FRANCESCANI
Denominazione comune dell'Ordine religioso dei Frati Minori che si connette a s. Francesco d'Assisi (1181/1182-1226).
Il gruppo, costituitosi attorno a s. Francesco a partire dagli anni 1208-1209, è segnalato nelle fonti quando ormai, ottenuta l'approvazione pontificia (1210), si era irrobustito numericamente, si era diffuso nelle varie regioni d'Italia, aveva organizzato una prima normativa e si era dato una denominazione definitiva e una struttura attraverso le riunioni capitolari annuali; sono queste le informazioni che si ricavano dalla lettera di Jacques de Vitry dell'ottobre 1216, la prima fonte che parla dei Frati Minori. Le precedenti vicende della 'fraternità' e la sua progressiva e rapida penetrazione nelle regioni dell'Italia centrale sono ricostruibili, pur con qualche problema, sulla base delle notizie offerte dalle prime biografie di Francesco d'Assisi, in particolare la Legenda trium sociorum e il c.d. Anonimus Perusinus, che più si diffondono a narrare del primo gruppo francescano. Si è così informati sulle sortite fuori dall'Umbria e sulle modalità di vita precaria e itinerante attraverso le regioni dell'Italia centrale. Le due fonti si soffermano poi a indicare lo sviluppo dei rapporti tra la prima 'fraternità' e la Curia romana, con la mediazione dapprima del cardinale Giovanni di S. Paolo e, in seguito, del cardinale Ugolino di Ostia. Particolare rilievo è dato alle modalità di svolgimento e di gestione dei Capitoli annuali, elemento forte di coesione, nel quale il gruppo minoritico organizzava progressivamente la propria struttura e articolazione interna - fino all'introduzione della carica di ministro nel contesto della diffusione nelle regioni transalpine (1217-1221) di quello che ormai era un ordine religioso - e provvedeva a darsi una normativa; alle vicende conclusive, che portarono alla redazione e approvazione definitiva della regola nel 1223 da parte di Onorio III, le due fonti dedicano particolare attenzione. Ulteriori indicazioni e precisazioni si hanno nelle lettere papali a partire dal 1219. Si trattava inizialmente di patenti di garanzia per i prelati ecclesiastici a favore dei Frati Minori che nella loro vita apostolicamente itinerante avevano raggiunto le terre del regno di Francia (Bullarium Franciscanum, 1759-1904, I, pp. 2, 5). Il 22 settembre 1220 il pontefice intervenne di nuovo, ma questa volta per incanalare entro l'alveo della tradizionale normativa della vita religiosa l'ammissione all'Ordine, con l'introduzione dell'anno di noviziato e della professione definitiva e irrevocabile, per ridurre i frati agli ambiti di una rigorosa dipendenza dalla gerarchia interna all'Ordine (Bullarium Franciscanum, 1759-1904, I, p. 6).Informazioni sulle modalità di vita in questo primo decennio si hanno da altre fonti, in particolare dal primo testo normativo pervenuto, la Regula non bullata, la cui redazione ultima è databile al 1221. Da essa si raccolgono indicazioni precise sull'assoluta atipicità, fluidità e varietà delle sedi e delle occupazioni dei frati: a servizio nelle case dei notabili e occupati nelle artes esercitate prima dell'ingresso nell'Ordine, per le quali era loro lecito avere e portare con sé gli strumenti necessari (cap. VII), o impegnati nell'assistenza ai lebbrosi (cap. VIII). Alcuni erano ufficialmente investiti del ruolo di predicatore (cap. XVII), altri venivano inviati tra gli infedeli (cap. XVI), altri ancora si ritiravano nell'eremo (cap. VII). La vita e il modo di abitare dovevano essere sempre e comunque connotati dalla spropriazione totale, dall'assoluto senso di precarietà e dall'apertura indiscriminata a tutti (cap. VII).Fonti documentarie di vario tipo (per es. atti notarili, diplomi episcopali) mostrano come tali modalità di vita abbiano progressivamente lasciato il posto a forme abitative più stabili, che si realizzarono spesso trasformando in sedi esclusive per i frati gli ospizi destinati a poveri, viandanti, infermi e lebbrosi, nei quali si era andata progressivamente costituendo una piccola e mobile comunità di Minori, o riadattando a dimora stabile per i frati luoghi di sosta presso chiese (Chiese e conventi, 1981; Pellegrini, 1984, pp. 83-100), che si andavano trasformando in luogo di culto di pertinenza esclusiva della comunità minoritica, come si evince dal privilegio papale del 29 marzo 1222 (Bullarium Franciscanum, 1759-1904, I, p. 9). Nel contempo andava assumendo sempre maggiore importanza la predicazione ufficiale, a scapito dell'impegno di lavoro manuale presso gli altri. I primi anni venti del secolo segnarono dunque una svolta nell'organizzazione istituzionale della fraternità: essa andava assumendo la struttura e le funzioni che la caratterizzavano ormai come nuova forma istituzionalizzata di vita religiosa. Erano gli elementi problematici e complessi di una precisa identità che veniva codificata in modo definitivo nella Regula approvata da Onorio III il 29 novembre del 1223 con la bolla Solet annuere (Die Opuscola, 1989, pp. 366-371). Con l'ingresso dei Frati Minori in Inghilterra nel 1224 e la loro progressiva espansione e organizzazione nel paese - puntualmente descritte da Tommaso di Eccleston (Tractatus de adventu) - si completava la mappa della diffusione nell'Occidente europeo, mentre i frati si rendevano presenti anche nelle regioni islamizzate della parte meridionale e orientale del bacino mediterraneo.Il generalato di frate Elia da Cortona (1232-1239), tanto contestato nelle fonti di vario segno e provenienza per innegabili abusi di potere (Giordano da Giano; Tommaso di Eccleston; Salimbene de Adam; Angelo Clareno), non modificò tale struttura, se non nella direzione di un maggiore impulso all'organizzazione degli studi e, di conseguenza, nella tendenza a costituire robuste entità comunitarie nei centri urbani. Ciò pose le premesse ufficiali per un rafforzamento dell'elemento dotto e clericale, che promosse la deposizione del ministro generale nel Capitolo romano del 1239 (Giordano da Giano, Chronica, 63-67; Tommaso di Eccleston, Tractatus de adventu, 77-83) e diede all'Ordine una svolta in senso nettamente clericale, emarginando in modo definitivo l'elemento laico e impartendo norme rigorose per la sua riduzione allo stretto necessario per i servizi domestici. Con questo Capitolo ebbe inizio l'attività costituzionale per regolamentare l'ordinamento interno, che si andava configurando ai ritmi e alle modalità della vita monastica, e per tentare di risolvere le contraddizioni tra le esigenze delle grosse entità conventuali e le severe norme della Regula circa la povertà. L'informe raccolta delle Constitutiones emanate fino al 1257 (Brooke, 1959; Cenci, 1990) venne riorganizzata dal ministro generale Bonaventura da Bagnoregio, eletto in quell'anno, in un testo costituzionale organico approvato dal Capitolo generale di Narbona nel 1260 (Bihl, 1941).Bonaventura era stato uno degli elementi di maggior spicco nella vivace, anzi rovente polemica che nell'Università di Parigi aveva contrapposto i magistri degli Ordini mendicanti ai magistri secolari, i quali si erano fatti portavoce non solo di malumori interni contro Domenicani e F., ma delle rimostranze da parte del clero locale che rivendicava diritti ed emolumenti connessi con la cura animarum contro l'invadenza pastorale dei Mendicanti. Tale polemica dal terreno delle rivendicazioni pratiche (Dufeil, 1972) si era spostata sul piano delle concezioni teoriche sulla vita e sul ruolo dei religiosi nella Chiesa, anzi sul modo stesso di intendere l'ecclesiologia (Congar, 1961). Le vicende della polemica sono il segno più evidente del ruolo primario e prestigioso al quale i F. erano assurti nella Chiesa e nella società accanto ai Domenicani: la corposa presenza con grandi sedi conventuali, il pervasivo attivismo nei vari settori - pastorale, socioeconomico, politico, giuridico-normativo, infrastrutturale - della dinamica e inquieta realtà urbana, il ruolo da protagonisti nel controllo e nella repressione della dissidenza religiosa e nell'organizzazione associativa della religiosità e della devozione, l'intraprendenza nell'orientare, sollecitare e raccogliere donativi e lasciti testamentari ponevano più di un problema di rapporto con le altre componenti socioreligiose e scatenavano tensioni, al limite della contestazione, all'interno dello stesso Ordine. Bonaventura era stato eletto su indicazione del suo predecessore, Giovanni da Parma, nei confronti del quale egli dovette poi intentare un processo per stornare il sospetto di gioachimismo deviante che gravava sull'Ordine. Il nuovo generale si impegnò sui due fronti: intervenne energicamente, nelle lettere ai superiori dell'Ordine, contro gli abusi dei continui e dispendiosi cantieri edilizi, che denunciò come scandalosi al pari della caccia ai lasciti e testamenti e delle eccessive e fastidiose questue; rielaborò l'immagine agiografica del fondatore, nell'intento di trasformare Francesco e il suo Ordine in elemento chiave di una rilettura escatologica della storia, utilizzando a questo scopo concetti e immagini dal fertile terreno delle interpretazioni gioachimite. La sua opera moderatrice e il suo grande prestigio sembrarono poter riportare equilibrio e tranquillità.La situazione all'interno esplose proprio in occasione del concilio di Lione (1274), dove i due prestigiosi e influenti cardinali, il francescano Bonaventura e il domenicano Pietro di Tarantasia, avevano efficacemente perorato la causa dei due maggiori Ordini mendicanti. La discussione sui problemi relativi all'attuazione pratica dell'ideale di povertà - le cui vicende sono narrate da una fonte di parte, il Chronicon di Angelo Clareno - provocò, a partire da questo periodo, una frattura che non poté più essere sanata. Seguirono anni di tensioni, di aspre polemiche, di lotte, di contestazione e di repressione, che coinvolsero i superiori delle province - particolarmente in Italia delle Marche, dell'Umbria, della Toscana e in Francia della Linguadoca -, la dirigenza suprema dell'Ordine, i cardinali delle grandi famiglie romane Colonna e Orsini e i principi aragonesi di Sicilia e angioini di Napoli, che protessero spirituali dissidenti come Angelo Clareno, i pontefici da Niccolò IV a Celestino V, a Bonifacio VIII, a Clemente V, che investì del problema lo stesso concilio di Vienne (1312), come riferiscono gli scritti prodotti nell'occasione sia dalla comunità sia da Ubertino da Casale, esponente degli Spirituali (Ehrle, 1886-1887; Potestà, 1980). Con Giovanni XXII si arrivò a uno scontro sul tema della povertà di Cristo e degli apostoli, che contrappose frontalmente il pontefice alla stessa dirigenza dell'Ordine - il ministro generale Michele da Cesena e Buonagrazia da Bergamo - e allo stesso Capitolo generale riunito a Perugia nel 1322 (Lambert, 1961, pp. 223-242; Bartoli Langeli, 1974; Tabarroni, 1990). La vicenda si intrecciò con la situazione di crisi dei rapporti fra papato e impero: i principali e più alti esponenti della dissidenza francescana si affiancarono a Ludovico il Bavaro nel contrapporre a Giovanni XXII come antipapa il francescano Pietro Rainalducci da Corvaro con il nome di Niccolò V (1328-1330).In reazione al successivo adeguamento pratico da parte dell'Ordine agli indirizzi della politica papale in tema di povertà, instaurata da Giovanni XXII, alcuni frati dell'Umbria, abbandonata la polemica verbale, scelsero il ritiro in minuscole comunità in luoghi poveri e appartati. L'esperienza, avviata da fra Giovanni della Valle presso l'eremo di Brogliano (Foligno) e proseguita dopo breve interruzione e con successo da fra Paoluccio Trinci, rimase fin verso la fine del sec. 14° un fenomeno limitato alle regioni dell'Italia centrale e controllato dalla dirigenza dell'Ordine. A partire dall'ultimo decennio del secolo analoghi movimenti di riforma sono segnalati in Francia e in Spagna, ma è soprattutto in Italia che il moto riformatore prese vigore per espandersi nelle regioni dell'Europa centro-orientale. Ne furono protagonisti Bernardino da Siena, Giovanni da Capestrano, Giacomo della Marca e Alberto da Sarteano. A seguito dei falliti tentativi di mantenere l'unità dell'Ordine attraverso provvedimenti costituzionali di carattere riformatore (le Costituzioni Martiniane, del 1430; Wadding, 1931-1933, X, pp. 178-187), si arrivò a una pratica e definitiva divisione con la bolla Ut sacra, emanata da Eugenio IV nel 1446.
Bibl.:
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L'architettura dei F. nella storiografia artistica è generalmente considerata all'interno del capitolo dell'architettura degli Ordini mendicanti, ma di fatto, almeno per buona parte del Duecento, e sicuramente fino alla metà del secolo, è da considerarsi come momento autonomo. Marcati fenomeni di assimilazione tra i discorsi e i modi proposti in architettura dai singoli ordini - Domenicani, Servi di Maria, Eremiti di s. Agostino, oltre naturalmente ai F. - appaiono infatti in momenti successivi e si consolidano comunque a partire dal valico tra Duecento e Trecento.Gli anni delle origini e quelli fino alla metà del secolo - di fatto i meno noti anche per la mancanza di analisi architettoniche e archeologiche su organismi tuttora esistenti, ma pressoché tutti trasformati per sopperire alle esigenze di un Ordine, esso stesso mutato rispetto ai postulati originari - costituiscono di fatto la vera questione dell'architettura francescana, il momento in cui, ponendosi in contrapposizione di idee, ma anche di immagine, rispetto alle "grandi accademie architettoniche del maturo Medioevo europeo" (Romanini, 1986, p. 182), si dà forma a strutture architettoniche di traumatico impatto visivo e anche emotivo, come la chiesacapannone o fienile (Gross, 1937), autentica realtà di rivoluzione rispetto ai tipi e ai modelli architettonici europei. Gli anni successivi segnarono il rientro di questo modello ideale di vita e di immagine nei canoni del linguaggio dell'architettura duecentesca o più precisamente l'adeguamento e l'assimilazione nei tipi proposti dagli altri Ordini mendicanti, la cui storia si era fin dalle origini incanalata nei binari di una attività di tipo eminentemente pastorale.Le vicende dell'architettura francescana vanno dunque considerate in strettissima relazione con le vicende dell'Ordine, derivando da esse una netta distinzione in momenti diversi, spesso tra loro tanto antitetici da risultare quasi versanti contrapposti di una lacerante contesa polemica, endogena allo stesso Ordine, che di fatto, andando a coinvolgere le stesse questioni istituzionali, portò alla divisione tra coloro che intendevano perseguire con assoluta fedeltà il modello di vita e azione proposto dallo stesso Francesco e coloro che, invece, vedevano la vita dell'Ordine strutturata secondo schemi più idonei a una vita di impegno pastorale (v. Francescanesimo).Tra i termini di questa contrapposizione, l'architettura, cioè il problema degli edifici dove vivere ed esplicare la propria attività, costituisce uno tra gli elementi più dibattuti.Ancora più importante appare la questione architettonica nel momento delle origini e ciò proprio per il diretto coinvolgimento dello stesso fondatore con problemi e questioni di tipo architettonico; se infatti alcuni tra gli episodi più significativi della vita di Francesco, così come sono raccontati dalle fonti, si svolgono sullo sfondo di architetture ben definite e individuabili, dalla chiesetta di S. Damiano a quella della Porziuncola, proprio questi edifici costituiscono il banco di prova dell'intervento di Francesco come restauratore. Sono le stesse fonti, dalla Vita prima (VIII, 18) di Tommaso da Celano al c.d. testamento di s. Chiara, a parlare esplicitamente degli interventi di restauro operati da Francesco; ne furono oggetto la chiesa di S. Damiano, la cappella della Porziuncola, nonché un terzo edificio, la chiesa di S. Pietro che sorgeva nei dintorni di Assisi (Vita prima, IX, 21; Legenda Maior, II, 7). Ma questa sua attività sembra essere messa in secondo ordine già dalle redazioni più tarde delle biografie, che ne sfumano intenzionalmente l'entità: la Legenda Minor (I, 5) infatti, pur riportando l'episodio e la frase del Cristo di S. Damiano "Francesco, va, ripara la mia chiesa, che, come vedi, va tutta in rovina", ne dà una lettura diversa. La frase è interpretata come monito ed esortazione a un intervento a più ampio raggio sull'istituzione ecclesiastica, piuttosto che in stretto riferimento al singolo edificio, e anche la Vita secunda di Tommaso da Celano annotava come "Perché, quantunque il comando del Signore si riferisse alla Chiesa acquistata da Cristo col proprio sangue, [Francesco] non volle di colpo giungere alla perfezione dell'opera, ma passare a grado a grado dalla carne allo spirito" (VI, 11). Dalle prime narrazioni emerge comunque viva l'immagine di Francesco attivo al restauro materiale di ben determinate strutture architettoniche; l'edizione critica di questo nuovo tipo di fonti francescane è ancora in corso, ma la sua rilevanza è fondamentale. L'indagine archeologica, necessaria per recuperare in contesti architettonici complessi, sopraffatti da superfetazioni e interventi successivi, l'integrità del documento originale, il testo elaborato dallo stesso Francesco, può infatti consentire di rileggere i primi documenti di autentica architettura francescana, senza possibilità di confusioni e contaminazioni con quanto definito come mendicante (Romanini, 1986). Negli edifici di S. Damiano e della Porziuncola l'intervento può essere individuato nell'inserzione di volte a botte a sezione archiacuta con piano di imposta fortemente ribassato, innestate in modo pesante e non privo di incertezze sulle pareti laterali del vano unico delle cappelle e le cui caratteristiche appaiono inedite per il territorio umbro. Per esse e per l'esito finale dell'intervento del restauro di Francesco si è individuato un collegamento, che, oltre che tipologico, si qualifica soprattutto come ideale, con le strutture delle cappelle inserite nelle strutture di produzione cistercensi (v. Cistercensi), destinate alle pratiche religiose dei conversi, alle quali Francesco appare significativamente collegarsi anche nella scelta del suo abito e di quello dei primi compagni (Romanini, 1986).È di questo momento anche la questione dell'edilizia abitativa dei primi F., problema non meno controverso di quello dell'architettura religiosa. In questo caso si deve tenere conto anche della forte opposizione dello stesso Francesco che, anche nel Testamentum (28-29), ammoniva i suoi frati a non accettare "chiese, povere abitazioni e quanto altro viene costruito per loro, se non siano come si addice alla santa povertà, che abbiamo promesso nella Regola, sempre ospitandovi come forestieri e pellegrini".Testimonianza singolare dei primi edifici abitativi è la c.d. casa del Comune, le cui tracce sono ancora oggi ben leggibili al di sotto dell'abside della chiesa di S. Maria degli Angeli presso Assisi. Dell'edificio si conservano solo il piano pavimentale e i muri perimetrali, nonché le tracce di canalizzazioni idrauliche, strutture che rivelano una serie di interventi e di modifiche che attestano in modo inequivocabile il protrarsi nel tempo dell'uso della costruzione. Secondo le fonti francescane il Comune di Assisi, in occasione di un Capitolo dell'Ordine, forse quello del 1221, e in assenza di Francesco, aveva provveduto a far costruire una casa; ma, al suo ritorno, Francesco "amareggiato e addolorato [...] subito si accinse ad abbatterla: salì sul tetto e con mano vigorosa rovesciò lastre e tegole. Pure ai frati comandò di salire e di togliere quel mostro contrario alla povertà. Perché diceva qualunque cosa troppo vistosa fosse stata tollerata in quel luogo, ben presto si sarebbe diffusa per l'Ordine e sarebbe stata presa come esempio da tutti" (Vita secunda, XXVII, 57). Solo l'intervento dei soldati della città, che dichiararono che l'edificio apparteneva al Comune e non ai frati, salvò la struttura dalla completa distruzione. La stessa fonte (ivi, XXVIII, 58) ricorda anche il caso di Bologna. In questa città una costruzione era chiamata casa dei Frati; Francesco, udendolo, si rifiutò di entrare in città, ordinando ai suoi, inclusi gli ammalati, di abbandonare immediatamente la casa. Solo la dichiarazione pubblica fatta nel 1221 dal cardinale Ugolino, vescovo di Ostia e legato in Lombardia, che l'edificio era sua esclusiva proprietà riuscì ad appianare il caso.In questi testi si parla sempre di case, di semplici strutture abitative, prive di quegli elementi, come il chiostro, caratterizzanti l'architettura monastica, ma che furono mantenuti negli edifici di altri ordini mendicanti, come i Domenicani (v.). La testimonianza, costituita dai resti dell'edificio assisiate, lo conferma e ulteriore prova viene data da Giordano da Giano (Chronica, 43), che autobiograficamente ricorda come, nel 1225 a Erfurt, a chi gli proponeva di costruire per i frati una struttura "a forma di chiostro", egli stesso, "che non aveva mai visto chiostri nell'Ordine, rispose: Non so cosa sia un chiostro: edificateci semplicemente una casa vicino all'acqua, perché possiamo scendere in essa a lavarci i piedi" (Romanini, 1986).I dati sul periodo delle origini sono dunque molto eloquenti; al rifiuto della proprietà, e dunque alla rinuncia all'elaborazione di ogni specifica forma architettonica, si affianca l'uso di strutture proprie dell'architettura laica o l'adozione, là dove strettamente necessario, di modelli propri dell'architettura rurale o assistenziale: è quanto avviene a S. Damiano per ospitare nel 1212 la prima comunità femminile di s. Chiara (v. Clarisse), nell'inserzione dello spazio a semplice capannone del dormitorio al di sopra della volta della cappella (Romanini, 1986). Spazi destinati a funzioni assistenziali sono inglobati anche nelle strutture della prima fondazione romana, S. Francesco a Ripa, sorta intorno all'ospedale benedettino di S. Biagio; fin dal 1212 un gruppo di F. si era stabilito in questo luogo, ma l'ospedale era già stato, insieme con l'altro ospedale di S. Antonio presso il Laterano, uno dei due punti in cui a Roma era solito fermarsi Francesco. Parti superstiti di questo spazio, inglobate nelle più tarde strutture, sono ancora ben riconoscibili e costituiscono un importante documento della più antica presenza francescana a Roma (Righetti Tosti-Croce, 1978).Le rigide norme delle origini, confermate ancora nel Testamentum di Francesco, ma di fatto già erose nella loro vera essenza durante gli ultimi anni della sua vita, sono del tutto contraddette proprio nell'edificio memoriale del fondatore, la chiesa di S. Francesco ad Assisi, iniziata nel 1228, immediatamente dopo la canonizzazione, e promossa, secondo alcune fonti addirittura progettata, da frate Elia da Cortona, il compagno che lo stesso Francesco aveva designato a capo dell'Ordine.Pur essendo state sanate le questioni più formali relative alla proprietà, con l'affermazione da parte di papa Gregorio IX dell'appartenenza della struttura alla Santa Sede, che la concedeva in uso ai frati, e con la definizione di palazzo apostolico dell'annesso convento, appare evidente il tradimento e stravolgimento delle idee e dei propositi del fondatore per lo sviluppo del suo Ordine che, proprio sulla sua tomba, eresse un imponente edificio, articolato su due chiese sovrapposte, splendenti di affreschi e vetrate (v. Assisi). La chiesa di S. Francesco è stata interpretata anche come segno della vittoria sul Francesco storico (Belting, 1977), cioè come espressione della rivincita della Chiesa trionfante di Roma sull'ansia del ritorno alle origini evangeliche del cristianesimo, che era stata la motivazione precipua dell'assunzione dell'abito della povertà (Cadei, 1983).A questo edificio, rimasto sostanzialmente unico nelle vicende dell'architettura francescana, si affianca storicamente, per la presenza attiva di committente di frate Elia, la chiesa di S. Francesco a Cortona, costruita probabilmente a partire dal 1245, al ritorno di Elia dall'Italia meridionale, dove, presso la corte di Federico II, si era rifugiato dopo il suo allontanamento da Assisi e dall'Ordine. Si tratta di un edificio che nell'articolazione interna - un lungo rettangolo, coperto da un tetto a doppia falda con capriate a vista, concluso da tre cappelle, con la centrale preminente per elevazione e larghezza, tutte coperte da volte a crociera, ritagliate nel semplice liscio fondale del muro orientale (Cadei,1978; Bozzoni, 1994) - si qualifica come uno degli esempi più rilevanti di chiesacapannone, o chiesa-granaio secondo la definizione di Gross (1937), tipo architettonico che statisticamente appare il più diffuso nel grande fervore dell'architettura dei Francescani. L'articolazione interna qualifica immediatamente come fulcro di tutto lo spazio il fondale e il suo ritagliarsi nel profilo delle absidi, dove la luce che irrompeva dai grandi finestroni, in parte oggi tamponati, aperti nelle pareti di fondo, annullava la geometrica percezione di spazi definiti e misurabili, costituendo il fondale come schermo luminoso e proponendo una lettura essenzialmente scenica dell'invaso dell'edificio. Si tratta di elementi comuni alle contemporanee esperienze degli altri Ordini mendicanti, di nuovi modi di intendere gli spazi delle chiese, dove si afferma una progettazione e quindi una percezione 'drammatica', come se si trattasse di 'sacre rappresentazioni in pietra' (Romanini, 1978). L'architettura francescana si sviluppa, muovendosi proprio dalle idee che a Cortona appaiono già ben definite, nel contrapporre in dialogo serrato il dilatato e insieme pacato spazio longitudinale dell'edificio, destinato all'ascolto, con quello orientale, serrato da una ritmica contratta di tagli nelle pareti, volte articolate e profilate dalle linee di forza dei costoloni, finestre da dove la luce promana, modulata da tracery e vetrate.La costruzione del S. Francesco di Cortona, edificio certamente emblematico sia per struttura interna sia per il tipo di lessico architettonico adottato, che media elementi federiciani in un linguaggio già ben consapevole del Gotico transalpino ormai affermato nel cantiere assisiate (Cadei, 1978), è di fatto un episodio ormai maturo di un fermento architettonico che investì l'Europa medievale a partire dai centri più importanti per infiltrarsi capillarmente, nel giro di pochi anni, anche nei centri minori.L'inchiesta promossa da Le Goff (1970) per la Francia ha rilevato i tempi e i modi dell'insediamento mendicante nelle città, ma essi appaiono largamente applicabili ai vari contesti dell'Europa medievale (Guidoni, 1977): a una prima fase rappresentata da stanziamenti, spesso in condizioni precarie, fuori delle mura cittadine, ma nelle adiacenze di importanti vie di comunicazione, fanno seguito la ricerca di sedi all'interno delle mura urbiche, per lo più in prossimità delle porte, e infine, già intorno alla metà del secolo, l'insediamento in posizione chiave, nel cuore della città, in prossimità dei centri del potere laico; in questo momento i conventi francescani erano anche spesso connessi alle sedi del potere grazie alle funzioni di servizio che vi venivano espletate. Esemplare appare in questa scansione il caso della città di Roma, dove i F., dopo il primo stanziamento nei locali dell'ospedale benedettino di S. Biagio, in prossimità della via di comunicazione costituita dal Tevere, passarono poi, probabilmente intorno al terzo decennio del secolo, nella chiesa di S. Maria del Popolo, posta all'interno delle mura e strettamente contigua alla porta Flaminia; di qui infine, nel 1249, il trasferimento successivo fu nell'antica chiesa di S. Maria in Capitolio, poi rinominata S. Maria in Aracoeli, ubicata a costituire un lato della platea Capitolina, presso il palazzo Comunale della città. La chiesa era sfondo di importanti momenti della vita politica cittadina, essendo luogo designato per le riunioni del Consilium generale et speciale, mentre il chiostro fu teatro di importanti avvenimenti politici, come il giuramento nel 1265 di Carlo I d'Angiò come senatore di Roma (Righetti Tosti-Croce, 1978; 1991). Di fatto la politica di progressiva urbanizzazione, fenomeno che riguardò tutti gli Ordini mendicanti, dovette aprire ben presto notevoli questioni se, nel 1268, papa Clemente IV con la bolla Qui plerumque era intervenuto per determinare le distanze minime tra le sedi urbane dei diversi ordini. In pieno sec. 14° il francescano spagnolo Eximenis (Vila, 1984), a testimonianza del perdurare degli interessi dell'Ordine per una politica di programmazione urbanistica, aveva elaborato il progetto della divisione di ogni città in quattro quarti, ognuno affidato e controllato da un Ordine mendicante (Cuadrado Sanchez, 1991).La prima metà del Duecento è segnata architettonicamente da una serie di esperienze che appaiono quasi sperimentali, casi isolati come la basilica di Assisi e di fatto, come quella, rimaste prive di esiti; per tutte sono evidenti comunque la ricerca di una monumentalità e un impegno costruttivo in netto contrasto con i propositi del fondatore.Emblematici in questo senso i casi della Basilica del Santo di Padova e del S. Francesco di Bologna; il primo è di fatto anch'esso un edificio memoriale, sorto accanto alla chiesetta, allora suburbana, di S. Maria Mater Domini, dove erano state deposte le spoglie di Antonio, il predicatore francescano nato a Lisbona nel 1195 e morto a Padova nel 1231. La rapidissima canonizzazione avvenuta già nel 1232 fece sì che la tomba di questo nuovo santo francescano divenisse meta di pellegrinaggi, rendendo necessaria la costruzione di un edificio di maggiori dimensioni; la storia architettonica della chiesa si evolve e modifica in funzione della collocazione ottimale dell'arca dove erano state deposte le spoglie del santo. Alla fine la tomba fu ubicata nel transetto sinistro, con una scelta che appare mortificare l'idea architettonica della conclusione con deambulatorio; questa tipologia era stata infatti già adottata da chiese di pellegrinaggio, depositarie di importanti reliquie, e aveva sicuramente influenzato il progetto patavino (Cadei, 1985). L'edificio, che risulta già in costruzione nel 1238 (L'edificio del Santo, 1981), si presenta attualmente con un impianto a tre navate, con doppio transetto, deambulatorio e cappelle radiali, caratterizzato da un sistema di copertura a cupole sulla navata centrale, sul primo transetto, sul presbiterio e sul coro, mentre sulle navate laterali e sul deambulatorio si impostano volte a crociera costolonata (v. Padova). La storia architettonica dell'edificio vide però il definirsi della redazione attuale solo in un momento tardo; a partire dal 1263 la basilica, che, nel primo progetto, secondo alcune ipotesi (Salvatori, 1981), sarebbe stata impostata a navata unica con transetto, fu prolungata verso E con la costruzione del coro a deambulatorio, fondato nel 1267, ma che venne certamente concluso nel nono decennio del secolo. La costruzione delle cupole, le quali andavano a sostituire il precedente progetto, che prevedeva invece un sistema di volte a crociera esteso a coprire tutti gli spazi dell'edificio, dovette iniziare tra il sec. 13° e il 14°, mentre le ultime fasi del cantiere arrivarono a toccare la metà del 14° secolo.Una interessante derivazione, sia pure parziale, dalla Basilica del Santo è costituita dalla chiesa di S. Francesco a Curtarolo (prov. Padova); l'edificio presenta una terminazione a impianto pressoché quadrato, coperto da cupola con tamburo esterno. La struttura, realizzata in laterizio, è decorata con motivi di lesene e archetti. Le notizie sulla chiesa risalgono al 1238, ma la realizzazione di questa parte dell'edificio va sicuramente assegnata agli inizi del Trecento, costituendo una evidente replica immediata dei volumi esterni della basilica antoniana (Lorenzoni, 1989).Precoce appare invece la conclusione del cantiere del S. Francesco di Bologna, città in cui il primo stanziamento dei F. avvenne già nel 1213 nella chiesetta di S. Maria della Pugliola, ubicata fuori delle mura e in posizione non felice; dal 1236 presero così il via i lavori di una nuova sede più congrua per la vita dell'Ordine e per i suoi rapporti con l'Università. La chiesa fu consacrata nel 1251, ma i lavori dovettero protrarsi fino al 1263 (Cadei, 1985; Schenkluhn, 1985), o fino agli anni intorno al 1280, come attesta la presenza di numerosi lasciti (v. Bologna). Il procedere della costruzione fu segnato anche da incidenti, come quello del 1254, quando crollò la volta del coro alto, travolgendo vari operai, alcuni dei quali persero la vita; tra questi anche frate Andrea, il 'maestro della ghiexja' (Cadei, 1985): la notizia, oltre a dare un importante documento relativo al nome di un architetto interno all'Ordine, testimonia come nel cantiere si fosse verificato un cambio nella direzione dei lavori, che può forse spiegare la discordanza rilevabile tra spazio delle navate e spazio del coro, momenti architettonici che appaiono riferibili a diversi ambiti di architettura medievale europea.L'edificio presenta una pianta articolata su tre navate di sette campate, seguite da una campata più grande che precede il sistema del coro con deambulatorio e cappelle radiali, le quattro laterali di impianto quadrato e la centrale poligonale. Punto di incontro tra i due diversi spazi è costituito dal transetto alto non aggettante che segue dimensioni e forma delle navate. Come è stato rilevato (Cadei, 1985), i singoli elementi strutturali rivelano poi variazioni linguistiche e stilistiche che, se da un lato potrebbero essere riferibili al tempo intercorso nel procedere dei lavori, di fatto testimoniano la diversità di riferimenti che improntano il cantiere; così se lo spazio del coro documenta insieme le forme più arcaiche in senso tardoromanico padano e quelle che più si adeguano a un formulario transalpino, le navate combinano insieme radici padane e importazioni d'Oltralpe in esiti originali; nelle navate si avverte maggiormente l'impronta di un architetto originale e innovatore (Cadei, 1985).Se per il coro, soprattutto per quello interno, quasi palmare è il confronto con quello di Pontigny (Cadei, 1985; Schenkluhn, 1985), quindi con un edificio monastico che, peraltro, rappresenta nella storia dell'edilizia cistercense il momento di compromesso con le istanze del Gotico - la riduzione dei modelli proposti dall'architettura delle cattedrali all'interno della razionalità modulare cistercense -, l'esito bolognese appare filtrato attraverso i modi dell'edilizia padana che dovevano essere quelli propri dell'architetto e dei realizzatori del progetto. Nel sistema delle navate i fermenti tratti dall'architettura cistercense appaiono ancora più vitali: i sostegni ottagonali sono sicuramente derivati da abbaziali padane; nelle coperture, realizzate con un sistema esapartito nella navata centrale e quadripartito nelle laterali, pur tenendo conto del prototipo costituito in ambito locale dalle volte esapartite della cattedrale di Piacenza, non deve essere omesso il rapporto con la serie di analoghe soluzioni presenti nell'architettura cistercense italiana (Cadei, 1985), ma per i profili di queste volte è stato individuato anche uno stretto contatto con il cantiere di Assisi (Schenkluhn, 1985). Il mondo cistercense e l'architettura dell'Ordine non esauriscono però la possibilità di riferimenti diversi per lo spazio delle navate, da ampliare in particolare all'architettura delle cattedrali francesi; così se Cadei (1985) richiama Notre-Dame di Parigi per la forma dei due pilastri che prospettano sull'incrocio e dei due che definiscono la prima campata orientale, Schenkluhn (1985) estende il riferimento allo stesso monumento per tutta l'articolazione della parete della navata, con la sola variante dell'eliminazione a Bologna del piano dei matronei. La libertà dei riferimenti, oscillanti tra l'architettura cistercense e il Gotico 'da cattedrale', così come il modo in cui vengono impaginati, attesta il particolare ruolo che l'architettura francescana assunse a partire dal terzo decennio del Duecento e le inedite finalità che già da questi edifici presero compiuta, manifesta realizzazione formale; è infatti evidente all'interno del S. Francesco di Bologna la presenza di sottili giochi, o meglio contrasti cromatici, tra le emergenze policrome concentrate agli angoli e nel coro e la sostanziale monocromia delle navate, con un netto cambiamento ottico che concentra l'attenzione sul coro e le sue articolazioni architettoniche. Il fatto è tutt'altro che marginale, proponendo la compiuta maturazione di una nuova complessa problematica che è architettonica, ma che è anche espressione di una inedita visione liturgica, e che può essere compresa sulla linea dell'interpretazione critica dell'architettura mendicante proposta da Romanini (1978): a differenza delle coeve e delle precedenti proposte architettoniche, l'architettura francescana, ma il discorso vale anche in genere per tutta l'architettura degli Ordini mendicanti, propone una nuova mentalità progettuale che può essere assimilata "all'abbandono della lingua colta per il volgare, e insieme al passaggio dal trattato teologico alla narrazione, al semplice racconto, comprensibile perché svolto nella lingua parlata e capita dalla povera gente" (Romanini, 1978). In riferimento a questo inedito modo di fare architettura sono da leggere sia le evidenti focalizzazioni di alcuni specifici elementi architettonici sia gli errori di rapporti e misure con cui alcune parti dell'edificio si connettono agli elementi vicini e all'intera struttura; ciò è finalizzato ad "architetture che hanno il carattere di veri e propri gesti scenici, basate in altre parole su mezzi e valori gestuali di immediata leggibilità e intensità espressiva; [...] si tratta di chiese concepite come sacre rappresentazioni in pietra" (Romanini, 1978). Di qui una serie di costanti, non tanto e non solo individuabili in elementi architettonici o soluzioni strutturali, quanto piuttosto leggibili nell'impaginazione di edifici in cui, indipendentemente dalle icnografie adottate, l'attenzione si concentra sempre sulla zona del coro, che è già di per sé strutturato come spazio di luce intensa; i sistemi mutano, andando dal differente modo di risolvere il problema delle coperture sullo spazio delle navate e su quello del coro, allo scatto in obliquo, all'altezza del transetto, del cornicione che percorre la navata centrale di Santa Croce a Firenze, linea in dinamica tensione che aggancia il fondale luminoso dell'abside e delle cappelle al pacato dilatato spazio delle navate: "Ciò che fa di Santa Croce un autentico, emblematico spazio 'mendicante' è il suo esprimersi, per così dire, in 'volgare', basandosi non già sui rapporti proporzionali o sull'armonia e coerenza statica di un tessuto strutturale ma piuttosto sulla semplice violenza di gesti d'effetto e su una azione scenica della massima evidenza risonante" (Romanini, 1978).La soluzione con coro a deambulatorio e cappelle radiali di Bologna, replicata poi a Padova, è presente in ambito francescano solamente in altri tre casi: la distrutta chiesa della Sainte-Madeleine di Parigi, il S. Lorenzo di Napoli e il S. Francesco di Piacenza. Se per quest'ultima la data di fondazione dell'edificio e del convento è fissata al 1278, ma con un dilatarsi dei lavori per tutta la prima metà del Trecento, il cui svolgimento denuncia chiaramente l'eco bolognese, ma anche la netta influenza della vicina, di poco precedente, chiesa domenicana di S. Giovanni in Canale, a Napoli, la costruzione dell'edificio è stata tradizionalmente riferita alla committenza di Carlo I d'Angiò, a partire dal 1270, e spiegata in relazione agli importanti cantieri promossi dal sovrano delle abbaziali cistercensi di S. Maria della Vittoria presso Scurcola Marsicana e di S. Maria di Realvalle presso Scafati (Wagner-Rieger, 1961). Tuttavia la revisione dei documenti (Berger-Dittscheid, 1990; Bruzelius, 1994) ha dimostrato non solo che la costruzione del coro avvenne in anni successivi, intorno al 1284, ma anche come l'intervento regale sia stato economicamente molto limitato; il coro sarebbe stato in origine parte di un progetto che prevedeva l'ammodernamento dell'antica chiesa del sec. 6°, e dunque inserito a prolungarne lo spazio (Berger-Dittscheid, 1990): la chiesa paleocristiana in seguito fu demolita per fare posto all'ampio spazio unitario della navata. Il coro di S. Lorenzo, come già aveva affermato Krüger (1986), rientra nell'elaborazione architettonica di elementi e modelli gotici che avviene all'interno dell'Ordine francescano e appare, anche in alcuni particolari, come la forma trapezoidale dei pilastri dell'emiciclo, in stretta connessione con il modello del S. Francesco di Bologna. La notazione che i centri di studi francescani, gli studia, si connettevano a chiese con terminazione a deambulatorio e cappelle radiali (Schenkluhn, 1985) appare suggestiva, anche se non esaustiva di tutta l'architettura francescana.Al di là di questa particolare tipologia che caratterizza l'architettura francescana del Duecento e che appare quanto mai originale per l'opera di interpretazione delle cadenze del Gotico 'da cattedrale', mediata attraverso il filtro dell'architettura locale, le altre espressioni dell'architettura dei F., a partire dalla metà del Duecento, appaiono inscrivibili nel testo più ampio dell'architettura mendicante.Nel 1260 a Narbona, in occasione del Capitolo generale dell'Ordine, furono emanate norme molto dettagliate a proposito della struttura e della decorazione degli edifici, prescrizioni che risentirono in modo diretto delle norme che erano state emanate sullo stesso argomento dai Domenicani, già a partire dal 1228. Tali norme furono poi formalmente ribadite, peraltro come era avvenuto anche per i Domenicani, nei Capitoli successivi, come quelli di Assisi del 1279, di Parigi del 1292, o ancora di Assisi del 1316. È però possibile che le Constitutiones di Narbona replicassero le norme non conservate elaborate nel Capitolo del 1239 (Pásztor, 1984).Il testo promulgato a Narbona prescriveva che, dato che "curiositates et superfluitates directe obient paupertati [...] aedificiorum, curiositas in picturis, caelaturis, fenestris, columnis et huiusmodi, aut superfluitas in longitudine, latitudine et altitudine, secundum loci conditionem arctius evitentur" (Ehrle, 1891). Duplice la possibile interpretazione del passo; il richiamo alla condizione del luogo potrebbe imporre l'adeguamento alle costumanze locali in tecniche e tipologie, partiti decorativi e materiali da costruzione, ma il locus potrebbe identificare non tanto il complesso urbano in cui si installavano i frati, ma piuttosto l'insediamento stesso cui i nuovi edifici erano destinati. Con il termine conditio, in questa seconda interpretazione, si alluderebbe allora piuttosto all'entità numerica della comunità, alle mansioni da essa svolte, e per la chiesa all'intensità e alla quantità della frequenza dei laici, intervenendo in questo caso con considerazioni sull'eccessiva dimensione degli edifici (superfluitates). L'ambiguità della formula consente di fatto entrambe le interpretazioni e questo forse già nelle intenzioni degli estensori (Cadei, 1990-1992). Il Capitolo del 1316 di Assisi modificava in parte la formulazione, inserendo "secundum [...] morem patriae" (Ehrle, 1891), cioè in relazione ai sistemi e agli usi del luogo.Le Constitutiones del 1260 davano però indicazioni precise su alcuni specifici elementi architettonici: è il caso del divieto di affiancare alle chiese imponenti torri campanarie ("Campanile ecclesiae ad modum turris numquam fiat"), e delle indicazioni circa le coperture ("Ecclesiae autem nullo modo fiant testudinatae, excepta maiore capella"; Ehrle, 1891).Di fatto un'analisi dell'architettura dei F., nel rilevare un quadro quanto mai vario di soluzioni architettoniche, sia per icnografie sia per soluzioni tecniche adottate, rende problematica, se non impossibile, ogni sintesi esaustiva; è certamente rilevabile una preferenza per alcune particolari tipologie, che percorre la storia architettonica dell'Ordine, peraltro marcatamente segnata in relazione a contesti regionali, tanto che l'ambito regionale si è imposto come criterio particolarmente funzionale nell'indagine di tutta l'architettura mendicante, oltre che di quella francescana in particolare. Si sono così determinate 'storie dell'architettura mendicante' (Cadei, 1983), quasi esclusivamente concentrate sugli edifici delle chiese che di fatto, pur negli evidenti collegamenti con le varie architetture regionali o nazionali, presentano una serie di varianti tipologiche. La prima riguarda l'articolazione della pianta nelle due varianti fondamentali di chiesa a navata unica e chiesa a tre navate. La seconda variabile è data dallo schema di alzato, anch'esso oscillante tra la soluzione con la navata centrale nettamente predominante rispetto alle laterali e l'alzato 'a sala', nel quale le coperture delle navate hanno, almeno nella quota d'imposta, altezza uguale. Tra le due soluzioni è stata determinata una possibilità intermedia, definita come chiesa 'a gradoni' (Staffelkirche); in essa la navata centrale, più alta delle laterali, non è tuttavia nettamente emergente, ma segna al suo culmine il vertice di un profilo ininterrotto, saliente dai lati al centro, con una soluzione che unifica lo spazio interno in modo spesso più efficace della stessa chiesa 'a sala'. Il terzo elemento variabile è costituito dal sistema delle coperture: a tetto, con travature a vista o nascoste da un soffitto piano, a volte, sempre a crociera, oppure con copertura a tetto su archi-diaframma, soluzione che è applicata soprattutto in ambito centroitaliano (Krönig, 1938; 1971). "Le possibilità di intersezione tra le variabili sono tutte verificate dall'architettura mendicante" (Cadei, 1983) in generale e da quella dei F. in particolare.Scrivere una storia unitaria dell'architettura dei F., al di fuori cioè dei discorsi regionali o anche nazionali, significa dunque tracciare una carta generale di queste varie soluzioni, all'interno di un'architettura che di fatto non sembrerebbe caratterizzabile in modo originale e tale da poter essere definita come francescana e mendicante, se, ad attivare la pluralità e la diversità di queste soluzioni, non intervenisse un elemento di composizione e di lettura nuovo, in altre parole il quid che muove le varie soluzioni tipologiche, nonché le cadenze che improntano le singole redazioni regionali, verso una potenzialità di lettura unitaria. Esso è stato identificato nella lettura 'drammatica' proposta e realizzata nello spazio architettonico delle chiese francescane e mendicanti, nell'accento posto marcatamente a privilegiare l'ambito della celebrazione e del fondale dell'edificio, nell'esaltazione della luce che irrompe dalle finestrature dei cori, negli artifici ottici e prospettici che sono funzionali a questi scopi (Romanini, 1978), per "potenziare la capacità di coinvolgimento emotivo dell'assemblea dei fedeli, a dilatare figurativamente il momento della transustanziazione in un atto che risolve il mistero nella partecipazione mistica" (Cadei, 1983).Si può allora seguire un interno cammino di evoluzione, una via che si evolve anche grazie alle ricerche sulla smaterializzazione della parete del Gotico rayonnant e che procede rivedendo più volte le primitive stesure architettoniche per arrivare a esiti complessi e articolati, come quelli realizzati, per fare solo un esempio, dalla chiesa dei F. di Ratisbona, dove l'impianto a tre navate ha il suo esito nel Langchor, un lungo spazio articolato su quattro campate rettangolari e concluso da un coro poligonale.Sulla base di tutto ciò, è possibile dunque analizzare una serie di varianti tipologiche e di edifici rappresentativi, peraltro sempre strettamente connessi per forme decorative e soluzioni tecniche all'architettura del territorio circostante.L'impianto a navata unica coperta a tetto conclusa dal più articolato e complesso sistema delle absidi, la chiesacapannone, ebbe, a partire dall'edificio prototipo del S. Francesco di Cortona, una diffusione capillare e ramificata, con varianti interne che riguardarono essenzialmente la zona del coro, articolata su una o più absidi, talora staccata dalle navate per l'inserzione del transetto o, come nel caso di S. Lorenzo a Napoli, circondata da deambulatorio e cappelle radiali. È proprio però il caso napoletano, frutto della sintesi di due progetti diversi, realizzati in momenti successivi, a evidenziare la necessità dello studio archeologico di ogni monumento, mirato a individuare i vari interventi che vi si sono succeduti, talora addirittura in antitesi progettuale l'uno con l'altro. Allo stato attuale degli studi questo discorso appare ancora per buona parte inesplorato, cosicché ogni considerazione su molti edifici francescani può essere soggetta a profonde revisioni.Un semplice impianto ad aula unica con terminazione tripartita o monoabsidata è presentato da vari edifici dell'Italia centrale, dal S. Francesco di Lucca, al S. Francesco di Prato, al S. Francesco di Arezzo, al S. Francesco di Trevi, tutti per lo più coperti da un semplice sistema a capriate lignee sulla navata.Più articolata la soluzione di copertura di altri edifici mononave, come in Umbria il S. Francesco di Piediluco o il S. Francesco di Sangemini, che mutuano dall'architettura della regione il sistema a tetto a vista, sostenuto da arconi trasversali in muratura (Savi, 1987); la soluzione è documentata anche in qualche edificio francescano fuori dall'Umbria, come il S. Francesco di Teramo.La tipologia a navata unica dello spazio longitudinale è però presente anche fuori d'Italia, dove si presta a una serie di formulazioni che vanno dal semplice spazio a tre campate quadrate, di netta impronta cistercense, della chiesa dei F. di Kalisz in Slesia (sesto decennio del sec. 13°), a quella che doveva essere la prima redazione della chiesa dei F. di Prenzlau nel Brandeburgo (metà sec. 13°, ricostruita nel sec. 19°), determinata dal susseguirsi di cinque campate quadrangolari omogenee, che includono anche lo spazio del coro (Binding, 1985); in altre redazioni del tema della chiesa a navata unica, allo spazio mononave viene connesso, come nella chiesa dei F. di Budapest o in quella di Olomouc in Moravia (Grzibkowski, 1983), l'allungato spazio di un Langchor; in altri casi navata e coro, pur costituendo uno spazio interno privo di separazioni, sono diversamente qualificati grazie al profilo poligonale dell'abside, come nella chiesa dei F. di Famagosta a Cipro, edificio la cui articolazione dimostra la netta, diretta influenza di modelli del Gotico rayonnant (Kitsiki Panagopulos, 1979).Piccoli spazi mononave sono anche adottati nelle cappelle della c.d. valle Santa, lungo l'itinerario che collegava Roma e l'Umbria attraverso la Sabina, luoghi tutti legati a momenti della vita di Francesco, da Greccio a Poggio Bustone a Fontecolombo (Pomarici, 1985).In alcuni casi l'evoluzione di questa icnografia portò all'inserimento di un transetto che dilatava lo spazio dell'edificio, offrendo la potenzialità di un sistema più complesso di cappelle laterali; la soluzione ebbe successo, ma esclusivamente in Italia, con documenti abbastanza precoci come il S. Francesco di Messina, intorno alla metà del sec. 13°, o il S. Francesco di Pescia (prov. Pistoia), dove è chiarissima la funzione di collegamento tra navata e vani d'altare svolta dal transetto (Cadei, 1983). Il moltiplicarsi del numero delle cappelle laterali che si affacciano sul transetto - ne è esempio la chiesa di S. Francesco a Pisa - conferisce a questo elemento architettonico una ulteriore funzione essenziale sia nel monumentalizzare lo spazio orientale degli edifici, qualificato sempre più come parete fondale, sia nel creare e suggerire una maggiore e più dilatata spazialità interna, secondo una sensibilità che appare del tutto in linea con quella dell'architettura gotica italiana e il suo gusto per la parete. Nell'Europa settentrionale, in particolare nell'area germanica, le diverse radicali dell'architettura gotica portano invece a privilegiare lo sviluppo longitudinale, marcato da Langchöre scanditi su varie campate e che, nell'articolazione e nell'ornamentazione delle pareti (per es. la chiesa dei F. di Colonia, 1248 ca.), rivelano stretti, precoci rapporti con l'architettura rayonnante, elaborata dagli architetti di Luigi IX (Branner, 1965). Importanti casi di Langchöre, inseriti a prolungare lo spazio di edifici mononave, sono attestati dalle due chiese austriache di Maria im Walde a Bruck an der Mur in Stiria (fine sec. 13°; Binding, 1985) e dei F. di Wiener-Neustadt (prima metà sec. 14°), dalla chiesa dei F. di Olomouc e da quella dei F. di Budapest (Grzibkowski, 1983).In Francia e in Spagna la soluzione della chiesa mononave, già affermata nella chiesa dei Cordeliers di Parigi, iniziata a partire dal coro alla metà del Duecento e articolata su un'unica navata di otto campate, conclusa dopo il 1269 - dell'importante convento parigino, distrutto da un incendio nel 1590, oggi sopravvive solo il refettorio, inglobato negli edifici della facoltà di medicina -, trova declinazioni originali. Ne sono esempi le chiese francescane di Barcellona e di Tolosa: la prima, dedicata a s. Nicola e consacrata nel 1297, fu distrutta nel 1835, ma appare comunque ricostruibile in linea di massima, mentre la seconda fu iniziata a partire dal 1260, con la conclusione dei lavori del coro agli inizi del Trecento; entrambe applicarono un modello già affermatosi nella chiesa domenicana di Barcellona: si tratta di un impianto a navata unica, di grande larghezza, coperto da volte a crociera, ricadenti su slanciate membrature aggettanti, scandito lungo i fianchi da cappelle aperte tra i contrafforti e concluso da una grande abside poligonale, qualificata come un grande fondale avvolgente e luminoso. Questo tipo di edificio ebbe ampia applicazione in Catalogna, Provenza, Linguadoca e Guascogna e si mantenne pressoché inalterato fino al maturo Quattrocento: ne è cospicuo esempio la chiesa di San Juan de los Reyes a Toledo, opera realizzata prima del 1490 dall'architetto Juan Guas, su committenza di Ferdinando il Cattolico e di Isabella di Castiglia e capolavoro del Gotico isabelino.Questa redazione del tema è affiancata a una versione meno impegnativa, priva di volte sullo spazio della navata e dove la copertura lignea fu impostata su archi-diaframma, secondo una tradizione costruttiva ben documentata nell'ambito degli edifici monastici dell'architettura cistercense, ma anche in edifici di tipo assistenziale, come l'ospedale di Vic (Savi, 1987); presentano questa soluzione la chiesa dei F. di Perpignano, anteriore al 1278, il San Francisco di Palma di Maiorca, iniziato nel 1281 e poi trasformato, il Sant Francesc di Vilafranca del Penedès, in seguito ricoperta da volte a crociera. La tipologia si diffuse poi anche in Navarra e in Castiglia (Bozzoni, 1984).In Inghilterra tra gli edifici francescani a navata unica è da ricordare il caso di Canterbury, dove navata e coro erano ricavati all'interno di un grande spazio rettangolare, come parti equipollenti, ma distinte grazie a un elemento trasversale, uno stretto ambiente che fungeva anche da collegamento tra le zone settentrionale e meridionale del convento. La presenza di una netta separazione tra lo spazio delle navate e quello del coro, realizzata in queste forme, è una originale interpretazione della divisione creata in molte chiese mendicanti da recinzioni o Lettner, e ora documentabile solo in pochissimi casi sopravvissuti ai mutamenti delle esigenze liturgiche. In ambito inglese, ma anche irlandese, essa perde di fatto le caratteristiche di arredo liturgico, per tramutarsi in elemento strutturale, sul quale si imposta talora una torre campanaria, a pianta esagonale nella chiesa dei F. di King's Lynn (Norfolk) e a pianta ottagonale nella chiesa dei F. di Coventry (West Midlands), edifici tutti della seconda metà del 14° secolo.Dagli spazi mononave, per ampliamento, si determinarono talora edifici a due navate; in altri casi lo schema binave fu previsto fin dal progetto originale. Gli esempi sono comunque numericamente ridotti, anche se è rilevabile in alcune zone una maggiore frequenza. In particolare in Germania, in Vestfalia e nella zona renana, l'impianto binave, reso spesso asimmetrico dall'inserimento di un Langchor al termine di una sola delle due navate, è documentato in vari casi: tra i più precoci la chiesa dei F. di Münster, iniziata intorno al 1280, e quella dei F. di Höxter an der Weser (Nordrhein-Westfalen), degli anni 1281-1320 (Binding, 1985). In queste chiese (Staffelhallen, chiese 'a sala' gradonate) le coperture delle due navate, impostate alla stessa altezza su sostegni con alti varchi dilatati, determinano spazi pressoché unitari.In Francia lo schema binave invece è oggi documentabile in ambito francescano solo sporadicamente: la chiesa dei Cordeliers di Tolosa, legata da reciproci scambi con la vicina chiesa dei Jacobins, presentava due navate confluenti in un ampio coro poligonale, concluso agli inizi del Trecento. L'edificio, costruito in laterizio nel corso del sec. 14°, fu distrutto da un incendio nel 1871; ne sopravvive solo una torre ottagonale scandita da due ordini sovrapposti di aperture archiacute. Chiese mendicanti a due navate, ma in redazioni di grande semplicità, sono attestate anche in Bretagna: in queste forme si presentava la piccola chiesa di Quimper.È originale combinazione di uno spazio a due navate con uno a navata singola la chiesa inglese dei F. di Lincoln: l'edificio, iniziato a partire dal 1237, sotto la guida di Roberto Grossatesta, forse su stimolo dell'edificio di Assisi, innesta su un corpo inferiore a due navate, scandite da pilastri ottagonali e coperte da volte a crociera, una parte superiore a navata unica, con copertura lignea a botte.L'articolazione a tre navate prevede anch'essa una serie di varianti, generate prima di tutto dalla soluzione proposta per gli alzati - basilicale o 'a sala' - e per le coperture e poi dall'innestarsi o meno di transetti o Langchöre.L'Italia sembra mantenere una più diffusa fedeltà ad alzati di tipo basilicale su cui, in alcuni casi, si innestano ampi transetti. Tra gli esempi più rilevanti il S. Francesco di Brescia, costruito tra il 1254 e il 1265, edificio scandito da pilastri alti e snelli che permettono il libero confluire delle navate laterali in quella centrale, con un effetto ricercato di vano unitario, concluso da un luminoso fondale rettilineo, o il S. Francesco di Lodi, eretto a partire dal 1280, ma i cui lavori avanzarono lentamente (Romanini, 1964). La chiesa con transetto è interamente voltata a crociera e per i suoi moduli costruttivi appare ancora chiaramente segnata dall'architettura cistercense. Di grande interesse per il sistema adottato nelle coperture è anche la chiesa di S. Francesco a Pavia: l'edificio, a pianta basilicale con transetto, presenta un sistema di coperture misto, con volte a crociera nella zona presbiteriale, nel transetto, nella prima campata orientale e sulle navate laterali, a cui si connette la copertura lignea della parte rimanente della navata centrale; il corpo longitudinale delle navate è poi di altezza inferiore a quella della zona orientale, che, come si è detto, è tutta voltata. La ricerca di impatto visivo, con un netto stacco tra i due blocchi, è analoga a quella di episodi architettonici non lontani, come la domenicana S. Giovanni in Canale di Piacenza.Con transetto viene anche impostata la chiesa romana di S. Maria in Aracoeli, la cui costruzione occupa tutta la seconda metà del Duecento. L'edificio, che da un lato rivela di muoversi, soprattutto all'esterno, nel solco di una consapevole adesione alle cadenze del Gotico italiano ed europeo, all'interno segna il tributo dei F. alla cultura di Roma, in un programmatico aggancio alla civiltà classica, dimostrato sia dal mosaico che decorava l'abside con l'immagine della visione di Augusto (Tomei, 1982) sia dal reimpiego di colonne classiche nelle navate, una delle quali, incisa con la scritta "A cubiculo Augustorum", ben leggibile dalla navata, indica con straordinaria evidenza la politica di inserimento nel tessuto urbano di una città in cui, negli stessi anni, il Comune romano, in ideale connessione con l'Antichità, tentava, per impulso di Brancaleone degli Andalò, la via dell'autonomia dalla schiacciante presenza del potere papale (Righetti Tosti-Croce, 1991).Quale sintesi di questo tipo di esperienze italiane va senza dubbio indicata la chiesa di Santa Croce a Firenze: la struttura attuale, che sostituisce una chiesa precedente risalente agli anni intorno alla metà del Duecento, prese il via intorno al 1295. Coperto a tetto sulle tre navate, l'edificio trova la sua conclusione trionfale nel corpo orientale, dove all'abside centrale a conclusione poligonale si affiancano cinque cappelle per parte, prospicienti su uno stretto transetto, largo quanto una campata della chiesa: il cornicione che cinghia la chiesa è, insieme al fondale, l'elemento dominante nella lettura dell'edificio. Impostato su mensoloni e concepito come struttura praticabile, l'elemento scavalca il braccio di transetto con una decisa impennata, per poi connettersi in quota più alta all'arco trionfale: si tratta di un gesto meramente scenico, di un artificio con cui Arnolfo di Cambio (v.), l'architetto-scultore cui si lega il progetto di questa chiesa francescana, penetrò a pieno nell'estetica mendicante, agganciando in tensione drammatica lo spazio delle navate a quello orientale, traforato da un complesso sistema di finestre e così trasformato in impalpabile quinta, da un lato sfuggente per l'incessante prorompere della luce e dall'altro saldamente trattenuta e agganciata al pacato distendersi delle ampie navate.La struttura di chiesa 'a sala', che i Domenicani avevano elaborato nella prima metà del Duecento nel S. Eustorgio di Milano, adattato per restauro alle loro esigenze, ma che l'architettura tedesca romanica aveva in parte già elaborato, trovò echi anche nell'architettura italiana dei F.: oltre al caso del S. Fortunato di Todi, il cui cantiere attivo tra il 1292 e il 1303 vide una lenta prosecuzione e poi una definitiva interruzione, vanno ricordate alcune chiese piemontesi e lombarde, come il S. Francesco di Alessandria, il S. Francesco di Cassine (prov. Alessandria) e il S. Francesco di Vigevano (prov. Pavia), chiesa iniziata intorno al 1375, dove l'impianto 'a sala' vede anche l'inserzione di un transetto e di un tiburio (Romanini, 1964; Villetti, 1984).Anche Oltralpe, in particolare nell'area tedesca (Krautheimer, 1925; Binding, 1982; 1985), il tipo della chiesa a tre navate viene interpretato sostanzialmente secondo i due diversi modelli dell'impianto basilicale e di quello 'a sala'. A sua volta l'impianto basilicale si differenzia per la presenza o meno di strutture voltate sullo spazio della navata centrale.Il primo documento di chiesa francescana a impianto basilicale con transetto a N delle Alpi, in area germanica, è costituito dalla chiesa di Stein an der Donau (Austria), consacrata nel 1264: l'edificio, scandito da un sistema di pilastri, è coperto nello spazio centrale da volte esapartite, cui si affiancano volte a crociera quadripartite sulle navate laterali. Il Langchor, nella redazione attuale, è però frutto di un intervento più tardo, intorno al 1330.Il tipo basilicale con coperture voltate venne proposto in versioni di grande imponenza architettonica, come la Barfüsserkirche di Erfurt in Turingia, edificio eretto dal 1291 al 1360, in sostituzione di una precedente costruzione iniziata a partire dal 1231, o come la Katharinenkirche di Lubecca (Schleswig-Holstein), chiesa a tre navate scandite da pilastri ottagonali costruita a partire dal 1300; il coro, con una soluzione inedita, è sopraelevato e dunque nettamente distinto rispetto allo spazio 'laico' delle navate (Jaacks, 1968; Schenkluhn, 1985).Copertura a tetto sulla navata centrale presentavano invece le chiese dei F. di Ratisbona, la cui navata è databile tra il 1260 e il 1272, mentre il Langchor fu innestato intorno al 1300 a sostituire la precedente conclusione absidale più ridotta, di Friburgo in Brisgovia, in costruzione dal 1262, di Esslingen, iniziata nel 1270, di Ingolstadt, dopo il 1275, di Würzburg, tra il 1250 e il 1280, la cui copertura fu però modificata con l'inserimento di volte tardogotiche, e, in Svizzera, la Barfüsserkirche di Basilea, la cui costruzione attuale, che ne sostituisce una precedente dei primi decenni della seconda metà del Duecento, si data tra il 1300 e il 1345, e ancora, in Slesia, la chiesa francescana di Oppeln, della seconda metà del sec. 13° (Binding, 1985).In Spagna la tipologia della basilica trinave con copertura a capriate sulla navata centrale è rappresentata, tra le altre, dalle chiese galiziane di San Francisco di Orense, che presenta transetto sporgente e conclusione triabsidata a profilo poligonale, di San Francisco di Pontevedra e di San Francisco di Lugo, che nel transetto attesta netti influssi mudéjares.Nell'area germanica, ma non esclusivamente, vasta diffusione ebbe la chiesa 'a sala' (Hallenkirche); se per l'Italia si è visto infatti un suo apparire abbastanza episodico, ciò non vale certamente per l'area di lingua tedesca a N delle Alpi. Qui, anche grazie alla fortuna già conosciuta alla fine del sec. 12°, soprattutto in Vestfalia (Kubach, 1972; Bozzoni, 1984), la tipologia, adottata dai Mendicanti per la sua evidente potenzialità di adattarsi al meglio alle loro esigenze pastorali, incontrò straordinario favore, connettendosi anche, quando non attivandola, alla nascita nel maturo Trecento di una nuova sensibilità architettonica, come è quella del Tardo Gotico.In forma di edificio 'a sala' era stata peraltro progettata intorno alla metà del sec. 13° la chiesa dei F. di Colonia e poi modificata su impianto basilicale; la fabbrica è stata pesantemente segnata dagli eventi bellici della seconda guerra mondiale, che hanno però consentito di analizzarne tutta la struttura, dimostrando che la chiesa era stata progettata come Hallenkirche, sul modello della Elisabethkirche di Marburgo (Verbeek, 1950).La chiesa francescana di Soest, iniziata intorno al 1325-1330, è uno degli esempi più rilevanti dell'elaborazione che i F. operarono su modelli tipologici, già presenti in Vestfalia, conseguendo, grazie all'innalzamento delle arcate e all'articolazione del rapporto tra navata centrale e navate laterali - la prima quadrata e le laterali a impianto rettangolare con il lato corto corrispondente alla metà dell'ampiezza della navata centrale -, un'assoluta unità e integrazione spaziale che, come si è detto, fu elemento non secondario di una nuova sensibilità architettonica i cui esiti sarebbero stati rilevanti anche in Italia, nell'articolazione per es. del duomo di Como nel progetto originario di Lorenzo degli Spazzi, realizzato a partire dal 1396.Esiti analoghi a quelli di Soest furono conseguiti all'incirca negli stessi anni nella chiesa dei F. di Aquisgrana, la cui navata fu consacrata nel 1327, mentre il Langchor va riferito al 1390, e nella chiesa dei F. di Stralsunda nel Meclemburgo-Pomerania occidentale, anch'essa del primo Trecento. Un'ampia diffusione di questa tipologia è registrabile anche nella Germania settentrionale, nella Prussia orientale e occidentale e nella Slesia: il caso più rimarchevole è costituito dalla chiesa dedicata a s. Giovanni a Stettino, edificio la cui costruzione procedette per tutto il Trecento e che costituisce uno dei più rilevanti esempi di Backsteinhalle, cioè di edificio 'a sala' realizzato nelle forme del 'Gotico laterizio'. Le forme gotiche, affidate per la loro realizzazione all'uso del cotto, avevano già avuto precoce diffusione anche in ambito francescano in Svezia con la chiesa di Riddarholmen a Stoccolma, intorno al 1270, e in Danimarca con la chiesa dei F. di Ystad (Scania).La tipologia di Hallenkirche a tre navate appare rappresentata nel corso del Trecento e poi nel secolo successivo anche in Austria, con la chiesa dei F. di Vienna, iniziata nel 1339 e poi proseguita per tutto il secolo.Queste tipologie architettoniche, soprattutto nell'area transalpina, sopravvivono anche per il secolo successivo, elaborate ancora in forme sostanzialmente gotiche.
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La singolarità della vicenda biografica di s. Francesco, l'intensità del suo messaggio religioso, come pure l'impatto da esso esercitato sulla spiritualità del suo tempo, trovarono eco pressoché immediata nella coeva produzione pittorica, sin dagli inizi del 13° secolo. Ne è emblematica, anche se particolarissima, testimonianza quello che senz'altro può considerarsi un caso unico nella pittura del Medioevo, ossia il più antico ritratto di Francesco, con tutta probabilità eseguito tra il marzo 1228 e il 19 luglio dello stesso anno, giorno della canonizzazione del santo (Bianchi, 1980, p. 8ss.). Si tratta della famosa immagine a figura intera, priva di stimmate e di aureola, affrescata nella cappella di S. Gregorio nel Sacro Speco di Subiaco. Immagine particolarmente significativa, in quanto presente in uno dei luoghi più venerati nel monachesimo occidentale e in quanto fatta eseguire da papa Gregorio IX, che proclamò la santità del poverello di Assisi e che, secondo un'antica tradizione, avrebbe visitato lo speco sublacense assieme a Francesco intorno al 1222 (Frugoni, 1993, p. 274). L'unicità del caso consiste quindi essenzialmente nel fatto che il ritratto fu commissionato da un prelato esterno all'Ordine francescano - anche se molto legato al suo fondatore - e che ciò avvenne prima della canonizzazione del personaggio raffigurato. Di tale singolarità è parimenti partecipe tutta la vicenda figurativa connessa alla storia e all'attività dell'Ordine, virtualmente l'unico nell'età medievale a non aver conosciuto tendenze 'aniconiche' o, peggio, 'iconoclaste'. Del resto, la stessa biografia di Francesco, sia nelle versioni di s. Tommaso da Celano sia in quella canonica di s. Bonaventura da Bagnoregio, reca più di un accenno all'immagine sacra e al suo rapporto con la spiritualità del singolo: basti qui solo ricordare l'episodio del Crocifisso dipinto che parlò a Francesco nella diruta chiesetta di S. Damiano ad Assisi o del valore 'figurativo' (e scenico) dell'episodio relativo al Presepe di Greccio (Fonti Francescane, 1978).Sin dagli anni immediatamente seguenti la morte di Francesco, infatti, sia la pittura su tavola sia quella a carattere monumentale, come del resto anche la produzione miniatoria, sono segnate da una rapidissima e capillare diffusione di immagini del santo, singole o corredate dalle rappresentazioni di episodi della sua vita; segno questo dell'esistenza di una vivacissima committenza interna all'Ordine, ma a cui ben presto si affiancarono anche prelati e laici a esso esterni.I fatti, miracolosi e non, che costituivano la vicenda biografica di Francesco offrivano ampia materia per la formazione di diverse serie di episodi, destinate, nella pittura su tavola, ad affiancare la figura del santo, collocata al centro, in posizione stante. Ne sono precocissimi esempi, tra la fine del terzo e gli inizi del quarto decennio del Duecento, due tavole di Bonaventura Berlinghieri (v.): una, perduta, già in S. Miniato al Tedesco presso Pisa, l'altra a Pescia, nella chiesa di S. Francesco, datata 1235, le quali presentano al centro la figura del santo, affiancata da scene con i miracoli post mortem, in quella pisana, e con i miracoli prima e dopo la morte in quella di Pescia (Frugoni, 1993). Nei decenni succcessivi si moltiplicarono gli esempi di grandi tavole dedicate a Francesco e ai momenti salienti della sua leggenda, come quella già nella chiesa di S. Francesco a Pisa (Mus. Naz. e Civ. di S. Matteo) e l'altra ad Assisi (Tesoro Mus. della Basilica di S. Francesco), ambedue fortemente segnate dalla lezione pittorica di Giunta Pisano (v.). Entro il secondo quarto del Duecento, fu verosimilmente dipinta la tavola Bardi (Firenze, Santa Croce, cappella Bardi), una pala recante al centro l'immagine stante del santo circondata da ben venti piccole scene. Altre due tavole, ciascuna con quattro storie dalla Vita di Francesco disposte due per lato a fianco dell'immagine del santo, sono conservate ad Assisi (Tesoro Mus. della Basilica di S. Francesco) e a Roma (Mus. Vaticani, Pinacoteca); entrambe di area pisana, sono databili intorno al sesto decennio del sec. 13° (Tartuferi, 1991). Otto sono invece le storie presenti nella tavola già in S. Francesco al Prato a Pistoia (Mus. Civ.), opera probabilmente fiorentina della metà ca. del secolo (Tartuferi, 1991).Altrettanto ricca e precoce fu la committenza, da parte dell'Ordine, di croci dipinte, strettamente connessa alla meditazione sulla passione di Cristo che si andò rapidamente diffondendo tra i F. e, naturalmente, all'episodio miracoloso della preghiera in S. Damiano. Le fonti ricordano una grande croce dipinta commissionata da frate Elia a Giunta Pisano nel 1236 e conservata nella basilica di S. Francesco ad Assisi sino al sec. 17°, mentre un'altra croce eseguita dallo stesso maestro - presente in Assisi ab antiquo - è ancor oggi conservata nel Mus. della Basilica Patriarcale S. Maria degli Angeli. A partire dalla metà del secolo si moltiplicarono esemplari di questo tipo, tra cui spiccano quelli riferiti al Maestro dei Crocifissi Blu, l'uno conservato ad Assisi (Tesoro Mus. della Basilica di S. Francesco), l'altro a Colonia (Wallraf-Richartz Mus.), ma anch'esso proveniente dalla basilica assisiate (Garrison, 1949; Todini, 1989). Una piccola figura di Francesco adorante, ai piedi del Cristo crocifisso, compare, assieme a quelle di s. Chiara e della badessa Benedetta, su una croce dipinta nel sesto decennio del Duecento per la basilica assisiate dedicata alla santa (Tartuferi, 1991). Datata 1272 è, inoltre, una grande croce dipinta (Perugia, Gall. Naz. dell'Umbria) - anch'essa recante ai piedi del Cristo una figuretta del santo - attribuita al Maestro di S. Francesco (v.), pittore di formazione umbra che intorno al 1260 eseguì il primo ciclo 'ufficiale', con storie tratte dalla vita del santo ed episodi della Passione di Cristo, nella basilica inferiore di Assisi.Dall'ultimo quarto del secolo in poi, e soprattutto nel Trecento, i dipinti su tavola - croci, pale d'altare, icone - recanti immagini francescane diventarono così numerosi da renderne impossibile qualsiasi elencazione. Alcune opere, certo, spiccano sia per livello qualitativo sia per particolarità iconografiche, come per es. la famosa tavoletta della Madonna dei F. del 1290-1295 ca. (Siena, Pinacoteca Naz.), dipinta da Duccio di Buoninsegna (v.), dove tre piccoli frati, i donatori, sono raffigurati in atto di adorazione alla base del trono della Vergine. Anche per singole raffigurazioni di episodi della vita del santo, come nel caso della pala con S. Francesco che riceve le stimmate e tre episodi della vita, conservata a Parigi (Louvre; Gardner, 1982), divenne normativo l'esempio giottesco.Nel corso del Trecento la figura di s. Francesco, spesso associata a quella di s. Antonio da Padova, appare sistematicamente negli scomparti laterali di polittici eseguiti per contesti francescani.L'Umbria fu naturalmente il centro di irradiazione della pittura francescana. Il cantiere della basilica di S. Francesco ad Assisi (v.), a partire dagli anni cinquanta del Duecento fino alla metà ca. del secolo successivo, costituì il punto di riferimento fondamentale per i programmi decorativi monumentali di committenza francescana, stante soprattutto lo status di chiesa caput et mater dell'Ordine, affermato da una bolla papale del 1230 (Cadei, 1991).In parallelo con il progredire della decorazione della basilica assisiate si ebbero, non solo in Italia, significativi episodi pittorici eseguiti nelle chiese e nei conventi che l'Ordine andava via via costruendo o restaurando. Tra gli esempi più precoci si collocano le due scene, raffiguranti S. Francesco che riceve le stimmate e la Predica agli uccelli, affrescate poco dopo il 1260 nell'abside del transetto sinistro della chiesa di S. Fermo Maggiore a Verona; scene alle quali, nel primo quarto del Trecento, si aggiunse lungo le pareti del transetto un vero e proprio ciclo, formato da ca. venti scene, commissionate da un laico, Guglielmo di Castelbarco, la cui immagine, insieme a quella del rettore del convento, Daniel Gusmerio, fu ritratta sull'arco trionfale dell'edificio (Blume, 1983).A Costantinopoli, tra il quinto e il sesto decennio del Duecento - e comunque entro il 1261, anno della riconquista della città da parte dei Bizantini -, in una piccola cappella della Kalenderhane Cami, furono affrescati dieci episodi della Vita di Francesco (Istanbul, Arkeoloji Müz.), disposti ai lati della figura stante del santo, secondo uno schema compositivo che richiama direttamente la struttura delle tavole dipinte di tradizione berlinghieresca (Striker, 1982; Pantanella, 1990). Testimonianza della incisività dell'impegno missionario oltremare dei F., gli affreschi della Kalenderhane Cami sono anche un precocissimo esempio di diffusione in ambito extra italiano dei temi iconografici relativi alla vita del santo, prima della codificazione datane da Giotto (v.) e dai suoi committenti nel ciclo della basilica superiore di Assisi. Fu infatti, questo ciclo, il punto di arrivo della elaborazione iconografica della vicenda di Francesco, destinato a fornire una vera e propria normativa per le imprese decorative promosse dai F. nelle loro chiese locali, sparse in Italia ed Europa. Le ventotto scene della basilica superiore di Assisi, dipinte da Giotto tra il 1296 e il 1304, essendo generale dell'Ordine Giovanni Mincio da Morrovalle, furono fin da subito prese a modello per la decorazione di numerose chiese dell'Ordine, come, per es., quella del coro di S. Francesco a Rieti, eseguita da maestri di formazione umbra, probabilmente entro il primo decennio del Trecento (Romano, 1992, p. 254ss.). Altri importanti cicli di derivazione assisiate sono quelli del S. Francesco di Matelica (prov. Macerata), del S. Fortunato di Todi e del S. Francesco di Pistoia, tutti databili entro la prima metà del Trecento (Blume, 1983).È proprio dagli inizi del sec. 14° che, nelle imprese decorative realizzate nelle chiese dell'Ordine, cominciarono ad assumere particolare rilevanza le committenze da parte dei laici. Ne è testimonianza assai significativa la chiesa fiorentina di Santa Croce, uno dei più importanti edifici francescani, la cui decorazione pittorica si deve quasi esclusivamente all'intervento di committenti laici. I temi iconografici degli affreschi delle dieci cappelle disposte nei bracci del transetto, cinque per parte ai lati dell'abside entro cui è raffigurata la Santa Croce, e dedicate alla Vergine, ad apostoli e santi - tra cui naturalmente Francesco e Antonio -, sono articolati secondo un preciso programma volto a illustrare ai fedeli i diversi aspetti della concezione teologica dell'Ordine, nonché i suoi fondamenti devozionali (Blume, 1983, pp. 90-99). Alla decorazione delle cappelle attesero alcuni tra i massimi pittori fiorentini del Trecento, tra i quali Taddeo Gaddi (v.), Maso di Banco (v.), Giovanni da Milano (v.) e lo stesso Giotto, che eseguì un breve ciclo con sei storie francescane nella cappella patrocinata dalla potente famiglia Bardi e altre sei storie di s. Giovanni Battista e di s. Giovanni Evangelista nella cappella dei Peruzzi.Un ruolo di primo piano nello sviluppo della pittura francescana fu svolto, verso la fine del Duecento, dal primo papa proveniente dall'Ordine, Niccolò IV. Nei quattro anni del suo pontificato (1288-1292), egli promosse la ridecorazione delle absidi di due tra le maggiori basiliche romane, S. Giovanni in Laterano e S. Maria Maggiore. Nei nuovi mosaici, opera di Jacopo Torriti (v.), già attivo nella basilica superiore di Assisi, Niccolò IV volle l'inserimento delle figure di s. Francesco e di s. Antonio da Padova, due santi, per così dire, moderni, in un contesto iconografico assolutamente tradizionale, virtualmente rimasto immutato per secoli, come quello dei programmi decorativi absidali romani (Tomei, 1990). Nel mosaico di S. Giovanni in Laterano fu socius di Torriti un frate francescano, Jacopo da Camerino, che in seguito fu anche attivo nel cantiere del duomo di Orvieto, la cui fondazione si deve allo stesso Niccolò IV (Fumi, 1891). Fra Jacopo da Camerino, intento a ricavare tessere musive, e un altro frate, munito di compasso e squadra, che è stato a volte identificato con Torriti, ma senza prove definitive (Tomei, 1990), sono raffigurati, vestiti del saio francescano, nella zona inferiore del mosaico lateranense. Un altro francescano, fra Jacopo, aveva firmato, già nel 1225, un altro importante mosaico, quello della scarsella del battistero di Firenze (Bihl, 1909; Matsuura, 1992).La basilica di S. Giovanni in Laterano fu al centro di uno degli episodi che conobbero maggiore fortuna nella pittura francescana, il Sogno di Innocenzo III: al pontefice apparve in sogno Francesco nell'atto di sostenere con le spalle l'antico edificio lateranense in procinto di crollare. Il Sogno, presente nei due cicli di Assisi, quello del Maestro di S. Francesco e quello giottesco, ebbe una preminente collocazione all'esterno della più importante chiesa dell'Ordine a Roma, S. Maria in Aracoeli sul colle capitolino. Sul cavetto di facciata, infatti, l'episodio venne raffigurato in un mosaico di grandi dimensioni, sempre al tempo di papa Niccolò IV (Andaloro, 1984; Tomei, 1990). Nella stessa chiesa altre opere testimoniano l'esistenza, tra la fine del Duecento e gli inizi del Trecento, di un'attiva committenza sia da parte di esponenti dell'Ordine sia da parte di laici. Nel transetto sinistro della chiesa, infatti, fu eseguito, intorno al 1302, il monumento di Matteo d'Acquasparta, personaggio di primo piano nella gerarchia francescana. Nella lunetta che sormonta la figura del giacente, affrescata da Pietro Cavallini (v.), appare raffigurato Francesco che presenta il defunto alla Vergine in trono con il Bambino. Altre immagini del santo e altri affreschi di vario soggetto rendevano l'edificio dell'Aracoeli uno dei punti focali della pittura francescana a Roma (Oliger, 1911; Tomei, 1982; Herklotz, 1983). Un altro ciclo con storie della Vita del santo, distrutto alla fine del sec. 17°, ornava la chiesa di S. Francesco a Ripa (Hetherington, 1979; Menichella, 1981), dove si conservano ancora dipinti su tavola di ambito francescano (Romano, 1992).Anche a Napoli la committenza legata agli insediamenti francescani fu di ampia portata, soprattutto grazie alla circostanza che uno dei santi più importanti dell'Ordine, Ludovico di Tolosa, canonizzato nel 1317, era fratello di Roberto d'Angiò, al quale aveva ceduto la corona del regno di Napoli per indossare il saio francescano. L'evento è sontuosamente celebrato nella famosa pala con S. Ludovico che incorona Roberto d'Angiò e storie del santo, eseguita da Simone Martini (v.) e conservata a Napoli (Mus. e Gall. Naz. di Capodimonte). Nelle chiese napoletane, in particolare S. Chiara, S. Lorenzo, S. Maria Donnaregina, si moltiplicarono nel corso del Trecento dipinti con soggetti francescani, grazie all'intensissima attività di committenza dei membri della famiglia reale (v. Angioini), che fecero convergere nella città alcuni dei più importanti pittori italiani del tempo, da Cavallini a Lello da Orvieto allo stesso Giotto, oltre ad alcuni importanti maestri formatisi localmente, come Roberto d'Odorisio e Pietro Orimina (Bologna, 1969).La spiritualità francescana produsse anche temi iconografici di complesso contenuto dottrinale, espressi attraverso immagini allegoriche e/o simboliche. È il caso del Lignum vitae, testo di s. Bonaventura da Bagnoregio (v.), ripreso intorno al 1305 da Ubertino da Casale (Arbor vitae crucifixae Iesu), che fu tradotto pittoricamente, tra gli altri, in due importanti opere: un affresco di Taddeo Gaddi (Firenze, Santa Croce, refettorio) e una tavola di Pacino di Bonaguida (Firenze, Gall. dell'Accademia); quest'ultimo seguì fedelmente lo schema del testo bonaventuriano, suddiviso in quarantotto capitoli, disponendo un uguale numero di piccoli clipei ai lati dell'albero con il Cristo crocifisso (Offner, 1956, p. 122ss.). Due raffigurazioni del Lignum vitae, precedenti le due opere fiorentine, si trovano su un altarolo portatile (Venezia, Mus. Correr) e in un affresco di Orvieto (S. Giovenale), e sono riferiti alla cerchia di Lello da Orvieto (Bologna, 1969, pp. 129-130).Nelle quattro vele della volta d'incrocio nella basilica inferiore di Assisi sono raffigurate quattro scene allegoriche con S. Francesco in gloria, l'Obbedienza, la Povertà, la Castità, la cui interpretazione è stata al centro di un ampio dibattito critico, teso a comprenderne il significato nell'ambito della mistica francescana (Stanislao da Campagnola, 1971; Tantillo Mignosi, 1975; Scarpellini, 1982). Per il loro sconosciuto autore, di stretta orbita giottesca e attivo intorno al 1320, la critica ha coniato la denominazione di Maestro delle Vele (v.).Oltre ai diversi cicli di affreschi, il S. Francesco di Assisi conserva un vasto complesso di vetrate dipinte che nella basilica superiore costituirono il punto di partenza del programma decorativo dell'edificio, intorno al quinto decennio del Duecento. Vi operarono maestranze transalpine, soprattutto germaniche, ma con presenze francesi e locali, queste ultime collocabili nell'ambito della bottega del Maestro di S. Francesco (Cadei, 1991). In Germania, a Erfurt, nella prima fondazione francescana della città, la Barfüsserkirche, intorno al 1230 fu eseguito uno dei primissimi cicli biografici del santo (Drachenberg, Maercker, Schmidt, 1976; 800 Jahre Franz von Assisi, 1982, p. 647). Poco dopo, intorno al 1240, nella Elisabethkirche di Marburgo fu eseguito un altro gruppo di vetrate con Storie di s. Elisabetta di Turingia e un'immagine di S. Francesco. Nel corso del Trecento, poi, i temi francescani nelle vetrate conobbero particolare diffusione nelle chiese dell'Ordine in Germania e Austria (800 Jahre Franz von Assisi, 1982, p. 638ss.).
A partire dai primi anni trenta del Duecento cominciarono a fare la loro comparsa anche diversi manoscritti miniati direttamente riferibili alla committenza francescana. Si tratta essenzialmente di libri liturgici e di preghiera, a cui ben presto si affiancarono anche opere di commento ai testi sacri, prodotto del rapido sviluppo degli studia francescani, prima in Italia e poi anche in Francia e Inghilterra, in particolare a Parigi, Oxford e Cambridge. Si può parlare di committenza e non di produzione francescana a proposito dei manoscritti, poiché l'Ordine non ebbe mai al suo interno una struttura di scriptoria simile a quella dei Benedettini. Vi furono naturalmente, tra i frati, amanuensi e miniatori, che dovevano però essere stati tali anche prima del loro ingresso nell'Ordine; assai frequente era peraltro il ricorso ad artefici professionisti (Humphreys, 1982). Messali e breviari - sostanzialmente rispondenti al modello in uso presso la curia romana -, salteri e libri d'ore furono i manoscritti che più di frequente ricevettero un corredo illustrativo miniato. Le immagini, inizialmente limitate all'inserimento di una figuretta del santo in contesti diversi, ben presto si diversificarono, includendo gli episodi più salienti della sua biografia (Francesco d'Assisi, 1982).Una Bibbia centroitaliana del secondo quarto del Duecento (Assisi, Bibl. Com., 17) mostra nell'iniziale della Genesi (c. 5v) una figura di Francesco posta nel corpo della lettera I, al di sotto delle immagini di Cristo e di Adamo. Si tratta di uno dei primi esempi di inserimento della figura del santo in un contesto di tipo tradizionale come quello dell'incipit dell'Antico Testamento. Dalla metà ca. del sec. 13° cominciarono ad apparire diversi episodi della biografia del santo, la Predica agli ucccelli, Francesco riceve le stimmate, Francesco in adorazione del Crocifisso.L'importanza assunta dall'Ordine nella vita religiosa francese è attestata dai numerosi manoscritti provenienti da Parigi, tuttora presenti ad Assisi. Oltre al famoso Messale di s. Ludovico, all'Epistolario e all'Evangeliario, codici eseguiti in un unico atelier, databili al 1255-1256 e forse destinati all'altare maggiore della basilica (Assisi, Tesoro Mus. della Basilica di S. Francesco; Branner, 1977), diversi altri manoscritti miniati nella capitale del regno di Francia, in origine pertinenti al Sacro convento, sono conservati ad Assisi (Bibl. Com., 3, 7, 105, 347). Il Salterio e libro d'ore appartenuto a Iolanda di Soissons, oggi smembrato (New York, Pierp. Morgan Lib., M.729), databile verso la fine del Duecento, doveva svolgere un programma parallelo di immagini francescane e cristologiche (Gould, 1977).In Italia, oltre all'Umbria, anche Bologna fu un centro di primaria importanza per la miniatura francescana, come dimostrato dai libri corali della chiesa di S. Francesco, conservati nel Mus. Civ. Medievale (525, 526, 527, 528, 530; Conti, 1981; Ciardi Dupré dal Poggetto, 1982) oppure dalla Bibbia di Cesena (Bibl. Com. Malatestiana, D.XXI.1), opera di un miniatore bolognese intorno al 1280, che su un girale laterale della iniziale della Genesi, con i giorni della creazione, mostra la stimmatizzazione di Francesco.Anche in Inghilterra la produzione di libri con immagini francescane ebbe particolare diffusione. Emblematico nella sua specificità è il caso del manoscritto dei Chronica maiora (Cambridge, C.C.C., 16), scritto e decorato nel quarto decennio del Duecento dal benedettino Matthew Paris del monastero di St Albans (Morgan, 1988), il quale vi illustrò alcuni episodi della vita di s. Francesco (Frugoni, 1993). Una notevole diffusione in ambito francescano ebbe anche il testo dell'Apocalisse (v.), connessa alla interpretazione della figura del santo con l'angelo del sesto sigillo (Burr, 1992). Numerosi furono anche i codici dell'Apocalisse destinati ad ambienti francescani, soprattutto in Inghilterra, tra cui va segnalato almeno il manoscritto di Cambridge (Trinity College, R.16.2.; Morgan, 1988), datato intorno alla metà del Duecento.Nel corso del sec. 14° la produzione di manoscritti miniati per i conventi francescani non conobbe momenti di sosta, né si verificarono sostanziali modificazioni negli schemi iconografici e nelle tipologie di base dei codici. Cominciarono però ad apparire, insieme a Francesco, Antonio e Chiara, le immagini di santi di più recente canonizzazione, come Bonaventura da Bagnoregio, Ludovico di Tolosa, Elisabetta di Turingia.
Bibl.:
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