotto culturale. Essa, infatti, non può essere intesa come il semplice risultato di un'azione meramente meccanica, e quand'anche lo è (come in talune applicazioni scientifiche, robotiche e programmate), non può esimersi dalla sua referenzialità oggettuale ed estetica, spesso retoricamente metaforica, nonostante gli intenti e le illusioni di documentarietà, che si vorrebbero invece assumere come garanzia di obiettività.
La storia della f. va intesa, in modo specifico, come integrazione e connessione di due ambiti disciplinari, lo scientifico e l'artistico, per poi confluire in quello sociologico della comunicazione, che oggi si realizza e sostiene soprattutto attraverso l'immagine fotografica o le immagini che da essa derivano. A questo proposito va considerata l'evoluzione parallela dei mezzi di trascrizione e di veicolazione a stampa e video-elettronica delle f., che si sono affiancati ai perfezionamenti del procedimento fotografico, secondo l'iter logico che ha sollecitato la crescita del suo potenziale informativo e comunicativo.
Le prime f. erano state trascritte manualmente su lastre di rame, come aveva fatto N.-M.-P. Lerebours con le sue Excursions daguerriennes (1841-43), mediante acquetinte realizzate copiando i dagherrotipi che erano una garanzia assoluta di ripresa après nature. Talbot credette invece di aver risolto il problema della moltiplicazione e della veicolazione delle sue calotipie, incollando tra le pagine di quello che è considerato il primo libro illustrato con f. (The pencil of nature, stampato a dispense tra il 1844 e il 1846) i positivi di queste immagini, che si potevano ottenere a volontà dal negativo di base. Con lo stesso criterio si continuò per alcuni decenni, producendo album che contenevano f. incollate su supporti di cartone, ma in un numero di copie inevitabilmente limitate a poche decine di esemplari, oltretutto piuttosto costosi; le f. di questi album erano al solito organizzate sistematicamente per temi, come quelli dell'architettura, del paesaggio, delle opere d'arte, ecc.
Alcuni procedimenti di trascrizione della f. mediante la stampa a inchiostro, come quelli affrontati fin nei giorni successivi all'invenzione da H. Fizeau e da A. Donné, che tentarono di ottenere dei clichés da stampa direttamente dai dagherrotipi, non ebbero successo e oltretutto risultarono di difficile e costosa applicazione; sembrò invece vincente, verso la fine degli anni Sessanta del 19° secolo, la tecnica della fotocollotipia, perfezionata da J. Albert, dopo le sostanziali ricerche di A. Poitevin, che già nel 1855 aveva ottenuto soddisfacenti risultati, utilizzando un'emulsione di gelatina e bicromato di potassio, che è fotosensibile. Questa emulsione presentava la proprietà d'indurirsi nelle zone colpite dalla luce e di rimanere invece permeabile all'acqua nelle altre parti; per l'impressione della matrice venivano usate lastre o pellicole trasparenti negative. L'inchiostro grasso, successivamente disteso su questa matrice, aderiva a sua volta soltanto nelle zone asciutte, trasferendosi quindi sulla carta che le veniva sovrapposta e pressata con un rullo o con un torchio litografico. Mediante la fotocollotipia (chiamata anche fototipia o eliotipia), si realizzarono alcune tra le prime opere illustrate fotograficamente, tra cui la monumentale edizione del veneziano F. Ongania, sulla basilica di San Marco a Venezia (Dettagli di altari, monumenti, sculture, ecc., della Basilica di San Marco in Venezia, 1877-88), ottenuta mediante la trascrizione a inchiostro di 425 fotografie e disegni riprodotti con questa raffinata tecnica, o in cromolitografia, di grande ricchezza tonale e finezza di dettagli.
Verso la fine del 19° secolo si perfezionarono altri procedimenti, anche sulla spinta del nascente fotogiornalismo e di un'editoria che sempre più pretendeva una precisa e doviziosa illustrazione fotografica; tra queste tecniche la più delicata è la photogravure, una specie di rotocalco, cui si dedicarono anche alcuni fotografi-artisti, producendo le loro immagini proprio in funzione della resa figurativa consentita da questa specifica tecnica. Alla photogravure ricorse tra gli altri A. Stieglitz, per riprodurre parecchie tra le immagini che illustrano la sua mitica rivista, Camera Work, pubblicata a New York tra il 1903 e il 1917, negli anni in cui si determinarono alcune fondamentali ricerche sul linguaggio della f., sempre più tese a individuare lo ''specifico'' del mezzo, soprattutto per sottrarsi alle lusinghe dell'imitazione pittorica, allora in voga.
All'inizio del 20° secolo (1904) venne perfezionata anche un'altra tecnica di stampa, l'offset, che finalmente consentì di stampare contemporaneamente testi e immagini, con ulteriore notevole riduzione dei costi. Ne trasse vantaggio il giornalismo illustrato, che coinvolse inoltre la f. in un ruolo di sempre maggior rilievo, come mass-medium, il più importante prima dell'avvento e della diffusione della televisione.
J. Ruskin fu il primo storico dell'arte a considerare il dagherrotipo indispensabile per i suoi studi, sia come memoria, sia per la ricchezza di informazioni di queste immagini, che tra l'altro gli consentivano, come egli scriveva, di vedere "ogni frammento di pietra e ogni macchia" nelle immagini di alcuni palazzi veneziani; un filologo inglese, J. Ellis, era stato tra i primi a immaginare la realizzazione di un libro fotografico, e perciò aveva raccolto un'ampia serie di dagherrotipi, che avrebbero dovuto essere riprodotti per l'edizione di un volume sull'architettura italiana (mai realizzato); si avviò comunque subito la raccolta, spesso sistematica − come nel caso dell'editore parigino Lerebours per i suoi due album, Excursions daguerriennes - di immagini ottenute con questa tecnica, ricopiandole diligentemente e integrando il paesaggio con figure animate, come ancora non era possibile ottenere con il dagherrotipo, data la lunga posa (anche qualche minuto, che però scese fino a pochi secondi) necessaria per eseguirlo. In particolar modo i viaggiatori, spesso intellettuali e artisti quali il pittore H. Vernet o lo scrittore M. Du Camp, aggiunsero nel loro bagaglio l'attrezzatura per la f., a volte preferendo, come Du Camp o F. Frith, entrambi viaggiatori in Oriente, la tecnica calotipica, meno costosa e delicata; la f. su carta, inoltre, consentiva la realizzazione di immagini di maggiore formato e, come si è detto, la riproduzione positiva in vari esemplari.
In queste iniziali campagne fotografiche venne esplorato soprattutto il bacino del Mediterraneo, l'Egitto, la Nubia, i luoghi santi, la Grecia e l'Italia, secondo il Grand Tour tradizionale, del quale gli illustratori divennero soprattutto i fotografi, che si sostituivano mano a mano ai tradizionali disegnatori. Il mondo iniziò a essere ''riletto'' secondo questo nuovo mezzo figurativo, e ciò accadde anche in seguito, via via che i procedimenti miglioravano e consentivano altre tipologie d'immagine, dal bianco-nero al colore. Il periodo ''delle origini'' (1839-50 circa) vide prosperare soprattutto la f. di viaggio e di archeologia; nell'entusiasmo per queste nuove immagini, uno studioso francese, E. Piot, realizzò un album sull'Italia, L'Italie monumentale (1851), con f. in parte da lui stesso eseguite, ma spesso acquistate lungo il viaggio che lo portò dalla Sicilia alle Alpi, con soste nelle maggiori località artistiche. Questo album, presumibilmente realizzato in pochi esemplari e ora non più reperibile, è tra i primi tentativi di organizzare con la f. uno studio sistematico dell'architettura, che in Italia fu avviato soprattutto dall'atelier Alinari istituito proprio agli albori dell'''era d'oro'' della f., come può essere intesa quella del collodio, iniziatasi verso il 1851. Con il perfezionamento del procedimento al collodio vennero risolti molti tra i problemi della trascrizione fotografica, in funzione sia della semplificazione del processo, sia dei risultati tecnici, sempre più precisi e suggestivi. Nei primi anni Cinquanta del 19° secolo fiorirono alcuni grandi ateliers che si dedicarono soprattutto a due generi − riproduzione d'arte e di architettura, e ritratto − attivando anche un settore commerciale, sempre più ricco e influente.
Emblematico per il genere collegato alla riproduzione d'arte e di architettura diventò il laboratorio fiorentino degli Alinari, fondato nel 1852 da L. Alinari, su sollecitazione e con l'aiuto, anche economico, del calcografo L. Bardi, dove l'Alinari era a bottega. Bardi aveva intuito che l'incisione o la litografia, i mezzi di riproduzione fino allora usati in questo campo, sarebbero stati in breve tempo perdenti rispetto alla f., ben più fedele e rigorosa. Aiutò quindi il giovane Alinari (1832-1865), che già da alcuni anni stava impegnandosi in questo nuovo lavoro, tanto che aveva ceduto alcune vedute di architettura toscana a E. Piot per il suo ambizioso progetto editoriale. Alinari avviò quello che può essere considerato il più grande catalogo di opere d'arte del mondo, imponendo, nel contempo, un nuovo modo di studiare l'arte. Mediante la f. non soltanto potevano essere analizzate e confrontate a tavolino le riproduzioni di opere d'arte tra loro distanti, ma queste immagini avevano inoltre una ''memoria'' immensamente più fedele di qualsiasi altro mezzo di trascrizione precedentemente usato, quali il disegno e l'incisione.
Il lavoro di rilievo sistematico e di catalogazione degli Alinari (a Leopoldo si affiancarono subito i fratelli Romualdo e Giuseppe, e alla morte di questi, nel 1890, ne continuò il lavoro il figlio Vittorio, fino al 1921, alimentando anche l'editoria del settore) ha pochi altri esempi nel mondo, neppure a livello di intervento istituzionale pubblico (in Italia praticamente inesistente) se si escludono alcuni rari programmi locali. In Francia, invece, già nel 1851 l'Institut des monuments historiques aveva organizzato, con lo scopo di censire una serie di architetture medievali in varie regioni del territorio nazionale, un'équipe di fotografi (E.-D. Baldus, H. Le Secq, H. Bayard, G. Le Gray, O. Mestral), che per primi si occuparono di questo settore fotografico secondo un programma sistematico, anche se la loro attività si limitò a una campagna iniziale che portò alla realizzazione di circa trecento negativi, mentre l'archivio Alinari assomma oggi a oltre trecentomila lastre.
Il ritratto fotografico, che già aveva avuto successo con la preziosa dagherrotipia, anche per analogia con la miniatura allora molto in voga, ebbe a sua volta nuovo impulso con il collodio, in una pratica che trovò operanti anche molti fotografi ambulanti, nelle fiere e nelle piazze dei più remoti paesi. La grande ritrattistica fiorì tuttavia grazie al lavoro di alcuni grandi ateliers, per es. quello di Nadar (pseudonimo di G.-F. Tournachon, 1820-1910), che nel 1854, dopo un'esperienza come disegnatore satirico e giornalista, aveva aperto a Parigi uno studio per dedicarsi soprattutto a questo genere in cui raggiunse i più alti livelli, non solo per l'efficacia estetica e il rigore tecnico delle immagini, ma anche per l'accento psicologico dei ritratti, ottenendo successo specialmente tra gli artisti e i personaggi di maggior rilievo politico e culturale del suo tempo. Durante la sua lunga, e spesso avventurosa vita, compilò un grande catalogo in cui invece di architetture e opere d'arte, come quello degli Alinari, raccolse i più famosi personaggi del suo tempo, in un ''Panthéon fotografico'' che seguì una sua equivalente e omonima raccolta di ritratti invece disegnati, per una gigantesca litografia (il ''Panthéon Nadar'') realizzata nel 1852, all'inizio della sua nuova carriera di fotografo.
La ritrattistica, anche per la crescente richiesta di immagini in strati sociali sempre meno elitari, ebbe, nei primi anni dell'''era del collodio'', un altro protagonista: A.-A. Disderi (1819-1890), inventore (1854) di un apparecchio a obiettivi multipli, con il quale era possibile ottenere, sopra una medesima lastra fotosensibile, una lunga serie di immagini eseguite in sequenza, anziché una soltanto. Si riduce così anche il lavoro di sviluppo e di stampa positiva, realizzato in un solo foglio composto di quattro, sei, oppure otto piccole immagini di circa 6 × 9 cm, che poi vengono ritagliate e incollate su appositi cartoncini. Queste f., dal loro formato, vennero chiamate cartes de visite e attivarono una moda sempre più popolare, dando inizio a una certa massificazione della f., non soltanto nel ritratto, ma anche nella veduta e nella scena di genere, spesso d'impostazione folkloristica, utilizzata come souvenir.
Anche le guerre iniziarono a essere documentate dai fotografi, oltre che dai pittori e dai disegnatori, in un lavoro che tradizionalmente veniva eseguito da questi, al solito secondo schemi agiografici e con la retorica dell'eroismo; i fotografi, invece, rinnovano questa iconografia che risulta subito assai meno epica e vivace, anche a causa dei condizionamenti tecnici specifici, quali la lunga posa e l'ingombro delle attrezzature. Il più famoso pioniere della f. di guerra è stato R. Fenton (1819-1869), avvocato e fotoamatore inglese, inviato in Crimea (1855) soprattutto per documentare le condizioni di vita del contingente britannico, dopo le cruente battaglie che avevano assai preoccupato l'opinione pubblica inglese. Pare che al fotografo fosse stata richiesta esplicitamente una f. poco drammatica, tranquillizzante semmai. Tale in effetti risulta il reportage realizzato da Fenton in Crimea, che ammonta a circa trecento lastre, in nessuna delle quali, per es., appare un cadavere, benché molte f. presentino evidenti tracce di bombardamenti e di battaglie.
Non è Fenton il primo fotoreporter di guerra; qualche anno prima (1849) il ''milanese'' S. Lecchi era stato già coinvolto in questo genere di f., riprendendo gli effetti disastrosi delle battaglie alla periferia di Roma durante l'assedio di Garibaldi; le immagini calotipiche di Lecchi, che rappresentano i ruderi di antiche ville nella campagna romana (il Casino dei Quattro Venti, palazzo Barberini, villa Spada), vennero in seguito riprodotte in uno splendido album dal litografo Danesi, che può essere considerato come un incunabolo del reportage bellico. Oltre a Fenton, altri fotografi furono presenti in Crimea, durante la guerra turco-russa; tra questi vanno ricordati in particolare l'inglese J. Robertson e gli italiani (probabilmente di origine veneta) F. e A. Beato che, dopo la partenza di Fenton, continuarono da parte inglese la documentazione degli accampamenti e delle postazioni. Partirono quindi per un lungo e avventuroso viaggio in India, dove (1858) fotografarono le conseguenze della repressione di una rivolta da parte delle truppe inglesi a Lucknow; qui F. Beato riprese anche un patibolo dopo un'impiccagione collettiva, una delle prime immagini di cadaveri nella storia della fotografia. Due anni dopo egli realizzò a Fort Taku, in Cina, in un'analoga situazione, altre drammatiche f., anche queste eseguite per lo scopo politico della committenza (il comando militare anglo-francese) di documentare, anche come monito per i rivoltosi, l'energica repressione. Queste immagini naturalmente circolarono in poche copie, per lo più raccolte in album, ma avviarono idealmente quello che sarà il fotogiornalismo, divenuto nel nostro secolo un fondamentale veicolo, non solo d'informazione, ma di messaggi ideologicamente persuasivi, anche a fini politici. Tra i pionieri della f. di guerra, risultò in seguito importante soprattutto l'opera dell'americano M. Brady (1823-1896), organizzatore, con il collega A. Gardner (1821-1882), di un'équipe di fotografi considerata la prima agenzia fotografica della storia, per documentare da parte nordista le vicende della guerra di Secessione, tra il 1861 e il 1865, in una serie di migliaia di immagini, in gran parte tuttora conservate presso la Library of Congress di Washington.
Mentre questi avventurosi fotografi avviavano un genere di f. destinato a essere purtroppo sistematicamente praticato, creando addirittura il mito di alcuni di loro (come quello dell'ungherese R. Capa, eroe dell'ultimo conflitto mondiale), negli ateliers cittadini ci si dedicava, oltre che al consueto ritratto, anche a una f. sempre più creativa, che ambiva far concorrenza specialmente al manierismo pittorico, avviando una competizione tra fotografi e pittori neppure oggi conclusa; nel contempo si apriva un dibattito sull'artisticità della f. che, sia pure muovendo da questi ingenui interventi, si è poi precisato fino a definire problematicamente un'estetica specifica, polarizzatasi soprattutto nei primi decenni del 20° secolo.
La f. ''artistica'', in quanto libera dai condizionamenti oggettivi che si rimproveravano a questo mezzo di rappresentazione, fu presentata con particolare efficacia da autori quali gli inglesi H. P. Robinson (1830-1901) e O. Rejlander (1813-1875), un ex pittore di origine danese, passato, come molti altri artisti, alla fotografia. Essi proposero una f. composita, ottenuta assemblando a mosaico varie f. dopo averne progettato la sintesi finale, per ottenere realistici fotomontaggi che si riferivano però alla pittura in voga, soprattutto quella preraffaellita dei D. G. Rossetti, H. Wallis, W. H. Hunt, J. E. Millais. Con questi artisti operò anche una singolare fotografa dilettante, J. M. Cameron (1815-1879), che, pur rimanendo ancorata al simbolismo preraffaellita, si esprimeva, anziché con il fotomontaggio, con una f. spesso sfocata e leggermente mossa; otteneva così segni inconsueti, apparentemente paradossali nei confronti di una tecnica dalla quale si pretende estrema nitidezza di fuoco e la migliore istantaneità possibile; ma la ''trasgressione'' del flou, coraggiosamente proposta dalla Cameron, avvierà invece la f. alla rivelazione di altre sue potenzialità espressive, che risiedono nella qualità estetica dell'immagine e non soltanto nella quantità di informazioni che essa è in grado d'indicare.
Se alcuni artisti-fotografi si dedicavano a una riflessione sul mezzo, nella ricerca di un'estetica specifica, di cui si dibatteva anche teoricamente, come in alcuni saggi di Robinson (Les éléments d'une photographie artistique, 1898) o di A. Horsley-Hinton (L'art photographique dans le paysage, 1894), altri, invece, si orientarono nell'applicazione rigorosa di questa tecnica ai vari settori scientifici, come d'altronde era accaduto fin dai primi anni dell'invenzione, in particolar modo nella medicina e nell'astronomia.
Nel frattempo, il perfezionamento della tecnica consentiva nuove esplorazioni, mentre aumentavano coerentemente le esigenze di un'analisi più rigorosa della fenomenologia naturale: perciò s'intensificò l'uso della f., sia nello studio del molto piccolo, con la microfotografia, sia nell'analisi del movimento, che la f. pretende per vocazione di staticizzare, mediante l'istantanea. Talbot stesso fin dall'inizio delle sue prove aveva utilizzato un microscopio solare, per fotografare piccoli insetti o il dettaglio di un'ala di farfalla; qualche anno dopo, A. Donné, assieme a L. Foucault, pubblicava addirittura un'opera in quattro volumi sulla microfotografia (Atlas exécuté d'après nature au microscope daguerréotype..., 1845). In Italia si dedicarono con successo a questo settore G. Roster e F. Negri, che tra l'altro fu tra i primi a fotografare al microscopio il bacillo di Koch, nel 1884. La sempre più elevata istantaneità, consentita dalle nuove emulsioni fotosensibili e dagli strumenti ottici perfezionati, dotati di obiettivi sempre più luminosi, sollecitò gli studi sulla visualizzazione del movimento, in cui eccelse il fotografo americano di origine inglese E. J. Muybridge (1830-1904); questi, mediante l'automatic electro-photograph, riuscì a ottenere una serie di immagini cronofotografiche (pubblicate, in trascrizione xilografica, nello Scientific American), con la rapidità, allora eccezionale, di un millesimo di secondo, cogliendo in fasi successive un cavallo al galoppo (1877-78). Muybridge continuò − oltre che per il mecenatismo di un ricco americano, L. Stanford, anche presso l'università di Pennsylvania − a compiere studi cronofotografici sul movimento del corpo umano e degli animali, realizzando due album che suscitarono grande entusiasmo nel mondo scientifico, cui si aprivano nuove possibilità di analisi dell'''invisibile''. Il fisiologo francese E.-J. Marey (1830-1904), quasi nello stesso periodo, si dedicò ad analoghe ricerche, soffermandosi specialmente nello studio del volo degli uccelli; per queste esperienze usò uno speciale ''fucile fotografico'', con cui poteva eseguire una sequenza di dodici immagini con una velocità di otturazione di 1/700 di secondo. Questo ingegnoso apparecchio imitava d'altronde il ''revolver fotografico'', progettato e utilizzato dall'astronomo P.-J.-C. Janssen (1824-1907) già nel 1874, per riprendere in vari momenti il passaggio di Venere dinanzi al Sole. Gli studi cronofotografici (in cui le fasi del moto di un corpo sono fissate in sequenza su lastre diverse), e quelli stroboscopici (in cui le varie immagini risultano invece sovrimpresse in una stessa lastra) furono fondamentali per l'invenzione del cinematografo, che i fratelli Lumière, contemporaneamente a Th. A. Edison, resero però pratico soltanto nel 1895, utilizzando come supporto delle immagini la pellicola di celluloide, nel frattempo adottata anche in f., dal 1889, da G. Eastman, fondatore della Kodak.
Il colonnello A. Laussedat applicò la f. alla topografia fin dal 1859, istituendo così la nuova disciplina della fotogrammetria, integratasi in seguito con la ripresa aerea, della quale pioniere fu il fotografo Nadar, che nel 1859 aveva ottenuto le prime soddisfacenti f. dall'alto di una mongolfiera.
I criminologi, a loro volta, pensarono di servirsi della f. per il censimento dell'identità di criminali o presunti tali, e avviarono oltretutto i primi studi di semiotica della f., collegata alla fisiognomica; sono fondamentali in questo campo le ricerche del francese A. Bertillon e dell'italiano U. Ellero, che progettarono e costruirono anche specifici strumenti di ripresa e d'illuminazione, per ottenere immagini segnaletiche particolarmente rigorose e confrontabili. Analoghi studi, a fini però antropologici e medici, vennero compiuti dal dott. Duchenne di Boulogne e da Ch. Darwin, che se ne servì anche per illustrare un suo saggio (The expression of the emotions in man and animals, 1872), e in Italia da P. Mantegazza (1831-1910), compilatore, con l'aiuto di S. Sommier (1848-1922), di un album antropologico sui Lapponi (1879) e di un Atlante delle espressioni del dolore, corredato di numerose fotografie.
Ma l'applicazione scientifica più emblematica della tecnica fotografica è quella dovuta allo scienziato tedesco W.K. Roentgen (1845-1923); nel dicembre 1895 egli scoprì l'esistenza di misteriose radiazioni, che chiamò raggi X, con le quali risultò possibile, tra l'altro, fotografare il corpo umano nelle sue parti opache. Si avviò così un nuovo settore di ricerca fotografica, con l'impiego di radiazioni di lunghezza d'onda diversa da quella della luce visibile, quali la luce di Wood (nell'ultravioletto), quella infrarossa, ecc.
La f. è stata intesa a lungo soprattutto come documento indiscutibile, specie nel 19° secolo, qualità che raramente è stata messa in dubbio, fino a quando, negli ultimi decenni, i fotografi pittoricisti non posero l'accento sulle possibilità creative, artistiche, di questa tecnica, accusata troppo spesso di essere meramente meccanica e quindi automaticamente obiettiva. Il valore documentario, di testimonianza, della f. coinvolse sempre maggiormente il settore sociologico, che era d'altronde iniziato, sebbene come curiosità, con i viaggi esotici dei primi fotografi itineranti − per es. H. Vernet, M. Du Camp, F. Bonfils, i fratelli Beato, J. Thomson − oppure di reporter di guerra, come Fenton o Brady.
Il passaggio dalla scena di genere, di gusto spesso folkloristico, all'immagine d'ambiente, intesa invece come mezzo d'indagine sociologica e addirittura come strumento di accusa politica, fu inevitabile specialmente quando, dopo il 1880, iniziando l'''era della gelatinabromuro d'argento'', la tecnica divenne sempre meno complessa, e nel contempo i giornali presero ad arricchirsi di immagini, per il momento riprodotte manualmente con i mezzi tradizionali dell'incisione su legno (xilografia) o su metallo (acquaforte), o mediante la litografia. Ma la spinta a questa applicazione della f. all'informazione fu soprattutto politica, e questo genere si sviluppò inizialmente proprio negli Stati Uniti, dove negli ultimi decenni dell'Ottocento stavano avvenendo profonde trasformazioni sociali, causate in parte dalla grande immigrazione proveniente dall'Europa. A New York in quegli anni s'impose come fotografo-sociologo soprattutto J. Riis (1849-1914), un giornalista di origine danese a sua volta immigrato nel 1870, che sostituì al taccuino di appunti l'apparecchio fotografico, non soltanto per un'illustrazione didascalica più convincente, addirittura spietata, ma con una metodologia d'indagine orientata ideologicamente, quasi nell'intento di definire un catalogo di luoghi e personaggi emarginati. Riis fotografò in particolare i quartieri malsani dove venivano relegati gran parte degli immigrati europei, con conseguenze sociali disastrose, che tra l'altro incrementavano la malavita. Egli usò in molte occasioni anche il lampo al magnesio, per ''illuminare'' i tuguri dove erano costretti a vivere migliaia di poveri immigrati; anche questa tecnica fu un'audace novità. Il suo reportage, se non fece scandalo − mancavano ancora i mezzi di diffusione giornalistica della f. a livello di massa, per cui si ricorreva alla trascrizione manuale su cliché di legno −, sollevò comunque quel problema sociale nell'opinione pubblica, costringendo anche le autorità cittadine a cercare di porvi rimedio.
Il lavoro di Riis attivò la scuola della f. sociologica, che L. Hine (1874-1940) proseguì negli Stati Uniti nei primi decenni del 20° secolo, insistendo sui temi di Riis sempre vivi e attuali nella società americana: l'immigrazione europea e lo sfruttamento del lavoro minorile. Si tratta di una f. chiaramente sociologica, di denuncia, realizzata soprattutto per scopi propagandistici, specie se confrontata con i reportages esotici di F. Beato, che durante la sua permanenza a Yokohama (1861-77) aveva censito i mestieri e i modi di vita giapponesi, ricostruendo, spesso in atelier, i vari ambienti di vita e di lavoro in accattivanti serie di f. colorate a mano. Ma le immagini di attualità e di denuncia di Riis e di Hine si distinguono anche nei confronti di quella nuova f. che alcuni fotoamatori fin de siècle, per lo più intellettuali, benestanti e nobili, come il conte G. Primoli (1851-1927), realizzarono durante gli itinerari lungo strade di città e campagne, spesso alla ricerca di situazioni curiose, colte con la vivacità concessa da strumenti sempre più agili e versatili; si tratta di brani di vita popolare, riferiti a suggestioni letterarie più che a fini sociologici.
La f., negli ultimi due decenni del 19° secolo, divenne sempre più un mezzo espressivo alla portata di tutti, per cui il suo uso aumentò considerevolmente, avviandosi a quella ''era'' che si suole definire ''della massificazione''. I risultati sembrano però scadere di qualità, sia tecnica che estetica, per lo meno se paragonati a quelli della grande f. al collodio, che aveva consacrato autori eccezionali (Nadar, A. Salomon, M. Cameron, Ch. Marville, A. Braun, G. Altobelli, R. Fenton), i quali, sia pure in varie direzioni, dal ritratto al paesaggio, avevano assegnato alla f. un'identità estetica passibile talvolta di essere considerata concorrenziale con le tecniche figurative manuali tradizionali. La massificazione della f., che a molti sembrava ormai eccessivamente affidata alla sua meccanicità ("You press the button, we do the rest!", Voi premete il bottone, noi facciamo il resto!, suonerà ammiccante un fortunato slogan della Kodak), determina una reazione da parte di alcuni fotografi, particolarmente impegnati, invece, nella ricerca di un'estetica fotografica che si rifà però, quasi del tutto, ai modelli pittorici, in un ingenuo tentativo di concorrenza. Anche Robinson e Rejlander avevano partecipato a questo corso della f. artistica, ma ora interviene nel dibattito, con nuove e più appropriate motivazioni, un medico di origine cubana, P.H. Emerson (1856-1936), che si era trasferito in Inghilterra dove finì per dedicarsi esclusivamente alla f., anche come autore di alcuni saggi, tra cui il fondamentale Naturalistic photography for students of art (1889); qui tra l'altro suggeriva, contrariamente al pregiudizio che voleva la f. tutta nitidamente a fuoco, la necessità di sfocare certe parti dell'immagine, proprio per far corrispondere la f. al modo di vedere fisiologico dell'occhio umano, incapace di mettere tutto a fuoco, come invece si voleva nella f. tradizionale, dalla quale pretendeva in tal modo l'obiettività. Il flou (lo sfocato) fotografico venne quindi legittimato teoricamente da Emerson anche in funzione della percezione visiva, da cui egli in effetti avviò gli studi; sfocare una f., come l'antesignana Cameron, sembrava paradossale, e sollevò un ampio dibattito che si protrasse anche nei primi decenni del 20° secolo, mentre il pictorialism (o pittoricismo) imperava, soprattutto negli ambienti amatoriali, tendenti essenzialmente a qualificare la f. tra le arti tradizionali, in uno sforzo originato da un forte complesso d'inferiorità, ma al tempo stesso dovuto all'esigenza d'individuare l'identità culturale della f., oltre a quella estetica.
Il pictorialism fotografico, che portò in seguito anche all'uso di originali tecniche di stampa come la gomma bicromatata e il bromolio, per cui la f. assume l'aspetto di una litografia o di un disegno, ha prodotto spesso immagini decisamente kitsch, e sviato gli autori da altre fondamentali funzioni della f., fra le quali va compresa innanzitutto quella di mass-medium. Ma nell'ambito di questo movimento culturale si è sviluppata quella sottile problematica sullo ''specifico'' del mezzo, che nei primi decenni del 20° secolo ha orientato il lavoro e gli studi teorici di alcuni protagonisti della cultura figurativa contemporanea, primo fra tutti l'americano A. Stieglitz.
Stieglitz (1864-1946) iniziò a fotografare in Europa, dove si trovava per gli studi d'ingegneria, tra il 1882 e il 1890, ed entrò in contatto con H. Vogel, chimico berlinese, ed Emerson, del quale riprese le teorie di una f. naturalistica, immune da manipolazioni, ma che egli proponeva di realizzare in modo diretto (straight, dice Stieglitz) utilizzando esclusivamente i mezzi tecnici, ''specifici'' della f. stessa. Questa nuova ideologia della f. artistica, proclamata anche mediante l'istituzione di un Circolo (il Photo Secession di New York, 1902), di una galleria d'esposizione (la 291 nella Fifth Avenue) e della rivista interdisciplinare Camera Work (1903-17), determinò quel movimento moderno che negli USA ebbe per protagonisti autori emergenti, come E. Steichen (1879-1973), P. Strand (1890-1976), E. Weston (1886-1958), A. Adams (1902-1984), i quali tra il 1916 e il 1940 precisarono, spesso estremizzandoli, i concetti magistrali di Stieglitz. Si posero allora le basi di una nuova cultura fotografica, ormai dimentica delle velleità estetiche pittoriciste, e tendente a far definitivamente prevalere soltanto il medium fotografico; si radicalizzò soprattutto la decontestualizzazione del soggetto, osservato da vicino in una lettura spesso macroscopica, come nell'opera di Weston, e spingendo il potenziale di nitidezza di dettaglio a limiti estremi che appaiono iperrealisti tanto risultano superiori non solo ad altre tecniche figurative, ma anche alla capacità di lettura fisiologica dell'occhio.
In Europa, negli stessi anni, alcuni fotografi, tra i quali A. Renger-Patzsch (1897-1966) e A. Sander (1876-1964), compirono analoghe ricerche estetiche, anche nell'ambito del movimento culturale Neue Sachlichkeit; il primo realizzò un volume fotografico, Die Welt ist schön (1928), significativo per il genere di f., con cui si tendeva a rivelare aspetti formali altrimenti sconosciuti, anche di oggetti quotidiani che mai in precedenza erano stati gratificati dall'iconografia. Sander, invece, tentò un grande catalogo dei tipi della sua generazione, mediante una serie di ritratti che i nazisti trovarono in parte eccessivamente ironici e poco rispettosi della razza germanica ariana, come da loro intesa, e nel 1933 distrussero sia il volume (Antlitz der Zeit, 1929) che le matrici delle immagini (soltanto una piccola parte ne fu salvata). Alla Staatliches Bauhaus sorta a Weimar e poi trasferita a Dessau, invece, L. Moholy-Nagy (1895-1946) percorse altre strade nella ricerca delle possibilità espressive della f., adottando ed esplorando anche nuove tecniche, come quella del fotogramm, che consiste nell'eseguire f. senza l'uso della macchina fotografica; per ottenere un fotogramm si pongono anzitutto oggetti opachi o semitrasparenti sopra un foglio di carta fotosensibile, dopo di che si illumina e poi si prosegue con il solito processo di sviluppo e fissaggio, ottenendo suggestive silhouettes: così aveva già fatto il pioniere Talbot con i suoi primi photogenic drawings, ottenuti ponendo foglie, fiori, piume o altro, sopra un foglio di carta sensibilizzata con sale da cucina e nitrato d'argento ed esponendo poi lungamente al sole, sino a quando le parti non ricoperte dagli oggetti annerivano. Questo procedimento, che consentiva una nuova esplorazione sulla forma degli oggetti, trascurandone finalmente la fisionomia convenzionale in favore di una più spregiudicata creatività, venne utilizzato contemporaneamente anche da Chr. Schad (1894-1982) e da Man Ray (1890-1976), che attribuirono a queste immagini rispettivamente il termine di schadograph e di rayograph.
Negli anni Venti i movimenti d'avanguardia, dal futurismo al dadaismo al costruttivismo, coinvolsero anche la f. nella loro dissacratoria esplorazione. Moholy-Nagy teorizzò in alcuni saggi la ''nuova visione'' della f. e propose anche, come A. Rodčenko (1891-1956), un'insolita prospettiva, dove la linea d'orizzonte è in diagonale o riferita a sconvolgenti punti di osservazione, dal basso o dall'alto; un'autentica rivoluzione, rispetto alla convenzione prospettica tradizionale. La sperimentazione fotografica d'avanguardia, che negli USA era stata avviata nel 1916 da P. Strand, autore, nel corso di una sua ricerca sul cubismo, delle prime f. astratte, contava inoltre sull'opera di A. Langdon-Coburn − che realizzò una serie di vortographs con suggestioni di estrazione futurista − e di alcuni singolari artisti tedeschi, che utilizzarono il fotomontaggio con intenti non solo estetici, ma come mezzo di comunicazione popolare; tra questi, oltre a Moholy-Nagy, ci sono P. Citroën, R. Hausmann (1886-1970), H. Höch (1889-1978) e soprattutto J. Heartfield (1891-1968), che diede un significato esplicitamente politico alle sue composizioni, pubblicate sistematicamente nella rivista di sinistra A.I.Z. (Arbeiter Illustrierte Zeitung).
In Italia, la sperimentazione d'avanguardia precedette di alcuni anni quella europea, mediante la ricerca sul fotodinamismo di Anton Giulio (1890-1960) e Arturo (1893-1962) Bragaglia, che tra il 1911 e il 1913 realizzarono una serie di immagini in cui tendevano a visualizzare, per la prima volta nella storia della f., un concetto ideale piuttosto che la fisionomia di un soggetto: in questo caso l'idea del movimento dei corpi, che esprimevano fissando non già l'istantanea, ma la traiettoria compiuta durante l'azione. Anton Giulio, che è stato l'ideologo di questa ricerca, scrisse anche un singolare saggio, Fotodinamismo futurista (1912), una delle più acute e avanzate meditazioni sull'identità espressiva della f., della quale viene rifiutata soprattutto la tradizionale referenzialità nei confronti dell'oggetto-soggetto.
Negli anni tra i due conflitti mondiali, la ricerca sul linguaggio fotografico si precisò ovunque, sia pure seguendo diverse direzioni, dall'astrattismo dell'italiano L. Veronesi (n. 1908), che è tra i più tenaci sostenitori di una f. ''non obiettiva'', all'opposto documentarismo, che proprio allora s'instaurò come mass-medium, grazie ad alcuni giornali di larga diffusione come, per es., i tedeschi Berliner Illustrierte Zeitung e Münchner Illustrierte Zeitung, il francese Vu, gli italiani L'Illustrazione italiana e più tardi Omnibus (1937-39), Tempo (1938), e soprattutto l'americano Life, fondato nel 1936 da H. Luce, sul modello dei maggiori rotocalchi europei.
In questi ebdomadari, in cui la f. ha un ruolo preminente e non solo decorativo o didascalico, operarono alcuni pionieri del fotogiornalismo intellettuale, quali E. Salomon (1886-1944), F. Man (1893-1985), F. Goro (1901-1986), A. Eisenstaedt (n. 1898), F. Patellani, R. Capa (pseud. di André Friedmann; 1913-1954); quest'ultimo, dopo i reportages in Spagna (1936), si caratterizzò come il maggiore fotografo di guerra in tutti gli eventi bellici successivi, fino al 1954, quando morì in Indocina. Fu magistrale negli anni Venti e Trenta in particolare l'opera di Salomon, che realizzò i suoi reportages con la sua candid camera, una Ermanox 4,5 × 6, dotata di un obiettivo molto luminoso, che gli consentiva di fotografare anche in interno senza l'uso del lampo al magnesio, caratterizzando con la luce ambiente le sue immagini, che ne traevano quindi un più convincente realismo.
Tra gli sperimentatori puri e i fotogiornalisti s'instaurò un terzo gruppo di fotografi, fedeli al realismo fotografico ma inteso in modo più lirico e poetico, i quali connotavano energicamente le loro immagini mediante il chiaroscuro o l'uso di ottiche inconsuete, estraniando il soggetto in una prospettiva anomala rispetto a quella determinata dall'uso di obiettivi dalle lunghezze focali normali; tra questi autori emergono l'inglese B. Brandt (1904-1984), gli ungheresi Brassaï (pseud. di Gyula Halász; 1889-1984) e A. Kertész (1894-1985), che vissero però a Parigi, l'olandese M. Coppens, l'austriaca L. Model (1906-1983), poi lo svizzero W. Bischof (1916-1954), i francesi E. Boubat (n. 1923), Izis (pseud. di Israel Bidermanas; 1911-1980), ecc.
La f. sociologica, nel frattempo, riemergeva anche come esigenza d'informazione, laddove era politicamente possibile al fotografo compiere una libera analisi dell'ambiente; negli USA venne anche organizzata (1935), dopo la grande crisi economica che aveva colpito particolarmente i contadini dell'Est, una équipe di fotografi, nell'ambito della Farm Security Administration (FSA), istituita dal governo americano, sotto la direzione di R. Stryker, un professore di sociologia della Columbia University, con lo scopo di avviare innanzitutto un censimento visivo sulle condizioni materiali di vita delle popolazioni colpite dalla crisi, ma al tempo stesso d'informare l'opinione pubblica con un mezzo persuasivo, come la fotografia. I fotografi che fecero parte di questo organismo − tra gli altri, D. Lange (1895-1965), A. Rothstein (1915-1985), B. Shahn (1898-1969), W. Evans (1903-1975) − crearono una scuola, che ha avuto lungamente influenza sulla f. contemporanea, dagli anni del neorealismo alle attuali ricerche. Evans, in particolare, sintetizzò allora, nella sua dialettica produzione, le varie ricerche estetiche dei primi decenni del secolo, dopo essere rimasto molto suggestionato, durante la permanenza a Parigi sul finire degli anni Venti, anche da un anomalo fotografo francese, di grande energia poetica, come E. Atget (1857-1927), che aveva appena concluso a Parigi, in parte per conto della Caisse des monuments historiques, un suo sistematico catalogo sulla città vecchia, registrando i bistrots, le botteghe, le strade, i giardini, e rivelando una Parigi inconsueta, al di fuori di quella retorica monumentalità, che era stata invece alla base dell'iconografia fotografica ottocentesca.
Atget, che era stato da pochi anni scoperto da Man Ray, soprattutto per l'accento surrealista di molte sue immagini realizzate con un'attrezzatura sorpassata, ma che lo sollecitava a un'insistente riflessione visiva della realtà, aveva trovato una mecenate nella fotografa americana B. Abbott (1898-1991), che alla morte di Atget, avvenuta nel 1927, rilevò gran parte del suo archivio, trasferendolo a New York. Per la freschezza descrittiva delle sue immagini ''di strada'', oltretutto immuni da cadenze pittoriciste e da enfasi monumentaliste, Atget è un autore che fa tuttora scuola e al quale si sono riferiti diversi fotografi, tra cui anche H. Cartier-Bresson (n. 1908), il più emblematico tra i fotogiornalisti contemporanei.
Cartier-Bresson incominciò a essere presente nel panorama fotografico mondiale nel 1935, esponendo a Città di Messico assieme a M. Alvárez-Bravo, e due anni dopo a New York con W. Evans. Indirizzò subito il suo lavoro nel settore fotogiornalistico, allora in rapida crescita; nell'ultimo dopoguerra, assieme a R. Capa, D. Seymour, G. Rodger (n. 1908), M. Eisner, W. Vandivert, fondò a Parigi un nuovo tipo di agenzia, organizzata come una cooperativa in cui tutti i fotografi sono soci e padroni, la Magnum Photos: ci si proponeva, fra l'altro, di liberare il fotografo dai condizionamenti culturali e politici imposti dagli editori e avviare quindi un autonomo lavoro di esplorazione fotografica delle vicende mondiali, che alla Magnum venivano espresse secondo una comune ideologia della f., di un realismo vissuto nel mito ormai raggiunto dell'istantaneità; una f. che per Cartier-Bresson consisteva nella capacità di cogliere in una frazione di secondo il momento decisivo della situazione, in conformità a un concetto che attribuisce al fotografo la capacità del "riconoscimento simultaneo, da una parte del significato di un fatto, e dall'altra dell'organizzazione rigorosa di forme percepite visualmente, che esprimono questo fatto" (Images à la sauvette, Parigi 1952, p. 3).
Gli apparecchi di piccolo formato, la Leica in particolare, progettata da O. Barnack (1879-1936) come strumento di prova delle pellicole cinematografiche, e messa in commercio dalla Leitz di Wetzlar nel 1923, permettono ormai al fotografo di muoversi più agilmente e realizzare reportages di grande vivacità, consentendogli di registrare con maggiore realismo gli eventi del quotidiano; la ridotta lunghezza focale degli obiettivi, rapportati al formato della pellicola 24 × 36 mm, permette di ottenere una maggiore profondità di campo relativa, mentre la loro aumentata luminosità favorisce l'eliminazione della luce artificiale: questo significa poter attribuire all'immagine una maggiore nitidezza di dettaglio e un chiaroscuro più naturale, con risultati di un sorprendente realismo, che è alla base del criterio di utilizzazione della f. negli ebdomadari, la cui diffusione è aumentata costantemente, fino all'avvento popolare della televisione.
Quella della ''luce ambientale'' è un'ideologia fondamentale per molti fotografi, ma fra tutti chi ne sostiene l'esigenza è soprattutto W. E. Smith (1918-1978), che tuttavia, a differenza di Cartier-Bresson, profeta di una f. obiettiva dai segni tendenzialmente neutrali (esclusione della sfocatura, della deformazione dovuta a ottiche eccessivamente grandangolari o teleobiettivi di un chiaroscuro troppo accentuato, ecc.), sottolinea costantemente nelle sue immagini la presenza del fotografo come autore, soprattutto attraverso una ricca, intensa, spesso drammatica accentuazione dei toni chiaroscurali.
Una più spregiudicata trasgressione ai canoni tradizionali fu proposta qualche anno dopo anche da W. Klein (n. 1928) con un fotolibro su New York (1956), in cui il racconto visivo, senza l'aggiunta di didascalie e mediante un assemblaggio delle immagini dal design grafico costruito dallo stesso autore, è affidato a una f. energicamente chiaroscurata, sgranata, mossa e sfocata, e dialetticamente accostata secondo gli schemi della sceneggiatura cinematografica. Se confrontata con quella di Cartier-Bresson, che rincorre un'ipotesi di obiettività, la f. di Klein appare invece fortemente soggettiva; una f. in cui emerge l'autore e la sua estetica, secondo una proposta ideologica che nel dopoguerra, d'altronde, era già stata avanzata anche dal fotografo tedesco O. Steinert (1915-1978), mentre tentava di far rivivere in Germania, con il gruppo Fotoform (1949) e in seguito con l'iniziativa editoriale ed espositiva di Subjektive fotografie (1952), il clima culturale della Bauhaus, proponendo una f. intesa soprattutto come mezzo espressivo e creativo, non meramente riproduttivo.
Anche in Italia, dopo la sosta del periodo fascista (durante il quale i fermenti di una f. creativa furono rari e per lo più affidati a singole iniziative, come quelle dell'architetto G. Pagano, che fotografa negli anni Trenta l'architettura rurale con aggiornati moduli costruttivisti, o di L. Veronesi, che ricerca l'astrazione, anche per smentire la documentarietà fotografica), V. Balocchi, M. Bellavista, G. Vannucci-Zauli e A. Franchini-Stappo, assieme a pochi altri, esplorano l'estetica della f. al di fuori delle proposte pittoriciste, cercando segni ''specifici'' soprattutto nella struttura geometrica e tonale delle immagini, superando inoltre l'aneddotica del bozzetto tradizionale. Alcuni fotografi, per lo più fotoamatori, si coalizzarono in sodalizi che, in mancanza di scuole e di altre strutture culturali sulla f., si proponevano di compiere una ricerca sul linguaggio di questo mezzo espressivo, sottraendolo sia all'artigianato che al fotogiornalismo documentario per evidenziarne particolarmente i valori estetici. In Italia prevalsero i fotografi del Gruppo La Bussola, fondato nel 1947 da G. Cavalli, M. Finazzi, F. Vender, F. Leiss, L. Veronesi, con il programma, tra l'altro, di "allontanare la fotografia, che abbia pretese di arte, dal binario morto della cronaca documentaria", come scrisse Cavalli nel Manifesto del Gruppo, pubblicato nella rivista Ferrania nel maggio 1947.
La problematica della f. come linguaggio e come prodotto estetico avanzò e si precisò ovunque, sempre però sulle basi teoriche determinate dagli interventi appassionati di A. Stieglitz e di L. MoholyNagy, specialmente negli anni tra i due conflitti mondiali; il successivo, più significativo sviluppo dell'estetica fotografica avvenne nell'ambito dei nuovi movimenti d'avanguardia, la Pop Art innanzitutto, con interventi di artisti come A. Warhol o R. Rauschenberg, e quindi del concettualismo, che coinvolgeva fortemente la f. nel processo artistico, sebbene spesso soltanto come mezzo tecnico.
In Italia fu soprattutto U. Mulas (1928-1973), all'inizio degli anni Settanta, a demitizzare la retorica del documentarismo fotografico, specie quando produsse una serie di Verifiche (1972-73), mediante le quali tendeva ad analizzare concettualmente alcuni episodi del linguaggio fotografico, suggerendo nuove esplorazioni espressive, legittimate anche dalla contemporanea massificazione della televisione come mezzo d'informazione, che sembrò liberare la f. da questo compito (così come d'altronde, oltre cento anni prima, questa aveva fatto a sua volta nei confronti della pittura).
Le istanze di Mulas erano comunque già presenti specialmente nella f. americana, dove autori come R. Frank (n. 1924), L. Friedlander (n. 1934), G. Winogrand (1928-1984), e poi D. Arbus (1923-1971), L. Krims (n. 1943), R. Gibson (n. 1939) e altri compirono disinvolte, trasgressive e provocatorie esplorazioni nello spazio urbano, nel quale prevalevano immagini dall'insospettata struttura grafica, senza più l'enfasi del reportage spettacolare, che aveva caratterizzato il fotogiornalismo moderno, per giunta arricchitosi del colore. La f. nel frattempo si specializzava ancor di più nei generi: pubblicità, moda, architettura, paesaggio geografico, come esige il consumismo e la nuova editoria illustrata, aprendo così sempre nuovi mercati alla f., che nell'informazione è invece condizionata dalla simultaneità della veicolazione e dalla diretta penetrazione casalinga del medium televisivo; in questi settori si evidenziarono autori come R. Avedon (n. 1923), C. Beaton (1904-1980), E. Stöller, E. Shultess, S. Moon (n. 1940), B. Morgan (n. 1900), D. Bailey (n. 1938), O. Toscani, R. Mapplethorpe (1946-1989) e altri.
Il colore, d'altronde, nella logica storica dell'evoluzione della f. come mezzo di rappresentazione e di espressione, sostituisce sempre più il bianco-nero, liberandosi mano a mano della sua iniziale retorica, che si affidava alla spettacolarità cromatica delle immagini, oltre che al suo maggior quoziente d'informazione documentaria. Mentre il mondo viene riesplorato con queste nuove emulsioni fotosensibili, che ora mostrano anche il colore delle cose, rinnovando con il suo codice un'immagine della realtà ormai mediata definitivamente dalla f., alcuni fotografi elaborano un'ideologia della f., che tende invece a superare l'estetismo grafico e neopittorialista, relativamente al colore, di autori come E. Haas (n. 1921), Chr. Vogt (n. 1946), F. Roiter (n. 1926) o F. Fontana (n. 1933), proponendo − come L. Baltz (n. 1945), St. Shore (n. 1947), W. Eggleston (n. 1937), B. Plossu (n. 1945), B. Descamps (n. 1947), N. Nixon (n. 1947), J. Fontcuberta (n. 1955), L. Ghirri (n. 1943), P. Gioli (n. 1942), G. Guidi − una f. più autoriflessiva, finalizzata a se stessa, al di là di intenzioni descrittive e informative, ma sottraendosi nel contempo anche ai tradizionali schemi geometrici e cromatici di derivazione pittorica, per assegnare alla f. una sua specifica identità, nel momento storico in cui essa ha definitivamente superato sia la problematica tecnica delle origini e dell'''era del collodio'', sia quella della massificazione e della ricerca sul linguaggio conclusasi, dopo i fermenti degli anni Venti, in quest'ultimo dopoguerra nel connubio concettuale con gli altri media. Ora la f. sta probabilmente chiudendo un suo primo grande ciclo che è durato centocinquant'anni, avviandosi a un'era che ne trasformerà l'identità e quindi il messaggio, mediante l'immagine elettronica e l'avvio di quella olografica, con cui si tenderà a costruire definitivamente un cosmo parallelo a quello tattile, profumato, percorribile, del mondo quotidiano. Vedi tav. f.t.
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Tecnica. - Nell'evoluzione dei mezzi e delle tecniche fotografiche si possono individuare due orientamenti. Il primo, secondo la tradizione, conferma l'indirizzo verso riprese rapide anche in sequenza, con otturatori più perfezionati, pellicole extrarapide, rapidi automatismi per focheggiare e per impostare accettabili coppie tempo/diaframma; motori e winder per l'avanzamento della pellicola e la ricarica dell'otturatore; flash incorporati automatici. Il secondo è la tendenza a unificare i procedimenti di stampa, riducendo quanto possibile i formati di ripresa i quali, escludendo le pellicole piane professionali e i microformati, stanno riducendosi al formato 24 × 36 mm su pellicola 35 mm, e ai nominali formati 6 × 6 cm e 6 × 7 cm su rulli 120. Tale unificazione ha condotto a effettive alte rapidità di trattamento tramite l'organizzazione di laboratori cittadini che assicurano interventi di sviluppo e stampa di pellicole negative e diapositive a prezzi modici e qualità accettabile, seppure corrispondenti a uniformità talvolta sgradite.
L'accentuazione di tali orientamenti conduce alla progettazione e alla fabbricazione di fotocamere totalmente automatizzate, mediante cospicue dotazioni di apparati elettronici, sufficienti per produrre immagini stampabili, ma anche a indurre alla generale e falsa convinzione che f. sia solo ciò che si è in grado di produrre con tali mezzi automatici. Esiti conseguenti sono inevitabili monotonie iconografiche e sazietà di ripetizioni. Si fa sempre più f., ma a questo incremento tecnico e quantitativo fa riscontro un diminuito interesse per l'apporto creativo del fotografo. Se questo vale per la generalità degli utenti delle fotocamere e dei fotoamatori, sul versante professionale si assiste, invece, a semplificazioni tecniche tendenti proprio a favorire il momento creativo. La produzione di gradevoli ed efficaci immagini professionali si è generalizzata, favorendo sempre più una netta separazione qualitativa dalla produzione dei dilettanti, laddove un tempo tale separazione poteva risultare quasi inapprezzabile.
Mentre un fotografo tradizionale realizzava le proprie immagini in bianconero previa una somma di scelte sui diversi momenti operativi (scelta del formato, del materiale sensibile, studio dell'esposizione e dell'eventuale illuminazione artificiale, trattamento personalizzato della negativa, stampa a mano nel proprio laboratorio, mediante impegnativi interventi sui piani della creatività e dell'espressività), oggi la situazione è mutata e banalizzata. Il fotografo si affida totalmente agli automatismi dell'apparecchio di ripresa, dalla lettura della sensibilità della pellicola alla focheggiatura e alla determinazione del rapporto tempo/diaframma. Gli resta la scelta dell'inquadratura, ove si giocherà tutto il potenziale creativo, poiché il resto delle operazioni fotografiche passa alla competenza dei responsabili dei fotolaboratori meccanizzati.
L'evoluzione delle fotocamere più diffuse può risultare paradigmatica per apprezzare l'evoluzione generale della fotografia. Verso la fine degli anni Settanta la fotocamera tipica e maggiormente diffusa era la reflex 35 mm, con lettura interna dell'esposizione, ottiche intercambiabili e un discreto corredo di accessori. Un sistema componibile, abbastanza sofisticato, piuttosto ingombrante, di peso non indifferente, bisognoso di una certa applicazione per l'uso corretto e proficuo: certo troppo complesso per l'uso occasionale di gran parte degli utenti, i quali mostrarono di apprezzare maggiore semplicità.
La risposta dell'industria si articolò su due piani. Da un lato si potenziò la produzione e la diffusione delle cosiddette camere ''compatte'' (fig. 1) a esposizione automatica, non reflex, di formato 24 × 36 mm, obiettivi di focale ridotta, ossia lievemente grandangolari (attorno ai 30 mm per facilitare l'inquadratura e ridurre gli errori di messa a fuoco). Con soluzioni tecniche del genere, l'utente occasionale riacquistò simpatia per la f. e il consumo delle pellicole aumentò. Di conseguenza le compatte crebbero in prestazioni, dotandosi via via di migliori fotocellule esposimetriche, di obiettivi zoom con modeste escursioni di focale, di motore per l'avanzamento e il riavvolgimento della pellicola (consentendo altresì le cosiddette ''raffiche'' di fotogrammi, in taluni modelli) e, infine, di focheggiatura automatica (autofocus), con il che le piccole automatiche parvero consegnare anche al più svagato e al più occasionale degli utenti il mondo della fotoimmagine.
Ma, insieme a tali stratagemmi, l'industria fece crescere in affidabilità e automatismi anche le reflex monobiettivo le quali, dotate massicciamente di accessori elettronici, acquisirono in parte le dotazioni delle compatte, così incrementando in peso e volume. Una classica reflex 35 mm dell'ultima generazione, dotata di razionali accessori, può oggi essere considerata paradigmatica rispetto alla generale evoluzione degli apparati di ripresa; essa si presenta con un obiettivo considerato normale per la sua focale fissa di 50 mm, uno o più teleobiettivi e grandangolari (eventualmente un obiettivo zoom), lettura dell'esposizione con simulatore di diaframma, ossia con obiettivo tutto aperto. Quest'insieme è, o può essere, motorizzato con motore e winder e accetta un flash esterno collegato alla camera per la sincronizzazione del lampo con l'otturatore; questo collegamento può essere diretto, se il contatto è sullo zoccolo del flash e nella slitta di attacco posta sul pentaprisma della fotocamera.
Una camera del genere, in grado di assolvere a pressoché tutti i compiti istituzionali, venne ritenuta degna di accogliere ulteriori dotazioni, e questa valutazione fece definitivamente tramontare le reflex razionali della tradizione. La generazione postmoderna delle monoreflex presenta modelli elettronici superaccessoriati, muniti di due o tre micromotori, display digitale, con molti programmi di ripresa, lettura automatica della sensibilità della pellicola usata (cod. DX), uno o due microcomputer (fig. 2) e un corrispondente numero di circuiti integrati, obiettivi autofocus, alcuni con focale fissa, altri con zoom, piccolo flash incorporato, otturatore sempre a tendina, con scala dei tempi enormemente allargata, da alcuni secondi a 1/2000 e anche 1/8000 di secondo. Anche il tempo di sincronizzazione X per l'uso di flash elettronici si è potuto ridurre a 1/250 di secondo, grazie all'aumentata velocità delle tendine.
Proprio gli obiettivi autofocus tendono a determinare una nuova strada nell'evoluzione delle fotocamere più popolari. Infatti una dotazione autofocus tende ad annullare la differenza sostanziale tra una fotocamera reflex e una con mirino galileiano. Allo scadere degli anni Ottanta i mercati sono stati aggrediti da un discreto numero di fotocamere di nuova concezione, alcune derivate dalle monoreflex, altre dalle compatte, delle quali caratteristica distintiva è l'autofocus e l'estrema automatizzazione. La dotazione standard di tali camere, che sono di formato 24 × 36 mm, raramente di mezzo-formato 18 × 24 mm, è di un obiettivo zoom autofocus non sostituibile, di uno o più motori (per l'autofocus, per l'avanzamento della pellicola, e poi il suo riavvolgimento), di flash incorporato e di vari comandi, avvisi e allarmi per ovviare alle più comuni occasioni di errore. Fotocamere con tale schema, battezzate universalmente ''supercompatte'', non paiono in grado di evolvere fino a coprire le situazioni di carattere professionale e specialistico, ma certo possono assolvere a esigenze di rapide e facili riprese. Dal punto di vista concettuale paiono costituire l'estrema alternativa prima che la f. magnetica invada la fantasia degli utenti e i monitor delle loro case.
I programmi operativi. - Una fotocamera razionale, ossia monoreflex componibile, non può disporre di un solo programma operativo automatico di esposizione. Infatti un programma di carattere universale non potrebbe prevedere un conveniente assetto in caso di telefoto sportive o di immagini di interni scarsamente illuminati. Di conseguenza, a fianco del programma standard, si usa dotare le monoreflex di diversi programmi in modo da privilegiare in un caso le alte velocità dell'otturatore, e nell'altro la maggior profondità di campo. Naturalmente il preciso dosaggio di tali regolazioni tende a sfuggire al fotografo, a beneficio della rapidità di esecuzione. Per lavori più meditati, tali camere dispongono quasi sempre di automatismo a priorità del diaframma, o a priorità dei tempi, ovvero di funzionamento manuale.
Il programma ad alte velocità di scatto viene impropriamente definito ''programma tele'' o ''programma sportivo''; il programma a forte profondità di campo viene altrettanto impropriamente battezzato ''programma grandangolare'' ovvero ''programma creativo'' o in altri modi altrettanto fantasiosi. Con l'uso di obiettivi zoom, taluni costruttori hanno previsto lo slittamento automatico dei programmi da una condizione alle altre, mentre l'utente seleziona l'adatta focale.
Gli obiettivi. - Se in apparenza gli obiettivi non presentano impreviste novità (fig. 3), nell'uso si riscontrano profondi e sostanziali miglioramenti. L'uso delle terre rare (tra cui tantalio e lantanio) ha consentito di produrre vetri con notevoli indici di rifrazione e bassa dispersione; l'introduzione di migliori trattamenti antiriflesso, in taluni casi di strati multipli, ha migliorato la resa globale. La necessità di migliorare ha altresì imposto l'adozione di lenti asferiche per gli obiettivi più pregiati e molto luminosi. E poiché la fabbricazione di tali lenti è difficoltosa, sono state escogitate soluzioni alternative, quale l'applicazione, sulla lente sferica, di una pellicola di plastica resa asferica mediante uno stampo. L'esiguo spessore di tale pellicola non risente delle deformazioni derivanti dalle escursioni termiche.
Nuove sofisticate applicazioni ottiche, anche in obiettivi non zoom, consistono in inserimenti di lenti mobili: queste vengono trasferite nelle diverse posizioni ottimali durante la focheggiatura dell'obiettivo. Tale accorgimento consente di mantenere nei limiti voluti le aberrazioni, che in caso contrario si evidenzierebbero malgrado le tradizionali correzioni. La diffusione di obiettivi zoom e autofocus (computerizzati con elaboratori della potenza anche di 4 bit), tendente a rendere obsoleti quelli della tradizione, risale agli anni Ottanta, quando le ottiche fisse cominciarono a essere fabbricate in ridotti quantitativi per uso professionale. In ritardo di qualche anno tali obiettivi, generati da complessi schemi elaborati da calcolatori, possono operare anche in posizione macro, ovvero in extratiraggio. La diffusione di flash dedicati anche per fotomacrografia chiude un quadro operativo nel quale, ormai ridotti drasticamente i problemi tecnici, restano ovviamente topici, come da sempre, quelli del gusto.
Corretta esposizione in automatismo. - Se la corretta esposizione fotografica rimane una chimera, in particolar modo nei casi di rilevazione automatica, alcuni fabbricanti hanno munito i loro apparecchi di più di un sistema di misurazione. I sistemi di lettura più adottati sono soprattutto quello spot e quello a misurazione media, con prevalenza al centro dell'inquadratura. La lettura spot risulta indispensabile nei casi di telefotografie e nelle rilevazioni-campione. La lettura media con prevalenza al centro viene utilizzata soprattutto in caso di foto in rapida sequenza, di carattere generico, o da parte di fotografi non esperti.
Le ulteriori possibili extracorrezioni previste da taluni costruttori, soprattutto nella misurazione media, per privilegiare le zone in ombra, o quelle fortemente illuminate, o altre ancora, non presentano interesse sostanziale. Tuttavia un discreto sviluppo nelle rilevazioni esposimetriche automatiche è iniziato verso la fine degli anni Ottanta. Un esempio può risultare illuminante. Venne proposta una fotocamera munita di un sistema dipendente da un vero microcomputer della potenza di 8 bit e con uno specifico software per l'analisi istantanea di molti dati e zone dell'inquadratura, rilevati da fotocellule al silicio disposte strategicamente, in modo tale da poter decidere autonomamente tra un'esposizione media, una concentrata sul soggetto (spot), un'altra bilanciata sulle zone meno illuminate e un'ultima bilanciata sulle aree più illuminate del fotogramma. Il cervello elettronico della fotocamera è istruito a classificare i soggetti secondo dieci livelli di luminosità e di contrasto, anche in casi di ripresa col flash, derivandone 25 matrici funzionali, ognuna delle quali contiene uno o più modelli algoritmici. Questo sistema può dunque selezionare l'esposizione in base ai modelli, incrementando sostanzialmente la funzionalità dell'esposizione automatica.
Per eliminare le residue possibilità di errore, presso i fabbricanti va diffondendosi la produzione di programmi di gruppi di esposizioni consecutive che la fotocamera esegue autonomamente ad alta velocità e con dati diversi.
L'autofocus. - I problemi di maggior rilievo della focheggiatura automatica degli obiettivi derivano soprattutto dalla rapidità di focheggiamento e dalla funzionalità in presenza di scarsa illuminazione o contrasto. Le soluzioni proposte mostrano soddisfacenti esiti, quantunque manchi ancora l'esperienza dell'affidabilità nel tempo in presenza di aggressioni esterne.
In genere la rapidità di messa a fuoco, ottenuta quasi sempre mediante sensori a stato solido, corrisponde a quella dei più esercitati fotografi professionisti. In taluni modelli l'operatività autofocus può essere resa continua; altrove si può disporre di un trap-focus, ossia di uno scatto dell'otturatore comandato dall'autofocus non appena il soggetto inquadrato accede alla zona preventivamente focheggiata.
In genere, le cellule e i microcalcolatori sono contenuti nel corpomacchina, mentre il motore è ospitato nell'obiettivo. Esistono, tuttavia, obiettivi autofocus di progetto universale che possono essere applicati su diverse camere, anche non previste per tale dotazione. Nell'intento di migliorare l'automatismo di focheggiatura in caso di scarsa illuminazione, taluni costruttori hanno dotato la fotocamera di un flash accessorio dedicato: la corretta messa a fuoco viene determinata da un primo flash; un secondo flash servirà per illuminare la scena.
I flash dedicati. - Fotocamere automatiche vengono completate con flash incorporati, ovvero con flash dedicati. In genere un flash ''dedicato'', inserito nell'apposita slitta portaccessori, informa la fotocamera della propria disponibilità a funzionare, e questa sceglie un conveniente tempo di scatto. Questo tempo può essere modificato dall'operatore nei limiti imposti dall'otturatore.
Il diaframma viene determinato dall'automatismo o, in caso di apparecchi opportunamente dotati, dallo stesso operatore; in tal caso il flash si adeguerà regolando di conseguenza la durata del lampo per una corretta esposizione. È evidente che, quanto minore è il minimo tempo possibile di scatto, tanto maggiori sono le possibilità del fotografo di bilanciare la luce dell'ambiente rispetto alla luce del flash. Alcuni flash dell'ultima generazione posseggono una torcia zoom, accoppiata allo zoom dell'obiettivo che, a richiesta del fotografo, può essere disinserita. In tal modo la fruizione razionale dell'intera potenza del flash diventa possibile.
I trattamenti di laboratorio. - Nel ventennio successivo agli anni Sessanta si è assistito a una drastica riduzione, e sovente a un annullamento, delle pratiche di fotolaboratorio personale, prima enormemente diffuse. Parallelamente ai laboratori casalinghi, anche quelli di negozio sono andati scemando fino a quasi annullarsi.
Le ragioni di tale fenomeno sono da addebitare al decisivo affermarsi della f. a colori, che comporta sofisticate lavorazioni, e dell'unificazione dei trattamenti presso laboratori specializzati con macchine automatiche e semiautomatiche, capaci di trattare molte migliaia di copie all'ora a costi ridotti (fig. 4). I trattamenti normali locali possono essere considerati eccezionali a partire dalla metà degli anni Ottanta e si riferiscono soprattutto a lavori di carattere professionale. La grandissima parte delle lavorazioni viene accentrata in laboratori e macchine di altissima specializzazione.
Il trattamento delle pellicole negative viene eseguito in complessi apparati in grado di sviluppare migliaia di pezzi al giorno. Si distinguono in apparati discontinui e continui. Nei primi vengono trattati soprattutto materiali di carattere professionale, stante il rigore procedurale: a serie di telai vengono applicate le pellicole; i telai si muovono secondo programmi preorganizzati, trasferendo le pellicole di bagno in bagno entro alcune (per lo più sette) vaschette contenenti i diversi bagni di trattamento o i liquidi di lavaggio. Apparati di controllo consentono agli operatori d'intervenire con prodotti chimici per rigenerare i bagni che, in tal modo, possono durare anche alcuni anni. Nei laboratori più grandi, i test dei bagni sono eseguiti mediante computer.
Nelle macchine continue, le pellicole vengono trascinate senza interruzione da un bagno di trattamento a uno di lavaggio, a un altro di trattamento, e così via, con risultati graditi alla maggior parte di utenti della fotocolor. Esiste altresì una categoria di macchine (pre-splicer) in grado di trattare, sempre in continuità, centinaia di pellicole 35 mm incollate l'una all'altra, fino a formare una bobina non dissimile dalle pizze cinematografiche. Il trattamento delle diapositive viene eseguito in macchine di concezione non dissimile.
In merito alla stampa delle copie fotografiche, i procedimenti dei grandi laboratori variano dalla stampa quasi manuale a quelle altamente meccanizzate. La prima, derivante dai vecchi ingranditori manuali, prevede un ingranditore computerizzato ove, digitando su una tastiera, s'imposta il formato delle copie e il rapporto d'ingrandimento. L'esposizione viene realizzata con fotocellule operanti in combinazione con l'esperienza dell'operatore, il quale deve intervenire provocando nel computer un ragionamento analogo a quello di uno stampatore esperto. Nei casi più normali, i soli programmi operativi risultano sufficienti. Nei procedimenti più meccanizzati, per formati di stampa predeterminati, fra il 10 × 15 cm e il 30 × 45 cm, uno scanner analizza la negativa illuminata su 125 punti, ricavandone dati di esposizione e filtratura riferibili a modelli preimpostati. Le vasche per lo sviluppo di f. positive possono contenere anche 1000 litri di rivelatore e 500 litri di sbianca. I lavaggi intermedi vengono effettuati in acqua filtrata di durezza pari a 13÷15 gradi francesi.
La capacità operativa degli apparati più veloci può raggiungere anche le 20.000 copie orarie, per il formato 10 × 15 cm. Viceversa, macchine adatte a produzioni di carattere e qualità professionali possono arrivare a 200÷300 copie orarie. L'unificazione dei formati fotografici, tendente al 24 × 36 mm, e a 6 × 6 oppure 6 × 7 cm delle pellicole 120, risponde alla praticità dei grandi complessi di trattamento.
Materiali sensibili di ripresa. - L'applicazione di nuovi principi e recenti invenzioni ha permesso la fabbricazione di pellicole negative di qualità nettamente superiore rispetto alle precedenti. Con questo s'intende far cenno all'aumentata nitidezza generale, alla maggior fotosensibilità, nonché alla riduzione della granulosità. Questi risultati derivano soprattutto dall'applicazione di cristalli piatti di alogenuro d'argento, gemellati con cristalli più piccoli, ove possono depositarsi molti pigmenti di sensibilizzazione, garantendo così aumento di fotosensibilità senza aumento della grana e, contemporaneamente, incrementando il cosiddetto effetto di contorno, ovvero l'impressione di nitidezza. Gli strati sensibili ai tre colori primari tendono dunque a diventare doppi. In taluni casi i due strati analoghi sono contigui; alcune case fabbricanti preferiscono invece realizzare due separate serie dei tre strati, sempre separati dalle cosiddette ''sostanze attive'', ovvero dai copulanti bianchi, per migliorare la separazione dei colori, e da pigmenti-schermo per evitare quanti di luce deviati dai cristalli di alogenuro d'argento. Vedi tav. f.t.
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Produzione e innovazioni. - L'eccezionale progresso della f. è tributario dello sviluppo delle conoscenze nei tre settori disciplinari che contribuiscono, anche oggi, allo sviluppo della f.: l'automazione, in termini di gestione delle funzioni della fotocamera, l'ottica, indirizzata a progettare obiettivi a prestazioni più sofisticate di quelle richieste da altri settori più convenzionali, e la chimica, responsabile delle emulsioni, dei prodotti e dei bagni di trattamento del materiale sensibile. Il notevole ulteriore progresso che si è registrato negli ultimi lustri non è stato tuttavia recepito, nei tre settori, con un impatto corrispondente ai contenuti reali.
Un posto preminente spetta alla chimica fotografica, che ha generato le emulsioni: è infatti possibile ottenere immagini senza fotocamera e senza obiettivo, ma non si può fare a meno del materiale sensibile. Questa priorità gerarchica non colpisce l'immaginazione degli utenti con altrettanta evidenza come gli sviluppi verificatisi negli altri due comparti: valga l'esempio degli zoom- per l'ottica − e l'elettronizzazione delle fotocamere, per l'automazione.
La produzione delle apparecchiature fotografiche ha registrato un elevato incremento a partire dalla seconda guerra mondiale, in un momento in cui i paesi vinti, Germania e Giappone, hanno cercato, pur con diverso approccio, i settori più promettenti di mercato.
La Germania, forte di una tradizione di meccanica fine e di ottica, a differenza del Giappone, non ha saputo tuttavia decidere per l'ampliamento dei mercati nei quali, rispetto ai lotti tradizionali di mille obiettivi, è possibile lanciare produzioni cento volte maggiori. Il Giappone, che possiede pure una tradizione meccanica di ottimo livello, ma è forse meno avanzato sul fronte dell'ottica, ha intuito la mutata dimensione del mercato e ha iniziato − prima ripercorrendo le vie tedesche, poi innovando in modo autonomo − a collocare in tutto il mondo centinaia di migliaia di fotocamere e obiettivi, i cui costi ridotti hanno confinato la produzione germanica in una nicchia, pur sofisticata, ma economicamente meno rilevante. Un fenomeno, questo, favorito dal grande sviluppo della componentistica elettronica giapponese, unica efficace e reale antagonista, in questo settore, degli USA.
Automazione: l'elettronica. − Non appare improprio, nel caso della fotocamera, parlare di automazione di processo, dal momento che ci si avvale di sensori d'ingresso, di elaborazione elettronica e di attuazione, in uscita, per la gestione delle funzioni.
A partire dagli anni Sessanta, l'automazione subisce un profondo rinnovamento, a seguito della scoperta dei dispositivi allo stato solido. L'integrazione a larghissima scala (VLSI) permette così la realizzazione dei microprocessori e apre l'era dell'informatica distribuita. La f. non può non approfittare di questa favorevole occasione.
Da parte di alcuni utenti esiste tuttora, anche se in misura inferiore rispetto al passato, una certa diffidenza verso l'elettronica. È pur vero che lo straordinario aumento del numero di funzioni aumenta la probabilità di malfunzionamento, ma occorre ricordare che l'affidabilità raggiunta dai dispositivi allo stato solido è eccezionalmente elevata. Due fatti, tuttavia, hanno contribuito a sostanziare le convinzioni degli amanti delle fotocamere meccaniche. Il primo, ormai superato, è legato alla scarsa esperienza iniziale dei produttori di fotocamere, che non hanno preso in sufficiente considerazione la ''mortalità infantile'' di un componente che, per possibili difetti di fabbricazione, può guastarsi entro breve tempo dall'inizio della sua messa in opera, ma che, superato questo periodo, ha una vita valutabile in centinaia di migliaia di ore, pari a decine di anni di servizio continuo. La fotocamera dovrebbe, mediamente, permettere la ripresa, senza inconvenienti, di molti milioni di immagini. A questo livello, tuttavia, è l'usura meccanica a porre un limite alla durata di vita. La circuiteria provvede infatti all'elaborazione dei segnali, che provengono dai diversi sensori (esposizione e messa a fuoco, per es.), ma si avvale di attuatori meccanici per la loro gestione. È indubbiamente questo il vero limite.
Il secondo fatto è di natura psicologica; un microprocessore possiede, potenzialmente, una quantità enorme di funzioni, certamente molte di più di quelle che potevano essere richieste quando tale dispositivo fu usato per la prima volta in una fotocamera: una sovrabbondanza che ha sollecitato il progettista a cercare di ottenerne un maggiore sfruttamento (benché talune scelte operate in questo senso, dai diversi produttori, siano piuttosto discutibili).
È tuttavia probabile che questa fase di ricerca e identificazione delle scelte essenziali sia ancora in corso, come dimostrano alcune inutili opzioni offerte da qualche fotocamera. Molte sono infatti le prestazioni che hanno poco a che vedere con un corretto uso dell'automazione, che dovrebbe facilitare l'attività e ridurre la probabilità di errore, senza far leva su presunte, ma non verificate, esigenze di un'utenza media, in possesso di insufficiente cultura tecnica. La frazione attuale più rilevante del mercato è infatti formata da acquirenti che attendono il nuovo, senza essere in grado di proporlo, né quindi di effettuare scelte oculate. È chiaro che questo processo, se funziona in termini di collocazione del prodotto, non è certo il migliore dal punto di vista dell'utilizzazione ottimale delle risorse, né da quello della promozione di uno sviluppo tecnologicamente corretto. D'altra parte è convinzione dei produttori che la fotocamera amatoriale sia un prodotto ''maturo'', la cui promozione deve necessariamente ricorrere all'offerta di prestazioni particolari, anche se scarsamente utili o essenziali; ciò è dimostrato dal fatto che le macchine di tipo professionale fanno uso di automatismi, ma li limitano al veramente necessario. È probabile che la strada maestra dell'automazione sia ancora da identificare con esattezza, e che avremo modo di assistere, nel giro di alcuni anni, a una maggiore ricerca di essenzialità. Gli ultimi decenni sono stati caratterizzati dalla spinta tecnologica, ma è da ritenere che, nel tempo, possa prevalere l'effetto della richiesta da parte di un'utenza culturalmente più progredita.
Le attuali fotocamere utilizzano parecchi sensori di radiazione luminosa, sia per la misura dell'esposizione TTL (Through The Lens: "attraverso l'obiettivo"), sia per la messa a fuoco automatica. Sono rivelatori al silicio o a semiconduttori composti, corretti, quelli esposimetrici, per una risposta spettrale fotopica, del tipo cioè di quella dell'occhio umano. La sofisticazione in questo settore è rilevante: si usano matrici di fotocellule, i cui segnali sono confrontati con i dati presenti nella memoria del microprocessore, permettendo in tal modo di determinare l'esposizione più adatta alle condizioni di luminanza del soggetto. L'operatore può privilegiare la priorità del diaframma o quella dei tempi di posa, e l'elettronica provvede a determinare il valore ottimale dell'altro parametro. È pure possibile optare, con molti tipi di fotocamere, per la funzione Program, con cui l'automatismo sceglie ambedue i valori, con uno ''spazzolamento'' programmato che prova una serie di coppie di esposizione, fino a trovare quella corretta.
Il microprocessore viene informato della sensibilità della pellicola, manualmente, o tramite un automatismo a codice DX, impresso sul caricatore, che viene letto dalla fotocamera. Usando il lampeggiatore elettronico − con il DM (Direct Metering: "misura diretta") − l'automatismo di esposizione TTLflash può essere gestito dalla fotocamera. La luminanza del soggetto viene in tal caso misurata in tempo reale − nel corso dell'esposizione − da una fotocellula che ne legge il valore riflesso sulla superficie dell'emulsione, e provvede a interrompere l'emissione luminosa − con una risoluzione di microsecondi − nel momento in cui è stata raggiunta l'esposizione corretta. Con una particolare gestione del sistema di lettura esposimetrica a matrice, è possibile realizzare un'immagine in cui il primo piano sia correttamente illuminato dal lampeggiatore, mantenendo però aperta la tendina anche dopo l'emissione del lampo, fino a esposizione corretta.
Anche la messa a fuoco automatica si avvale di sensori, acustici per il tipo a ultrasuoni, ma più comunemente costituiti da schiere di CCD (Charge Coupled Devices: "dispositivi a trasferimento di carica"), fotosensibili, con cui è possibile, per es., controllare la massimizzazione del contrasto che corrisponde alla messa a fuoco. Anche in questi casi il microprocessore gioca un ruolo determinante, ma si avvale di un motore per movimentare l'obiettivo.
L'elettronizzazione delle fotocamere impone l'elevata sicurezza di un colloquio, sempre più complesso, tra corpo-macchina e periferiche asservite, obiettivi e lampeggiatori: una sicurezza-precisione che non sempre può essere garantita dall'uso di periferiche universali, non prodotte cioè dallo stesso fabbricante della fotocamera. Per di più, sia il sistema esposimetrico che, soprattutto, quello di messa a fuoco automatica o di trasporto motorizzato della pellicola − con raffiche che possono superare i 5 fotogrammi/s − richiedono sorgenti di energia elettrica, pile o batterie, che possono rappresentare un costo gestionale aggiuntivo non trascurabile. Anche in questo settore c'è stata una sensibile innovazione, con l'adozione del litio, leggerissimo, a elevata capacità e limitatissima autoscarica, che fornisce una tensione tipica di 3 V per elemento, ma a un costo abbastanza elevato. La pila è quindi diventata un prodotto di consumo per la f., al pari della pellicola.
Vale tuttavia la pena sottolineare che tutti gli automatismi messi in opera possono solo aiutare l'operatore a produrre immagini tecnicamente corrette; una moderna fotocamera può infatti risolvere − automaticamente e con buoni risultati − la f. intesa come documentazione; aiuta la creatività, ma non la può produrre. È anche improbabile che un operatore raggiunga la totale padronanza di tutte le funzioni che una fotocamera è oggi in grado di offrire; è una ridondanza che va a scapito del costo e della rapidità e semplicità operative.
Ottica. − L'ottica è più antica della f., ma solo nella seconda metà del 19° secolo si comincia a parlare di obiettivi dedicati alla ripresa, inducendo i progettisti a studiare obiettivi più luminosi e più corretti. La f. ha infatti requisiti più severi di quelli che sono richiesti dalla produzione ottica convenzionale.
Fin dall'inizio del 20° secolo la progettazione aveva raggiunto traguardi notevoli; il Tessar- l'occhio d'aquila − è del 1902, e nel 1925 era disponibile sul mercato una fotocamera con un obiettivo f/1,8. Il tutto, però, avveniva attraverso un processo estremamente laborioso, soprattutto nello sviluppo delle tabelle necessarie alla produzione di serie. Questo stadio richiedeva infatti un lavoro misurabile in anni-uomo, per un obiettivo di media complessità. Tale lentezza è rimasta praticamente inalterata fino all'avvento degli elaboratori, alla metà degli anni Cinquanta. È il momento del Giappone e dei lotti di produzione di 100.000 pezzi, con il conseguente abbattimento dei costi.
Ai tempi della seconda guerra mondiale i Tedeschi detengono ancora il primato tecnologico; hanno scoperto i trattamenti antiriflettenti e sono forti di una scuola ottica-fotografica che genera tecnici capaci di costruire obiettivi tanto raffinati, da farli usare nei rilievi fotogrammetrici da bordo delle fortezze volanti USA, nel corso della seconda guerra mondiale. Con gli anni Cinquanta si afferma la produzione giapponese, e solo con un certo ritardo la Germania imbocca la strada della massima sofisticazione, nella quale le quantità prodotte non sono tanto elevate da costituire un'attrattiva sufficiente per l'industria nipponica, conscia, fra l'altro, della maggior esperienza e tradizione tedesca. La ricerca tedesca è in ogni caso all'avanguardia: C. Zeiss ed E. Leitz continuano a percorrere strade innovative, ma la tecnologia giapponese insegue sempre più da vicino, fino a muoversi in direzioni originali. La ricerca di soluzioni al problema dell'elevata luminosità trova Tedeschi e Giapponesi su diverse posizioni: i primi studiano vetri con proprietà avanzate (alti indici di rifrazione, per poter usare lenti a maggior raggio di curvatura, intrinsecamente più corrette); i secondi optano per le lenti asferiche, che correggono le aberrazioni modificando il profilo di curvatura del diottro.
Anche in Giappone si studiano vetri a maggiore indice di rifrazione, ma inizialmente vengono adottate soluzioni che impiegano ossidi debolmente radioattivi, che i Tedeschi non usano, per evitare qualunque effetto sulle emulsioni, anche a lungo termine. In Germania inoltre si preferiscono gli ossidi di elementi delle terre rare, particolarmente costosi: il vetro, a livello di sbozzo, raggiunge alcuni milioni di lire/kg.
Due le direzioni di sviluppo dell'ottica del dopoguerra, accentuatesi negli ultimi lustri: la progettazione degli zoom, resa possibile dal calcolo elettronico, e la ricerca di elevate luminosità, con i conseguenti problemi di correzione delle aberrazioni. In ambedue le direzioni si sono fatti notevoli passi in avanti. Negli zoom, in qualche caso, la qualità ottica ha raggiunto livelli tali da poter sostenere validamente il confronto con le migliori focali fisse; tale sviluppo è stato ampiamente sostenuto da un'eccellente risposta del mercato.
Occorre tuttavia osservare che, se l'impegno di ricerca, progetto e, soprattutto, industrializzazione, prodotto per gli zoom, fosse stato speso sulle ottiche a focale fissa, avremmo oggi a disposizione, a prezzi accettabili, quegli obiettivi a prestazioni straordinarie, che vengono invece offerti a cifre assai elevate. Com'è noto, un obiettivo è un compromesso, da definire sulla base delle prestazioni che si privilegiano: un obiettivo perfetto non potrà probabilmente essere mai costruito. La lente singola è affetta da una serie di aberrazioni, che vengono più o meno parzialmente corrette con aggiunta di altre lenti. L'aumento del numero di questi elementi − tanto maggiore quanto più alta è la luminosità e quanto più corta è la focale − induce una riduzione del microcontrasto, da cui dipende la nitidezza dell'immagine; il problema è particolarmente complesso nel caso degli zoom, che usano anche oltre 15 lenti.
Fra le innovazioni più recenti va citata la tecnica IF (Internal Focusing), che ottiene la messa a fuoco spostando un gruppo di lenti interno all'obiettivo: ciò conferisce maggior robustezza e rigidità al sistema, apprezzabile specie con le lunghe focali.
Chimica. − Come si è detto, è il settore preminente, in f., fin dagli inizi. Per evidenziare il progresso globale prodotto, in termini di sensibilità, basterà ricordare che i primi dagherrotipi richiedevano pose dell'ordine di 10 minuti, con una sensibilità corrispondente valutabile al disotto di 0,001 ASA. Attualmente, sia pure con tiraggio (sottoesposizione e sovrasviluppo), si può arrivare a 50.000, con un guadagno di circa 100 milioni di volte. Il dagherrotipo, migliorato da R. Namias e da altri ricercatori, moltiplicava per 20 la sensibilità: il guadagno scendeva quindi a circa 5 milioni di volte. È solo con la gelatina di Maddox che si superò il ''muro'' di 1 ASA. Il vantaggio attuale è ancora di 50.000 volte. Il materiale più sensibile degli anni Quaranta, la Isopan Ultra dell'Agfa, che l'odierna nomenclatura chiamerebbe 200/24 ISO, con una granulosità assai vistosa, risultò ancora 250 volte meno sensibile della T-Max P3200 Kodak, sia pur tirata. I grani tabulari (T-Grains, una scoperta Kodak) sono la grossa novità delle più recenti emulsioni. Il classico assunto secondo cui alta sensibilità equivale a elevata granulosità va rivisto, alla luce delle moderne acquisizioni. La granulosità non è quella dei singoli cristallini di argento metallico nero, ma degli agglomerati di tali elementi; è tanto più elevata, quanto maggiore è il volume dell'agglomerato, come somma dei contributi di n cristalli singoli. La sensibilità, a sua volta, è tanto maggiore quanto più ampia è la superficie esposta ai fotoni luminosi incidenti, perché la probabilità di cattura dei fotoni, che obbedisce a una distribuzione di Poisson, è funzione della superficie di raccolta.
I cristalli di alogenuro delle emulsioni convenzionali sono tipicamente tridimensionali; la sensibilità dell'emulsione che se ne ottiene dipende, si è detto, dall'ampiezza della superficie esposta all'impatto dei fotoni. Il volume dell'agglomerato di argento, responsabile della granulosità, sarà pari alla somma di un certo numero n di cristalli singoli. Riuscendo a produrre cristalli piatti, di minor volume singolo, ma di superficie pari a quella dei convenzionali, si ottiene un'emulsione di pari sensibilità − perché la superficie di cattura dei fotoni è la stessa − ma di minor granulosità, perché lo stesso numero n di cristalli dell'agglomerato che ne deriva ha un volume globale inferiore, dato che ciascuno degli n cristalli ha un volume più piccolo. A pari sensibilità, conseguentemente, con i cristalli piatti, si ha una granulosità inferiore e, reciprocamente, a pari granulosità, si ha una sensibilità superiore: la superficie esposta all'impatto dei fotoni, nei T-grains, è maggiore di quella offerta dai grani convenzionali, a parità di volume.
Si valuta che il guadagno, in termini di sensibilità, prodotto con i grani tabulari, sia di circa 3, aumentabile con un processo d'irruvidimento (un'altra scoperta Kodak) della superficie, per incrementarla. I grani tabulari sono stati sviluppati per il colore, i cui tre strati sovrapposti richiedono emulsioni tanto più sensibili quanto più sono profondi; la luce infatti si attenua, attraversando i primi due, prima di pervenire al terzo, la cui sensibilità dev'essere 2÷3 volte maggiore di quella del primo. Dopo il colore, i grani tabulari sono stati applicati anche nel bianco e nero dalla Kodak, con le emulsioni T-Max. Si tratta quindi di un deciso passo in avanti, che non è stato probabilmente riconosciuto con un'evidenza pari al valore effettivo.
La Ilford Delta, un'emulsione recente a grani tabulari geminati, si basa su cristalli a strati successivi − nucleo/guscio −, che presentano, dall'esterno all'interno, una concentrazione crescente in ioduro d'argento. Durante lo sviluppo, la liberazione progressiva di ioni iodio agisce da inibitore del processo, provocando un rallentamento tanto maggiore quanto più viene annerito ogni singolo grano. Ne risulta uno sviluppo frenato, tale da ridurre la formazione di argento metallico proporzionalmente alla quantità di luce che ha impressionato l'emulsione.
Il colore è favorito dalla forte prevalenza della richiesta; qui, la novità di maggior spicco è quella dei copulanti DIR (Development Inhibitor Releasing coupler). I copulanti sono una delle due parti del colorante, che, accoppiandosi a quella presente nel bagno di trattamento cromogeno, produce i tre colori − giallo, magenta e ciano −, uno per ogni strato del materiale sensibile.
I DIR, durante il trattamento, rilasciano un inibitore che controlla il processo localmente, là dove viene generato. Ne risulta una riduzione di granulosità, un aumento della saturazione cromatica e una migliore separazione di colore, fra le diverse zone dell'immagine. I copulanti DIR sono usati da tutti i produttori di emulsioni a colori.
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