ALBANI, Francesco
Pittore, nato a Bologna il 17 marzo 1578. Sembra si sia iniziato all'arte sotto Dionigi Calvaert, manierista fiammingo naturalizzatosi bolognese, il cui "aggiustato e polito modo di disegnare" ben serviva all'introduzione dei corsi elementari della pittura. Intorno al 1595, con molta probabilità, era già nello studio dei Carracci, che tenevano cattedra in Bologna, soprattutto con Ludovico. Fra il '96 e il '98, non ancora ventenne, collaborò alla decorazione dell'oratorio di San Colombano (San Pietro penitente ad affresco, e piccola pala con l'Apparizione di Cristo alla Vergine), in cui l'attenta disciplina di Ludovico non gli impediva una venatura di simpatia per Annibale, che pure era già lontano, a Roma. Al seguito esclusivo di Ludovico, e con altri condiscepoli, partecipò, avanti lo scadere del secolo, agli affreschi di palazzo Fava, nodo intricatissimo di questioni per le molteplici presenze non ancora interamente decifrate. Fra di esse, tuttavia, la mano che ha operato nell'episodio dei Naufraghi troiani (gli affreschi raccontano fatti dell'Eneide) imprime l'orma del sentimento e della forma che segneranno di lì a poco la figura del giovane e svagato famiglio sulla destra o dell'ancella ai piedi della scala nella Natività della Vergine: la mano dell'A., appunto. Così anche nell'episodio di Nettuno che suscita le tempeste, dove ricompaiono le medesime intenzioni di ostentata energia formale azzardate nel San Pietro penitente; fin nelle parti decorative dei putti che dividono, a guisa di cariatidi, gli scomparti delle diverse figurazioni, è possibile leggere i tratti caratteristici delle esuberanti forme neo-veneziane dell'A., il cui intervento nell'opera di palazzo Fava, sulla base delle ricerche fino ad oggi compiute, sembra arrestarsi qui.
La citata Natività della Vergine per S. Maria del Piombo (oggi a Roma nella Pinacoteca Capitolina) deve dunque cadere nello stesso giro di anni, anche se rivela con sorprendente anticipo alcune notazioni classicistiche, che saranno proprie dell'A. nel suo determinante soggiorno romano. Il 5 dic. 1599, insieme con Guido Reni, l'A. è nel Consiglio dei Trenta dell'Arte dei Pittori, organizzatasi per la prima volta in Bologna. Del '99, datata, è la tela di Madonna con le Sante Caterina e Maddalena per la chiesa dei SS. Fabiano e Sebastiano.
Al 1601-02 risale il primo lungo soggiorno a Roma, ancora con il Reni, per vedere "Annibale, Raffaello e li marmi antichi" (Bellori). Nella tormentata questione di attribuzione delle lunette per la cappella Aldobrandini di S. Carlo al Corso (attualmente nella Galleria Doria) l'A. ha parte solamente per quanto riguarda l'Assunzione. Fra il 1604 e il 1607 Annibale Carracci tiene seco l'A. come aiuto per i lavori della cappella Herrera in San Giacomo degli Spagnoli (affreschi con Storie di San Diego, poi staccati e distribuiti fra i musei del Prado e di Barcellona). Le commissioni arrivano poi in fretta: a palazzo Mattei, in quello Verospi al Corso, nel palazzo dei Giustiniani a Bassano di Sutri, in Un succedersi di impegni sempre più gravi di responsabilità, che testimoniano del favore incontrato dall'artista, divenuto, con il Reni e il Domenichino, erede legittimo di Annibale, morto nel 1609. In palazzo Mattei la conferma dell'attribuzione all'A. dell'Assunzione Doria viene dal Sogno di Giacobbe affrescato dal nostro pittore nella volta di una sala. L'estrosità dei profili e degli scorci nei volti degli angeli, il loro vestire panni serrati e nobili di fattura sono ricordo caldissimo della non negletta tradizione di Ludovico Caracci; ma ben più importante è la lezione diretta che qui viene all'A. dal Sogno, che, sulla traccia di Raffaello, uno scolaro, forse il Fattore, aveva trattato nelle Logge Vaticane. È questa la prima conseguenza immediata, nell'A., della febbrile conoscenza del quasi mitico, per lui, pittore urbinate. Una conoscenza che si trasfigura, proprio per l'evidente imitazione dello schema compositivo, nella decorazione della galleria del palazzo Verospi al Corso (poi Torlonia, oggi sede del Credito Italiano); fra il 1607 e il 1608 l'A. vi ricalca le partizioni murali e fin le stesse scene della Loggia di Raffaello nella Farnesina. Ma il rettangolo centrale della volta (fra Vespero e Lucifero, Apollo trascorre dalla Primavera ed Estate all'Autunno e Inverno per significare l'Allegoria del Tempo) è una più nuova eppure nostalgica tentazione di restituirsi al sapore antico di un cammeo ellenistico: memorie preziose di cultura e di ardore classico, intrise nell'assoluta modernità di un paesaggio recente.
Tale richiamo dell'antico è più evidente ancora nella decorazione di una sala del palazzo di Vincenzo Giustiniani a Bassano di Sutri. L'A. vi raffigurò La caduta di Feton te, al cospetto delle costernate divinità. L'affresco occupa l'intera superficie di una volta amplissima; impresa che l'artista mai più affrontò in seguito, dando, però, il meglio di sé negli episodi sulle pareti, collegati alla rappresentazione principale: Il Po e le ninfe, un Fauno alla sorgente, La toilette di Venere.
Importante documento di una concezione mitologica ricchissima di dotte invenzioni, mai sterile, tuttavia, perché attivata con acutissimi trapassi di verità, con una facilità e uno spirito intimamente "bolognesi". Nel mezzo di codeste opere si inseriscono anche i "sette puttini" per una lunetta della cappella del palazzo del Quirinale, nel corso dell'ultima occasione che vide ancora accanto l'A. e il Reni. Subito dopo, infatti, le strade dei due migliori artisti bolognesi presenti in Roma divergono: come i loro rapporti personali, del resto, esasperati dall'emulazione e da quel pizzico di invidia che puntualmente non mancarono di favorire le fazioni artistiche bolognesi e romane del tempo.
Ancora in Roma, nel periodo del primo prolungato soggiorno, ebbe l'onore di esser chiamato ad affrescare (1612-14) l'arco absidale e la volta della Cappella Maggiore di Santa Maria della Pace: proprio a cospetto delle Sibille di quel Raffaello che dall'A. era stato avidamente ricercato e studiato. Sull'esterno dell'arco d'ingresso alla cappella, le figure dei profeti Davide e Isaia stanno in mera funzione ornamentale; ma l'Assunzione della Madonna, al centro della volta, e la lunetta sovrastante l'altare maggiore, con l'Allegoria della Giustizia e della Pace, rivelano con sorprendente anticipo quel "classicismo del barocco" che si ritiene solitamente cresciuto a ragione d'arte verso la metà del secolo. L'A. è qui, a Santa Maria della Pace, interamente padrone di tutti i suoi mezzi espressivi, nel pieno di una feconda maturità. Quasi a un tempo gli arriva la nomina ad accademico di San Luca: abbastanza per desiderare il ritorno a Bologna con il carico di soddisfazioni raccolte e la fama conseguente di "maestro" ormai consacrato.
Un anno alla corte di Mantova, fra il 1621 e il '22, quindi l'A. è di nuovo a Roma, nel 1623. Breve, questa volta, il nuovo soggiorno: forse non più di due anni. Ma sufficiente a raccogliere commissioni dalle maggiori famiglie romane: i Borghese, i Colonna, i Corsini, i Giustiniani. Scipione Borghese gli ordina i grandi tondi delle Storie di Venere, databili al 1625 per il preciso riferimento del particolare d'uno di essi all'Apollo e Dafne del Bernini, eseguito per lo stesso principe fra il 1624 e il '25, appunto. Quindi, il rientro definitivo nella città natale. Roma sembra richiamarlo, due anni dopo, con la proposta di un quadro d'altare per la Basilica Vaticana, ma non se ne fa nulla perché la commissione passa nel '29 al Valentin "contemplatione Ill.mi D. Card.lis Barberini". Ma siamo appena verso lo scadere del terzo decennio; l'A. ha ancora davanti a sé un trentennio di attività. Le note alte divengono rare, nell'industrializzazione ch'egli ora accetta di fare del proprio canto entro il coro vasto di unà bene avviata bottega, nell'agiatezza della casa e della fama acquisita. Quando, però, riescono, quelle note toccano ancora vertici altissimi e lasciano echi profondi: ecco, infatti, a Bologna, gli affreschi della cappella Cagnoli in Santa Maria di Galliera, documentati al 1631, e l'Annunciazione "dal bell'angelo" in San Bartolomeo, dell'anno successivo.
Nel 1633 l'A. è a Firenze, chiamatovi da Giovan Carlo de' Medici per ultimare i quadri commessigli in origine dal duca di Mantova e poi finiti nelle mani del signore di Toscana. Gli anni che restano sono tanti, troppi per consentire ancora eccezioni alla stanchezza, alla monotonia, forse alla noia dei quadretti, che vengono fuori in serie per l'appetito smodato degli amatori di scenette devote o profane dolcificate, idilliche. La niorte colse l'artista nel 1660, a ottantadue anni.
Dopo le lodi superstiti nella critica dell'Ottocento, pur sempre riferite al suo fare vagamente "anacreontico", l'A. è stato oggetto negli ultimi cinquant'anni di una svalutazione, che il mutato costume della nostra età solo in parte giustifica o spiega. Soltanto in Francia, forse in riconoscimento del debito di un Poussin o di Claude verso l'A. e la cultura carraccesca in genere, si è avuto qualche giudizio più fondato e di accento diverso. Ma la considerazione dell'A. si limitava alla Danza degli Amori di Brera - fra l'altro, ostinatamente intesa in senso di esasperato contenutismo, a danno delle prevalenti, ed eccezionali, sottigliezze naturalistiche neo-veneziane di diretta ascendenza tizianesca -; era trascurata, quasi non valesse la pena della ricerca, tutta la più felice e importante attività del tempo romano. I cicli di palazzo Verospi e di Bassano di Sutri dichiarano, infatti, molto bene quanta novità e senso poetico fossero nell'A. per quella sua personalissima trasformazione umanistica del concetto classico, ormai irrestituibile, ma capace di vita propria, se calato in un clima erotico e borghese. E, a S. Maria della Pace, l'accordo fra i nuovi sensi classici e l'affettuosa illusione naturalistica dei Carracci raggiunge una maturità di concetti e di stile che precòrre il Bernini e Pietro da Cortona sulla gran via del "barocco". Solo se attenti a questa fase dell'A., si potranno pienamente intendere e spiegare gli affreschi di S. Maria di Galliera e la Annunciazione di S. Bartolomeo in Bologna, di quindici e più anni dopo, quando l'A. chiude la pagina più alta e schietta della sua attività. Quanto al paesaggio, cresciuto al ruolo di "genere"proprio nel Seicento, la sintesi di "ellenismo veneto-raffaellesco", audacemente realizzata dall'A., sulla vasta orma di Annibale, fu quella che maggiormente lasciò il segno nella cultura del secolo, giungendo lontano, alle espressioni più genuine della pittura barocca o al rinnovato classicismo di Nicolas Poussin.
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