GRIMALDI, Francescantonio
Fratello minore di Domenico, nacque a Seminara, presso Reggio Calabria, il 10 maggio 1741. Fu dapprima educato dal padre, marchese Pio, che ne sviluppò gli interessi culturali e filosofici e la sensibilità artistica; ebbe così una buona formazione umanistica, che comprendeva anche l'insegnamento del disegno, della pittura e della musica. La famiglia, nobile ma non particolarmente ricca, avviò il G. agli studi giuridici in previsione di una carriera forense che gli garantisse una collocazione professionale e sociale autonoma e adeguata al rango. Raggiunse quindi il fratello a Napoli, dove frequentò l'Università, entrando anch'egli in contatto con A. Genovesi e i suoi allievi più giovani.
Frutto della preparazione giuridica, già tuttavia orientata verso temi che avrebbe sviluppato in seguito, fu la sua dissertazione De successionibus legitimis in urbe Neapolitana, pubblicata (s.l., ma Napoli) nel 1766 con una dedica a Girolamo Grimaldi, ministro di Carlo III di Spagna. Analizzando il diritto testamentario greco e romano e le forme che aveva assunto per garantire l'aristocrazia, il G., ispirato forse anche dalla lezione genovesiana sulla necessità che nel mondo della legge emergesse infine il "giureconsulto-filosofo", manifestò il proposito di guardare alle vicende del diritto da un punto di vista filosofico, perché "la ricerca del vero di fatto per applicarvi la verità di diritto è la più nobile operazione della ragione".
Esercitata per qualche tempo la professione forense, la abbandonò, convinto che in quell'ambiente non avrebbe potuto seguire il proprio itinerario culturale per i difetti denunciati ormai da anni dal movimento riformatore e confermati ai suoi occhi dall'esperienza diretta: "Come ritrovar più i principi di una tranquilla ragione fra le tumultuose bolge del nostro foro e in quel vertiginoso frastuono?". Come il fratello Domenico, nel frattempo trasferitosi a Genova, anch'egli volle essere ascritto al patriziato genovese e interessarsi al mondo culturale e politico della Repubblica. Nel 1766 dedicò ad A. Lomellini una Lettera sopra la musica (s.l., ma Napoli), nella quale analizzò la storia della musica come principio regolatore e ordinatore della società. Partendo dalla "musica naturale" del mondo primitivo, il G. esaminò le funzioni della musica nell'evoluzione della società, distinguendo una "armonia voluttuosa", fonte di piacere, e una "armonia filosofica" che, pur non differendo come linguaggio dalla precedente, doveva costituire "la base delle virtù politiche e il sostegno degli Stati". Passato poi a occuparsi della storia della Repubblica di Genova il G. scrisse la biografia di un antenato cinquecentesco, La vita di Ansaldo Grimaldi, patrizio genovese, illustrata conriflessioni politiche e morali e con una breve narrazione del governo politicodella Repubblica di Genova dalla sua origine insino all'anno 1528 (Napoli 1769). Tema dominante ne è l'analisi della natura e della funzione della nobiltà nel contesto di diverse forme di governo.
Il G. si inseriva così nel grande dibattito apertosi nella cultura illuministica sulla funzione dell'aristocrazia. Pur riconoscendo e denunciando responsabilità ed errori della nobiltà per le continue faide e gli scontri di potere che travagliavano la vita politica di Genova e ne avevano minato la potenza, espresse la convinzione che essa avrebbe dovuto e potuto riprendere la funzione di classe dirigente a salvaguardia della libertà della Repubblica, che aveva prima svolto. Si coglie tuttavia nella sua posizione, pur fortemente critica verso un ceto così restio alle riforme, l'eco d'un senso di appartenenza a un gruppo sociale, del quale auspicava il riscatto. Giudicando la democrazia la "forma di governo più prossima alla tirannide" e polemizzando con lo storico della Repubblica genovese U. Foglietta, che nel '500 aveva sostenuto una totale uguaglianza fra gli ordini della Repubblica, il G. rivendicò alla nobiltà una funzione sociale e storica irrinunciabile in una struttura sociale inevitabilmente gerarchica, dove poteva trovare giustificazione anche un istituto largamente criticato dal movimento riformatore quale il fedecommesso.
Negli anni '70 il G. intensificò i rapporti con gli ambienti massonici napoletani; nel 1775 divenne maestro venerabile della loggia Humanité, mentre aderivano a diverse logge di rito inglese i suoi più cari amici e privilegiati interlocutori, quali D. Cirillo, F. Longano, M. Pagano, G. Filangieri e molti altri. Con questi il dialogo si fece proprio in quegli anni più intenso e problematico, dopo la svolta che, caduto B. Tanucci, si andava determinando nella cultura illuministica napoletana e nella vita politica del Regno.
Nel 1777, con La vita di Diogene cinico (Napoli), il G. affrontava - sulla scorta di un'analisi della filosofia antica - il tema dell'etica in termini che preannunciano l'evoluzione successiva del suo pensiero. Vi affermò che la morale "vuol essere trattata come la fisica, la quale non è utile se non è accompagnata dall'esperienza". Gli "esercizi dell'animo" di Diogene gli apparivano tutti applicati allo studio dell'uomo: "La scienza morale del cinico consiste nel conoscer l'uomo naturale, cioè l'uomo fisico dotato delle potenze sensibili, che lo rendono suscettibile di quella perfettibilità maggiore, che vien destinata al suo piano nell'ordine universale delle cose […] e l'ha da considerare nel rapporto non già con degli esseri in generale, ma degli esseri a lui simili". Occorreva "quindi esaminare le cagioni che sviluppano le società e le perfezionano, e non perder mai di mira l'uomo morale", in parte effetto e in parte causa dello sviluppo delle società, considerandolo come "essere passivo, in quanto che viene urtato da tutti i bisogni, che son figli dell'ordine socievole" e che, sviluppando le potenze sensibili in mille maniere, suscitano in lui passioni che lo rendono infelice, ma nello stesso tempo risvegliano la sua ragione. "Qui il cinico calcola e cerca, per dir così, di burlar la natura: egli vuol restare nella società per godere tutta la superiorità della sua ragione, perché fuori dell'ordine socievole l'uomo si imbrutalisce ed opera per l'impulso de' sentimenti fisici, ma non vuol soggiacere a quel numero sterminato di passioni annesse alla natura dell'uomo socievole, che lo renderebbero infelice".
Approssimandosi così gradualmente a definire una propria visione del mondo, il G., in una fase di concentrazione e di raccoglimento, si dedicò all'opera, pur sovrabbondante e farraginosa, di più compiuta maturazione del proprio pensiero (nutrito dallo scambio e confronto con intellettuali napoletani che andavano elaborando tesi anche opposte alle sue, quali Longano, Pagano, Filangieri): le Riflessioni sopra l'ineguaglianza tra gli uomini (I-III, Napoli 1779-80; ed. a cura di F. Crispini, Vibo Valentia 2000), che ebbero subito recensioni e apprezzamenti anche all'estero, specie nel mondo tedesco.
L'opera riflette appieno l'evoluzione del dibattito scientifico e politico nell'ultimo quarto del secolo. Il G. vi coglieva soprattutto l'emergere del neonaturalismo, fondando su di esso l'epistemologia della scienza dell'uomo divenuta ormai l'oggetto precipuo della sua meditazione. Sulla scorta dell'empirismo di D. Hume (Treatise on human nature) e del realismo di N. Machiavelli (sempre presente nelle sue riflessioni), rifiutando ogni visione utopistica dichiarò di non voler "considerare gli uomini quali essi potrebbon o dovrebbono essere, ma quali per fatto sono". Da questo la sua polemica con J.-J. Rousseau, con Morelly e in genere col radicalismo illuministico che, sempre presente nelle discussioni dei riformatori sul rapporto natura-civiltà, elemento costante delle analisi genovesiane, prendeva sul finire del secolo accenti nuovi. Gli strumenti conoscitivi più atti a tale scopo apparivano ora quelli delle scienze naturali (fisiologia, anatomia comparata, climatologia, zoologia chimica, medicina), supportati dalla statistica e dalla nascente etnologia, che consentivano di studiare l'uomo come "un fenomeno simile a tutti gli altri […] della natura". Rifacendosi al panteismo dell'Interprétation de la nature di D. Diderot, il G. teorizzava che "la natura o il gran tutto, come da noi si concepisce, viene composto da tanti esseri dissimili, ma collegati tra di loro per alcuni nodi" che formano "l'armonia, l'ordine, il sistema unito e connesso dell'universo", collocando l'uomo nella "catena universale degli esseri". In una tale natura "tutto è attivo, tutto è vivente […]; la morte non è che metamorfosi, una trasfigurazione, ed è così necessaria per la conservazione degli esseri com'è necessaria le generazione". Il metodo empirico e le descrizioni fatte da viaggiatori e colonizzatori sulle società primitive dimostravano l'ineguaglianza naturale degli uomini, coerentemente con le differenze che si riscontrano tra le specie animali e l'umana. Quanto alla molteplicità delle razze umane, a fronte del sorgere di teorie poligenetiche, il G., rifacendosi alle tesi di G.-L. Leclerc de Buffon sull'influenza del clima, abbracciò la teoria monogenetica; lettore onnivoro e appassionato della letteratura di viaggi, nel primo libro delle Riflessioni accumulò descrizioni documentatissime delle differenze tra popolazioni di diverse parti del mondo, soffermandosi sugli effetti del clima, sui diversi bisogni e sui diversi modi di soddisfarli (dalla dieta ai costumi sessuali), sulle malattie e le cure. Incerta appare la sua spiegazione dell'origine delle differenze tra le razze e in particolare quella circa la "razza negra"; rimise comunque la risposta ultima all'ulteriore sviluppo delle conoscenze. Data questa visione "positivistica", escludente tuttavia qualunque adesione al materialismo, il passaggio che lo portò a sostenere l'ineguaglianza tra gli individui fu lo stabilimento d'un rapporto tra corporeità, atteggiamenti mentali, mondo dei sentimenti e delle emozioni, attraverso il concetto di sensibilità, che governa il rapporto tra il fisico e il morale dell'uomo. Per illustrarlo il G. si affidò alle teorie di J.-P. Marat (A philosophical essay on man, 1773).
Proprio l'analisi di questo legame organico è alla base del suo attacco alle teorie egualitarie di Rousseau. L'ipotesi di un primigenio stato di natura in cui gli uomini sono liberi, indipendenti e uguali, e di cui la società civilizzata, fondata sul diritto di proprietà, l'agricoltura e la divisione del lavoro rappresenterebbero la corruzione, appariva al G. incompatibile con la realtà di tutte le società conosciute, quale che fosse il loro grado di sviluppo, come dimostravano inoppugnabilmente le descrizioni delle terre più lontane e la storia dei popoli antichi dell'Occidente. La società non è uno stato di corruzione, ma "lo stato naturale dell'uomo", né si dà iato tra natura e storia. Cogliendo spunti offerti dal realismo machiavelliano, da G. Vico e dagli illuministi scozzesi, di cui fu lettore attento e informato, il G. ritenne che sull'uomo della società civile, acculturato e ingentilito nelle maniere, agiscono le stesse molle psicologiche e le stesse pulsioni che agiscono sul selvaggio, non "buono" né migliore dell'uomo civilizzato. La disuguaglianza fisica, a suo avviso scientificamente e statisticamente dimostrabile, si collega alla disuguaglianza morale ed è intimamente connessa alla natura, connotando le fasi diverse della formazione della società civile; il G. ne dà una rappresentazione per stadi, con influenze vichiane. Essa comportava conseguenze sul piano politico, servendo a spiegare le diverse forme assunte nel corso della storia, anzi delle storie delle diverse società, dalle gerarchie sociali, venendo a costituire un dato ineliminabile della storia dell'umanità e l'elemento determinante nella definizione delle forme della rappresentanza politica, sulla quale si sarebbero riflesse immediatamente.
Di fronte alle problematiche emergenti nel movimento delle riforme, il G. teorizzò la necessità che al posto degli sclerotici e immobili ordini dell'ancien régime sorgessero nuove élites sociali e politiche fondate sulla capacità e sul merito, in grado di attuare un progetto riformatore ma anch'esse solidamente gerarchizzate. Si trattava d'un processo di modernizzazione sociale e politica che interpretava e utilizzava l'accettazione della disuguaglianza morale come elemento costitutivo della rappresentanza politica, di cui proprio le nuove élites dovevano essere protagoniste, ma gradualmente e con prudenza, nell'accettazione della struttura politica della monarchia assoluta. Il G. polemizzò quindi con le tesi, a suo parere utopistiche, di pensatori quali Helvétius sulla possibilità che l'educazione diffusa fosse un'arma vincente contro la disuguaglianza (pur con soluzioni diverse lo stesso Filangieri risentì di questa posizione); diffidò anche delle soluzioni rivoluzionarie, in modo che fa di lui il più lucido esponente in Italia di un illuminismo conservatore, contrapposto a quanti, partiti da una cultura comune, approdarono, come il Filangieri, a un progetto riformatore fondato sui diritti dell'uomo.
Negli ultimi anni di vita il G., negli Annali del Regno di Napoli dedicati a Ferdinando IV, applicò le proprie riflessioni alla storia del suo paese: nei primi cinque tomi, pubblicati a Napoli tra 1781 e 1783, a una Introduzione sulle popolazione dell'Italia meridionale prima della nascita di Roma fece seguire l'analisi del periodo romano, la fine dell'Impero, l'origine delle invasioni barbariche.
La morte impedì il compimento dell'opera, che fu però proseguita per altri tre tomi dall'amico G. Cestari, sacerdote illuminista di sentimenti regalisti, coautore nel 1799, con Pagano e G. Logoteta, della costituzione della Repubblica napoletana. L'opera, che vide tra i sottoscrittori il fior fiore della dirigenza politica e della cultura napoletana, attirò su di sé la polemica di V. Cuoco ma fu letta a lungo per la ricostruzione che faceva della storia del paese, l'attenzione alla storia sociale, in particolare ai contadini, l'analisi degli effetti della colonizzazione greca e poi della conquista romana.
Nel frattempo il G. fu nominato dal primo ministro J.F.E. Acton assessore all'Esercito regio. Mentre ormai la sua salute andava declinando, ebbe un ultimo incarico governativo in seguito al terremoto che devastò la Calabria nel 1783, colpendo gravemente la sua famiglia con la morte di cinque membri. Il G. redasse allora la Descrizione de' tremuoti accaduti nella Calabria nel 1783, pubblicata postuma a Napoli nel 1784 a cura dell'amico Cestari, che vi premise un'anonima Lettera a un amico in cui dava notizia della morte dell'autore.
Senza indulgere alle visioni catastrofiste e palingenetiche di autori come Jerocades, Salfi, Pagano, anche in quest'opera il G. portò la sua cultura scientifica, optando quanto alle possibili cause del terremoto per la teoria dell'origine vulcanica e, quanto alle polemiche sull'efficacia delle misure del governo per il soccorso alle popolazioni calabresi, schierandosi a favore. Già nelle Riflessioni (I, p. X) aveva consapevolmente segnato il limite della sua percezione delle vicende del mondo: "Lascio ad altri l'inutile sfogo di lamentarsi o della natura o degli uomini […]. Non è ch'io sia stupido per non sentire i mali che affliggono me e gli altri miei simili, e sarei troppo sensibile a' rimedi che potrebbono guarigli; ma l'impossibilità dimostrata col fatto e confermata con l'esperienza di più e più secoli mi fa ragionevolmente disperare di ogni successo. Né io altro rimedio più efficace trovo contro l'ineguaglianza che di forcare quanto più si può la pazienza".
La tragedia della Calabria coincise con quella personale del G., che, già in cattive condizioni di salute, dopo la lunga malattia e la perdita della moglie Aurora Barnaba, morì a Napoli l'8 febbr. 1784.
Fonti e Bibl.: M. Delfico, Elogio del marchese d. F. G. dei signori di Messimeri, patrizio di Genova e assessore di Guerra e Marina…, Napoli 1784 (rist. in Id., Opere complete, a cura di G. Pannella - L. Savorini, III, Teramo 1904, pp. 223-260); F. Venturi, Illuministi italiani, V, Riformatori napoletani, Milano-Napoli 1962, pp. 509-600; A. Placanica, Il filosofo e la catastrofe, Torino 1985, passim; R. Bruschi, Francesco Longano e F. G., in Studistor. meridionali, IX (1989), pp. 115-134; V. Ferrone, I profeti dell'Illuminismo, Roma-Bari 1989, pp. 249, 313-337; Id., La società giusta ed equa, Roma-Bari 2002, ad indicem.