CEVA, Francesco Adriano
Nacque a Mondovì, da famiglia appartenente alla nobiltà cittadina, nel 1585. Pare probabile che si addottorasse in leggi nello Studio monregalese prima di intraprendere la carriera ecclesiastica. In ogni modo non era ancora ventenne allorché si trasferì a Roma e si pose al servizio di Maffeo Barberini, arcivescovo di Nazareth, in qualità di segretario. Quando il Barberini fu incaricato della nunziatura di Francia, dove ricevette poi la nomina cardinalizia, il C. lo seguì in quella corte e rimase ivi con lui, sempre espletando le funzioni di segretario, dalla fine del 1604 sino al suo ritorno a Roma, nel sett. 1607.
Il C. continuò a servire il Barberini anche nelle successive cariche ricoperte da questo durante i pontificati di Paolo V e di Gregorio XV: fu con lui nella diocesi di Spoleto, della quale il suo protettore era divenuto vescovo nel 1608, poi, dal 1611 a Bologna, di cui il Barberini fu cardinale legato per un triennio. Lo seguì quindi a Roma, dove il Barberini esercitò a lungo la carica di prefetto della Segnatura di giustizia, ottenendo un incarico nel medesimo ufficio.
Dopo essere stato conclavista del Barberini nel conclave del 1621, seguito alla morte di Paolo V, gli fu ancora a fianco due anni dopo, col medesimo incarico, nel conclave per la morte di Gregorio XV. In questa occasione il Barberini dovette ai servigi del C. se poté condurre segretamente con numerosi membri del Sacro Collegio le trattative che condussero alla sua elevazione al pontificato. Urbano VIII non dimenticò di premiare l'antica fedeltà del C., attribuendogli dapprima la carica di segretario dei memoriali e poi, in sostituzione di Virginio Cesarini, quella di maestro di camera, oltre ad un canonicato nella basilica lateranense.
Nei primi anni del pontificato barberiniano scarse sono le notizie sull'attività del Ceva. Certo è che nel mondo politico e diplomatico lo si riteneva il più assiduo collaboratore del papa, "la persona que mas puede saver de sus afectos y dictamenes" (Leman, Urbain VIII..., p. 215). Pare peraltro, almeno a credere ai giudizi dei diplomatici spagnoli certo non indulgenti verso la Curia barberiniana, che il C. sapesse mettere assai largamente a frutto il favore dimostratogli dal pontefice, e del resto la cosa appare confermata dalle cospicue ricchezze che egli lasciò alla sua morte: "nació con alguna nobleza, pero su trato y acciones son tan serviles, que no corresponden al nacimiento" (ibid.); e me aseguran que es persona venal... que como ay dinero se podrá saber de lo que se quisiere" (ibid.).
Dal suo oscuro posto al fianco del pontefice il C. uscì per la prima volta nel marzo del 1632, allorché gli fu attribuito dal papa un importante incarico diplomatico.
La guerra di Germania era giunta, con la campagna che si era conclusa alle soglie dell'inverno precedente, ad una svolta estremamente sfavorevole per l'imperatore ed i suoi alleati cattolici. Gustavo Adolfo sembrava militarmente inarrestabile ed in più poteva contare sull'alleanza dei principi luterani di Germania e sull'appoggio della Francia. Lo stesso re svedese non nascondeva i propri propositi di portare sino in fondo la sua offensiva contro il mondo cattolico; si conosceva in Curia la sua minacciosa intenzione di scendere in Italia e di spingersi addirittura a Roma, rinnovando le atrocità del sacco dei lanzichenecchi del 1527, e le preoccupazioni del pontefice aumentarono quando si ebbe notizia degli accordi stretti tra Gustavo Adolfo e i Grigioni, che avrebbero potuto dischiudere agli Svedesi la strada della penisola. Il papa decise perciò di dare nuovo impulso ai tentativi per un accordo tra le maggiori potenze cattoliche che consentisse la formazione di una lega contro gli Svedesi. Ma per questo era necessario preliminarmente che la Francia si distaccasse dall'alleanza con Gustavo Adolfo e con i principi luterani dell'Impero e ciò naturalmente non sarebbe stato possibile finché Luigi XIII ed il Richelieu avessero continuato a sentire intorno alla Francia la morsa dell'ostilità asburgica. Fiducioso nel peso che avrebbero avuto presso i sovrani cattolici le ragioni della difesa della fede contro la minaccia degli eretici, troppo poco conto Urbano VIII teneva delle vere ragioni del contrasto tra la Francia da una parte e la Spagna e l'Impero dall'altra: la lotta egemonica, che costituiva il motivo conduttore della storia europea da un secolo veniva troppo volentieri subordinata agli interessi considerati preminenti della religione, perché la Curia romana potesse assumere una visione realistica della situazione e su questa modellare la sua iniziativa diplomatica.
Tutti i tentativi operati dalla diplomazia barberiniana, fin dal principio del pontificato di Urbano VIII, per mediare un accordo tra i due rami della casa d'Asburgo e la Francia erano miseramente falliti e sorte non migliore era riservata a quello iniziato nella primavera del 1632, che riservava il compito di conciliare le tre potenze cattoliche e di realizzare l'unione delle loro forze contro gli eretici a tre nunzi straordinari, scelti tra i più fidati collaboratori del pontefice: il vescovo Lorenzo Campeggi, inviato alla corte di Madrid, il governatore di Roma Girolamo Grimaldi alla corte imperiale ed infine il C. a quella di Parigi, dove avrebbe affiancato il nunzio permanente Alessandro Bichi.
Le istruzioni impartite al C. erano del tutto generiche, si limitavano, a prospettare i vantaggi di una denuncia francese dell'alleanza con gli eretici senza precisare il punto di vista della Curia sulle varie questioni pendenti tra la Francia e gli Stati asburgici, a proposito delle quali si suggeriva o un loro rapido regolamento o un momentaneo accantonamento, se quello non fosse stato possibile, in vista di una tempestiva ed efficace iniziativa comune contro ugonotti e Svedesi. Si confermava peraltro la posizione di neutralità del pontefice, che da molti, e specialmente dagli Spagnoli veniva messa in dubbio, raccomandando al nunzio di sottolineare "la candidezza e rettitudine delli pensieri della S.tà Sua, l'indifferenza paterna verso tutti senza veruna partialità" (Pastor, XIII, p. 1030).
Ma l'unione dei cattolici sembrava assai meno realizzabile nelle corti interessate di quanto non ritenesse il pontefice. In particolare sembrava agli Spagnoli che il papa tentasse di eludere con questa nuova iniziativa diplomatica la richiesta asburgica sempre più, pressante di una condanna del re di Francia, colpevole di sostenere esplicitamente gli eretici. Poiché l'invio dei tre nunzi straordinari riproponeva il pontefice come neutrale nella contesa, e poiché questa neutralità tra i più strenui difensori dell'integrità cattolica e i sostenitori degli eretici sembrava assurda, anche questo episodio venne posto a carico delle simpatie per la Francia di cui da gran tempo Urbano VIII veniva sospettato a Madrid. La stessa scelta del C. quale inviato a Parigi sembrava confermare questa interpretazione: al maestro di camera si rimproverava l'origine piemontese che ne faceva un vassallo del duca di Savoia, strettamente legato alla Francia; il fatto poi che egli fosse un così intimo collaboratore di Urbano VIII suggeriva la congettura che fosse latore di riservatissime concessioni pontificie.
Inoltre l'inviato spagnolo a Roma, marchese di Castel Rodrigo, venne in possesso di una pretesa copia delle istruzioni impartite dalla Segreteria di Stato al C. che erano sensibilmente diverse da quelle effettive, sia nel tono sia nella sostanza: il tono era quello di un fiero partigiano della Francia; la sostanza era che il pontefice si impegnava a procacciare al re cristianissimo i più ampi vantaggi, sia nel caso che fosse stato raggiunto un accordo con le potenze asburgiche, sia in quello contrario. Nel primo caso infatti il nunzio stesso avrebbe fatto in modo che fosse a tutti chiaro come il re di Francia avesse anteposto i vantaggi della religione a quelli propri, la qual cosa avrebbe aumentato il prestigio del re presso i cattolici dell'Impero, consentendogli di aspirare alle più alte dignità, sottintendendo evidentemente quella imperiale. Nel secondo caso il papa si impegnava a sostenere la Francia contro la casa d'Asburgo, a patto di alcuni vantaggi per i cattolici di Germania e della preservazione dell'Italia dalla guerra.
Trasmettendo queste istruzioni al conte duca d'Olivares il Castel Rodrigo si scagliava energicamente contro la doppiezza del pontefice: "El papel me parece mas de Machavello que de un vicario de X.to" (Leman, p. 217). Come il Leman ha dimostrato il Castel Rodrigo rimase in questa occasione vittima di un abile falsario e del resto tutto il comportamento diplomatico del C. fu ben lontano dall'uniformarsi al documento che tanto scandalizzava l'agente spagnolo. Ma allacorte di Madrid le pretese istruzioni al C. apparvero come la più diretta e indiscutibile conferma della partigianeria del pontefice e l'episodio certo contribuì a far fallire da parte spagnola il nuovo tentativo di pace della Curia romana.
Arrivato a Lione il 16 ag. 1632, il C. vi aspettò l'arrivo della corte, la quale fece il suo ingresso nella città il 5 settembre successivo. Nell'udienza ottenuta dal sovrano trovò una benevola accoglienza alle proprie proposte.
Luigi XIII si disse assolutamente incline alla pace e disposto a lasciare al pontefice il compito di concordare un accordo con gli Imperiali e gli Spagnoli; assicurando che vi avrebbe aderito senza riserve se fossero state assicurate alla Francia eque condizioni. In effetti tra queste Luigi XIII poneva quella del riconoscimento all'occupazione di Pinerolo, realizzata dai Francesi in violazione degli accordi di Cherasco, che era appunto una delle questioni su cui gli Spagnoli erano meno disposti a cedere. D'altra parte la recente invasione della Lorena da parte di Luigi XIII, alla quale invano aveva tentato di opporsi il nunzio residente Alessandro Bichi, era tutt'altro che una dimostrazione di buona volontà da parte del governo francese.Il C. ritenne per il momento di potersi appagare delle apparenti buone disposizioni del sovrano, riservandosi di entrare in seguito in un più preciso esame delle condizioni alle quali un accordo sarebbe stato realizzabile. Al momento peraltro gliene mancò la possibilità: con l'intenzione di seguire più da vicino le operazioni della guerra in Lorena, la corte abbandonò Lione e soltanto il Bichi la accompagnò. Il C. preferì rimanere a Lione, riservandosi di raggiungere più tardi la corte a Parigi. Non rinunziò tuttavia ad operare anche in quella sede tutti i tentativi che gli parvero opportuni per realizzare la propria missione, fiancheggiando così da lontano l'opera del Bichi, diplomatico di notevole personalità, che aveva sino allora fatto quanto era in suo potere - e non era molto, dati i limiti della politica pontificia - per trattenere Luigi XIII ed il Richelieu da una aperta rottura con la Spagna e l'Impero.
Il C. approfittò del soggiorno a Lione per tentare di guadagnare al punto di vista pontificio il fratello del Richelieu, l'arcivescovo della città cardinale Alphonse-Louis du Plessis. E quando, nell'ottobre successivo, passò per Lione il cardinale Alfonso de la Cueva, uno dei più influenti consiglieri di Filippo IV, ottenne anche da lui un abboccamento, nel corso del quale avanzò la proposta che il re di Spagna accantonasse per il momento ogni richiesta relativa a Pinerolo, in vista dei vantaggi che la Spagna stessa avrebbe conseguito con un accordo generale delle potenze cattoliche. Inoltre da Lione egli cercò di prendere contatto con il duca Carlo di Lorena, tentando di stabilire le possibilità di un accordo con Luigi XIII.
In realtà erano questi tutti temi e problemi che il Bichi aveva già dovuto largamente affrontare durante la sua permanenza alla corte francese, cosicché quando il C. raggiunse Parigi e riprese il proprio posto presso il sovrano, dovette in realtà limitarsi ad un ruolo sostanzialmente subordinato nei riguardi del nunzio residente. Tuttavia la morte di Gustavo Adolfo alla battaglia di Lützen sembrò aprire nuove possibilità ad un accordo tra le potenze, e il C. dovette riconsiderare i termini della propria missione in base alle nuove circostanze.
Secondo le nuove istruzioni inviategli da Francesco Barberini, infatti, con la perdita del prestigioso e fortunato alleato il re di Francia avrebbe potuto essere indotto a qualche concessione sulla questione di Pinerolo, alla quale da parte degli Spagnoli e degli Imperiali, per conto loro troppo interessati alla pace in Germania per non indurvisi, avrebbe potuto corrispondere l'ammissione del re di Francia a trattare la regolamentazione degli affari dell'Impero.
Sulla base di queste indicazioni il C. fece presente, in una nuova udienza ottenuta da Luigi XIII, che la morte di Gustavo Adolfo permetteva ora al re di Francia di riacquistare la propria libertà d'azione diplomatica, denunciando gli accordi con gli eretici e mettendo la sua potenza a disposizione della libertà dei cattolici; qualche concessione agli Spagnoli, e sia pure sulla stessa delicata questione di Pinerolo, osserva il nunzio al re, non saranno un prezzo troppo caro al ristabilimento della pace, tanto più che non intaccherà la potenza francese. La replica del re è tutt'altro che impegnativa, ma il C. non desiste dai propri sforzi, invocando presso il sovrano l'intervento del segretario di Stato Chavigny e quello del suo stesso confessore per impedire che la Francia si avventuri in nuove pericolose iniziative e che siano mantenuti i contatti con gli eretici, esiziali alla fede cattolica.
Poiché del resto il re non respinge nettamente le proposte del C. e per conto suo il Richelieu conferma al Bichi le intenzioni pacifiche della Francia, il C. d'accordo con il nunzio residente, ritiene che sia necessario sfruttare l'occasione favorevole e stringere i tempi per la realizzazione di un congresso di pace tra le potenze. E in realtà i due diplomatici pontifici ottengono che vengano allacciate trattative dirette che, se per quanto riguarda la corte di Madrid sin dal principio sono tutt'altro che rassicuranti sembrano procedere verso migliori risultati in quelle di Parigi e di Vienna.
In realtà il C. dovette presto rendersi conto di quanto vane fossero queste speranze: al Richelieu, che si ostinava a chiedere che fossero escluse da qualsiasi contrattazione le questioni di Pinerolo e della Lorena, egli fece osservare invano che una simile preclusione avrebbe irrimediabilmente compromesso ogni tentativo di accordo. In effetti il cardinale non voleva che guadagnare tempo, per uscire nel migliore dei modi dalla situazione nuova creata dalla morte di Gustavo Adolfo e l'iniziativa pontificia gliene offriva ingenuamente tutti i possibili pretesti: l'intera estate del 1633 trascorse così in vane trattative e inutilmente il C. moltiplicò le proprie pressioni presso il confessore del Richelieu perché questi recedesse dalla sua intransigenza; presso l'ambasciatore spagnolo Cristobal de Benavente, perché a sua volta ottenesse da Madrid l'autorizzazione a trattare il riconoscimento di Pinerolo alla Francia in cambio dell'evacuazione dei Francesi da Casale e dei Veneziani da Mantova, presso l'arcivescovo di Lione perché inducesse il fratello ad una posizione meno rigida e ancora presso altri importanti personaggi della corte, quali il confessore di Luigi XIII ed il segretario di Stato Bouthillier.
Quando nel novembre del 1633 il re di Francia, gli Svedesi ed i principi luterani dell'Impero confermarono gli accordi raggiunti con il trattato di Francoforte, apparve chiaro che la missione del C. era fallita e che lo spiraglio di speranza aperto dalla morte di Gustavo Adolfo si era ormai irrimediabilmente richiuso. Naturalmente lo stesso C. elevò le più fiere proteste contro i nuovi legami che si stringevano tra il re di Francia e gli eretici, ma tutto quello che il C. e il Bichi riuscirono ad ottenere da Luigi XIII fu l'impegno ad ottenere dagli Svedesi e dai principi luterani il risarcimento parziale dei danni arrecati ai cattolici di Germania. Ma se la presenza del nunzio straordinario a Parigi si rivelava così di giorno in giorno sempre più inutile, essa non mancava di alimentare alla corte di Spagna i sospetti che intorno alla sua missione erano nati sin dal principio.
Sin dall'estate del 1633, al momento della scoperta del tradimento del Waldstein, il Castel Rodrigo aveva dato come informazione sicura all'Olivares che il C. era stato autorizzato dal papa a trattare con il generale imperiale la divisione dell'Impero e la sua stessa elevazione al trono imperiale: una voce, questa, che evidentemente non aveva alcun fondamento, ma che veniva resa credibile sia dalla animosità della corte spagnola verso Urbano VIII sia dal credito che a Madrid si continuava ad attribuire alle false istruzioni per il C. trasmesse dal Castel Rodrigo l'anno precedente: fatto sta che il Consiglio di Stato spagnolo si occupò dell'assurda questione dei rapporti del nunzio straordinario a Parigi con il generale traditore in una apposita seduta, il 19 nov. 1633.
In realtà il C. era ben lontano dall'esercitare un ruolo diplomatico così centrale: sebbene ritornasse sovente a perorare per la pace presso il re ed i suoi consiglieri, egli aveva finito per ridursi ad un ruolo del tutto secondario, lasciando in pratica la somma degli affari nelle mani del Bichi, assai più di lui introdotto a palazzo e probabilmente più abile e costante negoziatore. Gli ultimi mesi della sua nunziatura il C. visse a Parigi molto appartato, tanto che l'ambasciatore veneziano scriveva al Senato che egli avrebbe terminato la nunziatura "con poco negotio e minor spesa, essendo stato ritirato non senza qualche biasimo" (Leman, p. 353).
Nell'agosto del 1634 il C. prese congedo da Luigi XIII e dalla sua corte e pose fine alla sua sfortunata missione. Nel viaggio di ritorno in Italia si soffermò per qualche tempo alla corte di Torino, perorando in favore della pace presso il duca di Savoia Vittorio Amedeo I, del quale in nome del pontefice richiese i buoni uffici. Che il fallimento delle trattative condotte a Parigi dal C. non fosse attribuibile a suo scarso zelo era cosa troppo ovvia, e in effetti Urbano VIII apprezzò a tal punto i suoi servigi che, poco dopo il suo ritorno a Roma, lo elevò alla carica di segretario di Stato, ufficio di notevole rilievo, anche se allora non ancora di primo piano, poiché la politica estera della S. Sede dipendeva formalmente dal cardinale nepote e sostanzialmente, durante il pontificiato barberiniano, dallo stesso papa.
Del resto il pontefice non fece mancare al suo antico collaboratore altri cospicui segni del proprio apprezzamento: nell'ultima promozione del pontificato, il 13 luglio 1643, lo innalzò alla porpora col titolo di S. Prisca e quindi lo chiamò a far parte della Congregazione dell'Inquisizione, il più importante organismo collettivo di governo della S. Sede, del quale facevano parte i principali cardinali. Il C. continuò a collaborare da vicino con il pontefice, sebbene, secondo il solito, la sua posizione rimanesse sempre poco appariscente, e fu tra gli intimi che assistettero alla sua morte, il 29 luglio 1644.
Nel conclave che seguì alla morte del pontefice, e dal quale risultò eletto Innocenzo X, il C. si allineò alla posizione del gruppo dei cardinali barberiniani, ma non dovette subire poi le rappresaglie del nuovo papa contro i familiari del predecessore, e la sua cospicua fortuna, ascendente alla morte a circa 300.000 ducati, non fu intaccata dalle inchieste aperte da Innocenzo X contro gli illeciti profitti del pontificato barberiniano. Partecipò nel 1655 al conclave in cui fu eletto Alessandro VII.
Morì a Roma il 12 ott. 1655, e fu seppellito nel battistero della basilica lateranense, della quale aveva conservato il canonicato concessogli da Urbano VIII.
Fonti e Bibl.: A. Leman, Urbain VIII et la rivalité de la France et de la maison d'Autriche de 1631 à 1635, Lille-Paris 1920, passim; L. von Pastor, Storia dei papi, XIII, Roma 1931, ad Ind.; G. Moroni, Diz. di erudizione storico-eccles., XI, pp. 142 s.