ALGAROTTI, Francesco
Nacque a Venezia l'11 dic. 1712 da Rocco, facoltoso mercante, e da Maria Mercati. Dopo aver fatto i primi studi nella città nativa, fu per un anno a Roma al Collegio Nazareno, e a tredici anni tornò a Venezia dove ebbe primo maestro di greco Carlo Lodoli. Mortogli l'anno seguente il padre, passò a Bologna e in quella città il suo gusto e la sua cultura ricevettero un impulso decisivo, tanto che, pur tra le varie esperienze europee attraverso le quali doveva passare negli anni maturi, egli poté restare a lungo fedele agli insegnamenti ricevuti durante i sei anni che studiò in quella città e serbare un sentimento di grata amicizia per quelli che allora gli furono maestri: E. Manfredi e F. M. Zanotti. A Bologna nei primi decenni del sec. XVIII al classicismo pittorico della scuola di Guido Reni e del Guercino faceva riscontro l'elegante e consapevole classicismo di letterati arcadi e di poeti petrarchisti, ma i maestri più autorevoli di letteratura erano al tempo stesso scienziati insigni, non solo il Manfredi e lo Zanotti, ma anche I. B. Beccari, che indirizzò l'A. agli studi di fisica sperimentale e di medicina, per non dire di coloro che per età furono più compagni di studio che maestri del nostro scrittore: L. M. A. Caldani, valente studioso di anatomia e fisiologia, ed E. Zanotti, successore poi del Manfredi. Negli Atti dell'Istituto bolognese l'A. pubblicò le sue prime memorie di astronomia; ma dell'adesione alla scienza newtoniana, considerata a Bologna quale diretta continuatrice della corrente galileiana, dava anche prova componendo in latino una dissertazione sull'ottica newtoniana a confutazione del De luminis affectionibus di G. Rizzetti e stendendo nel 1729 il Saggio sopra la durata de' regni de' re di Roma,nel quale applicava alla storia "il sistema cronologico del Neutono".Né dall'insegnamento bolognese si allontanò quando, per dedicarsi allo studio del greco, andò per alcuni mesi a Padova alla scuola del Lazarini e passò poi a Firenze a quella di A. M. Ricci, ché anzi quegli studi valsero ad approfondire il gusto classicheggiante e ad arricchire la sua stessa rimeria arcadica di ricercatezze linguistiche che troveranno svolgimento ben più ardito, negli scrittori neoclassici.
A Bologna fu anche concepita e abbozzata l'opera che per prima assicurò rinomanza allo scrittore: il Neutonianismo per le dame.
Continuata durante un breve soggiorno romano, questa fu terminata a Parigi, dove l'A. si trasferì nell'autunno del 1733, e fu più volte ripresa, corretta, perfezionata, non solo nel titolo - Dialoghi sopra l'ottica neutoniana,meno brillante ma più preciso -, ma nel contenuto (fu poi aggiunto un nuovo dialogo) e nello stile. Serio, nonostante la apparenza di mondanità e galanteria, era il proposito dell'autore nei dialoghi che intreccia con la bella marchesa per convertirla dalle fantastiche opinioni cartesiane alle verità positive dell'ottica newtoniana; né si deve discorrere di una infatuazione per• le cose d'oltralpe, se nel Newton si riconosceva il vero continuatore della scienza fondata dal Galilei, il primo filosofo moderno. Sui veri limiti dell'operetta ben c'informa invece un giudizio di Voltaire. Questi aveva conosciuto e apprezzato l'A. nel suo soggiorno parigino, mentre egli stesso attendeva con Mine du Châtelet agli studi di fisica e scienze naturali e veniva preparando i suoi Eléments de la philosophie de Newton;poté anzi conoscere i Dialoghi via via che erano composti. Ma quando essi furono pubblicati, e il filosofo ebbe dato alle stampe i suoi Eléments,in una lettera al Thieriot del giugno del 1738 così precisava il suo parere: "Il poco che leggo del suo libro di corsa, mi conferma nella mia opinione. È press'a poco in italiano l'equivalente della Pluralità dei mondi in francese. L'aria di copia domina troppo; e il grosso guaio è che vi è molto spirito inutile. L'opera non è più profonda della Pluralità dei mondi...Credo che vi sia più verità in dieci pagine dei miei Elementi che in tutto il su0 libro". Ed era veramente così; perché gli Eléments volteriani venivano dopo le acute e corrosive Lettres philosophiques;i Dialoghi segnavano piuttosto lo spostamento dall'Arcadia dei poeti a quell'. Arcadia di filosofia, che stava tuttavia al di là del vero e proprio illuminismo e dalla quale l'A. non si allontanò nemmeno in altri scritti scientifici posteriori: il dialogo Caritea "in cui si spiega come da noi si veggano diritti gli oggetti, che nell'occhio si dipingono capovolti", e il Saggio sopra il Cartesio (1754), nel quale, riconosciuti i meriti della geometria cartesiana, di nuovo erano discussi i limiti del razionalismo e la sua importanza storica.
Tuttavia la fama dell'A. era assicurata: già nel 1735 a Parigi il Maupertuis l'aveva invitato ad accompagnarlo nella spedizione che intraprendeva per determinare sperimentalmente la depressione dei poli; ma preso dalla stesura del Neutonianismo egli rifiutò l'invito. Quando poi ebbe terminata la sua opera, compì un primo viaggio in Inghilterra, dove soggiornò sei mesi e approfondì lo studio dell'inglese già iniziato in Italia ed ebbe consigli ed aiuti da Lady Montagu e da Lord Hervey. Là conobbe anche il Pope e visitò la nipote ed erede del grande Newton, la Conwitt. Tornato quindi in Italia, stette a Bologna, a Venezia, e infine a Milano, dove curò la prima edizione del Neutonianismo (1737); poi passò in Francia e di nuovo in Inghilterra nel 1738: qui l'anno seguente s'imbarcò sulla galea "The Augusta" di Lord Baltimore, che il 21 maggio salpava da Gravesend alla volta del Baltico. La relazione di quel viaggio l'A. lasciò scritta nei Viaggi di Russia,composti in forma di lettere indirizzate a Lord Hervey.
Il giornale della navigazione nel Mare del Nord, con le notizie sull'Olanda, la Danimarca, le coste svedesi sino all'ingresso nel Baltico, è contenuto nelle prime due lettere datate rispettivamente da Helsingör e da Reval. La terza lettera, da Cronstadt, mentre informa ancora della navigazione nel Baltico, porta già all'argomento specifico dei Viaggi:l'esame della struttura militare, politica ed economica dell'impero russo, che dai tempi dello zar Pietro il Graiide era divenuto un tema interessante per la società colta europea. Già dall'attenzione che il Seicento rivolse alla politica contemporanea era venuto lo stimolo ad occuparsi della storia russa, e a una Storia della Moscovia s'era accinto Tommaso Tomasi, che rinunziò a portarla a termine quando apparve la storia romanzesca di M. Bisaccioni, Il Demetrio Moscovita.Ma l'A., fedele interprete degli spiriti del suo tempo, fece si buona parte alla trattazione della politica russa (l'intera lettera settima e parte dell'ottava sono una relazione sulla guerra russo-turca degli anni 1736-39), ma soprattutto indugiò sugli aspetti della geografia, del costume, dell'economia. Nè egli poteva ambire a dare un'opera sistematica sulla Russia contemporanea, anche perché, non essendosi spinto oltre Pietroburgo, solo in parte descrisse cose viste, e molto riferì di ciò che era venuto a sapere da letture e informazioni indirette. Il che non toglie, anzi aggiunge al tono da "inviato speciale" che hanno le pagine del libretto, sia dove si illustravano i grandi progressi compiuti dai Russi per l'opera riformatrice degli ultimi zar, e le grandi riserve di ricchezze naturali del paese le quali facevano anche più stridente il suo stato di arretratezza rispetto all'Occidente, sia dove si dava conto dì quello che di più pittoresco era nei Tatari e. in altre popolazioni selvagge, non senza secondare anche in questo l'interesse proprio della cultura settecentesca per i popoli d'Oriente e in genere per i primitivi. La mancanza di vera organicità consentì poi allo scrittore di aggiungere alle otto lettere scritte nel 1739 altre quattro stese fra il 1750 e il 1751 e indirizzate a S. Maffei per discorrere del tentativo dell'Elton di stabilire un monopolio inglese nel commercio del Caspio e, avendo accennato alla configurazione di quel mare, per rivedere le opinioni degli scienziati sulla sua progressiva tendenza all'aumento del livello.
Fu nel ritorno da Pietroburgo per la via di Danzica, Dresda, Berlino, che l'A. conobbe a Reinsberg il principe ereditario di Prussia, il futuro Federico II, il quale l'anno seguente, incoronato re, lo invitò alla sua corte e lo tenne presso di sé dal 1740 al 1742, impiegandolo anche in un importante incarico diplomatico presso il re di Sardegna quando occupò il territorio della Slesia (1741). Dal 1742 al 1746 stette presso l'elettore di Sassonia, Augusto III, col titolo di consigliere di guerra, e ricevette l'incarico di raccogliere in Italia opere d'arte per la Galleria di Dresda: per questa mansione, che gli valse la deplorazione di suoi contemporanei, soggiornò ancora in Italia e più a lungo a Venezia nel 1744, acquistando dai privati quei quadri, dei quali lasciò poi l'elenco nella lettera a Giovanni Manette del 13 febbr. 1751.
Importa però notare che nemmeno quello di collezionista di opere d'arte fu un episodio senza addentellati precisi con gli interessi culturali dell'A., il quale anzi entra a buon diritto nel novero dei critici d'arte settecenteschi per i suoi scritti sulle arti figurative e per le Lettere sopra la pittura e le Lettere sopra l'architettura che già nella prima edizione delle Opere costituirono un Volume nutrito -il sesto -,e, soprattutto, per i due trattati Sopra l'architettura (1756)e Sopra la pittura (1762).
Nel primo egli riprendeva le idee del suo maestro Lodoli, che contro il gusto barocco aveva difeso il principio di un funzionalismo puro nell'architettura, e temperandole e correggendole in parte dava la misura di quello che fu il gusto non solo suo ma del suo tempo. Più importante tuttavia resta il Saggio sopra la pittura,nel quale, mentre tendeva ad accomunare l'intento pedagogico d'un trattato istituzionale sui vari requisiti necessari all'educazione d'un buon pittore e quello critico delle discussioni sull'essenza della pittura, illustrava il suo gusto nelle arti figurative, gusto sostanzialmente classicheggiante, avverso al manierismo e disposto ad accettare con largo eclettismo tutta la migliore tradizione della pittura moderna da Raffaello a Rembrandt e a Poussin. L'A. restava così sulla linea fissata dai maggiori trattatisti del secolo precedente, il Baldinucci e, sopra tutti, il Bellori; ma l'originalità e il pregio maggiore del Saggio consistono nella più chiara impostazione del problema estetico, perché dal ripensamento dei trattatisti antichi e rinascimentali di poesia e dai loro paralleli tra poesia ed arti figurative lo scrittore fu portato a risalire ai principî aristotelici, alla distinzione tra il vero della storia e il venisimile dell'arte, e ad affermare per la pittura il principio dell'imitazione ideale che "è più filosofica, più instruttiva, e più bella della storia". I due trattati sono del resto posteriori ai più impegnati scritti di critica letteraria del nostro autore.
Proprio del 1744 è il più significativo tra i saggi dell'A. critico: le nove Lettere sulla traduzione dell'Eneide del Caro (il titolo originale è Lettere di Polianzio ad Ermogene intorno alla traduzione dell'Eneide del Caro),nelle quali non si dà solo un registro dei veri e propri errori del Caro traduttore, ma se ne caratterizza acutamente lo stile, più conforme al genio di Ovidio e di Lucano che non a quello di Virgilio, per le tendenze proprie del secondo Cinquecento.
Se è vero infatti che l'idea della poesia virgiliana che ebbe l'A. fu tale da fargli scorgere nel classicismo di Virgilio castità e purezza non disgiunte da vigore e robustezza, ma anche una specie di eleganza levigata tutta settecentesca (non per nulla nelle Lettere è lodata la versione delle Georgiche del Frugoni), e perciò la critica al Caro trova un suo limite nel gusto arcadico del nostro autore, l'A. ebbe tuttavia il merito di non limitarsi a pedanteschi riscontri: egli seppe anzi porsi il problema del vero pregio dell'arte del Caro e della possibilità di tradurre testi di poesia, per riconoscere nel letterato marchigiano il migliore traduttore di Virgilio e dichiarare la sua versione inferiore solo a quella del Dryden, di quel Dryden dal quale, come da un altro scrittore inglese, il conte di Roscommon autore dell'Essay on translated Verse,egli toglieva con intelligenza i concetti sui limiti e i doveri dei traduttori.
Nel 1746 l'A. tornò alla corte di Federico II, il quale lo nominò suo ciambellano, lo elesse cavaliere dell'Ordine del Merito con una cospicua pensione annua e gli conferì il titolo di conte col diritto di trasmetterlo ai suoi eredi. Salvo l'interruzione d'un lungo soggiorno in Italia nel 1749 e di un altro a Dresda, sette anni rimase alla corte del re di Prussia. Là dal commercio con scienziati e uomini di lettere e dalla rinnovata amicizia col Voltaire ebbe incentivi a scrivere nuovi saggi e a raccogliere idee e spunti per altri che doveva scrivere più tardi, seguendo un eclettismo in parte dilettantesco, ma anche informandosi a un'idea della necessità d'affiatare la cultura italiana con quella straniera che non fu il frutto di sprovveduta infatuazione per le cose di Francia e d'Inghilterra, ma pure consapevolezza del nuovo dialogo che doveva aprirsi tra le varie culture nazionali. É a questo proposito significativa l'Epistola in versi indirizzata appunto nel 1746 a Voltaire, nella quale vanno colti accenti non del tutto retorici sulla decadenza italiana e l'augurio di un prossimo rinnovamento.
Come intendesse la possibilità d'una rinascita culturale è detto meglio nella lettera allo stesso Voltaire del 10 dic. 1746, nella quale e l'ammirazione per Parigi e l'esperienza della vita di corte gli suggerivano, contro il frazionamento provinciale della cultura italiana, l'idea che "la vera accademia è una capitale, dove i comodi della vita, i piaceri, la fortuna vi chiamino da ogni provincia il fiore di una gran nazione, dove otto in novecento mila persone si elettrizzino insieme".Certamente se badiamo agli argomenti che l'A. trattò nei suoi scritti allora e poi, non risulta un coerente ordine di sviluppo, anzi una dispersione che sa di mondana superficialità, e non diciamo di un'operetta più giovanile e intenzionalmente leggera come Il congresso di Citera (1745), ma anche di saggi di contenuto storico ed erudito composti negli anni di Berlino e nell'ultimo decennio trascorso in Italia: Saggio sopra la giornata di Zama (1749), Saggio sopra l'Imperio degl'Incas (1753), Saggio sopra il Gentilesimo (1754), Saggio sopra quella qui stione perchi i grandi ingegni a certi tempi sorgano tutti ad un tratto e fioriscano insieme (1754), Saggio sopra Orazio (1760), Saggio sopra la quistione se le qualità varie de' popoli originate siano dallo influsso del clima, ovveramente dalle virtù della legislazione (1762), Saggio sopra il commercio (1763), Saggio sopra l'Accademia di Francia che è in Roma (1763), nei quali è dato soprattutto ritrovare l'eco di questioni di moda nelle discussioni dei circoli settecenteschi. Né gli storici dell'arte militare hanno accordato il loro interesse a quegli scritti di scienza militare che insieme con le Lettere sopra la scienza militare del Segretario fiorentino (1759) costituiscono una sezione a sé nelle opere dell'Algarotti. Si può si cogliere qua e là qualche tratto originale: ha, per esempio, una sua importanza l'interesse spregiudicato per il Machiavelli, e non s'è mancato di rilevare che tra i primi l'A. additò l'importanza dell'Africa come campo della politica coloniale europea; ma questa ed altre opinioni disseminate qua e là non trovano uno svolgimento, nè si innestano efficacemente nel processo di chiarificazione della cultura settecentesca. L'A. restò sostanzialmente un letterato: questo carattere che lo accosta, non ostante le vaste e varie esperienze culturali, più agli scrittori d'Arcadia che agli illuministi, fa sì che la sua maggiore originalità si riconosca tuttora negli scritti in cui con abito e metodo di critico letterario che sapeva assumere anche vedute di storico del costume, egli affronta questioni di letteratura traendo profitto, oltre che dal generico clima razionalistico e classicheggiante del tempo, dalla buona conoscenza degli scrittori e dei critici inglesi e francesi. Merita perciò particolare attenzione il Saggio sopra la lingua francese (1750) per la chiarezza con la quale vi è fissata la diversa storia delle lingue italiana e francese ed è spiegata la diversa funzione dell'Accademia francese e dell'Accademia della Crusca in fatto di lingua; ma più ancora il breve Saggio sopra la necessità di scrivere nella propria lingua che a quello strettamente si collega, ispirato dal principio di Locke che la lingua risponde al "genio",cioè alla formazione storica dei popoli, e dal concetto che i grandi scrittori possono arricchire una lingua nata povera, ma che solo l'uso corrente "è il vero padron delle lingue", e che di quest'uso si rende ragione solo chi per nativa consuetudine ha fatto veramente sua una lingua: pensieri sui quali non cessò poi di esercitarsi la riflessione dei nostri letterati sino al Saggio sulla filosofia delle lingue di Melchiorre Cesarotti.
Nell'ambito della letteratura, pur sfruttando la specifica competenza acquisita nelle arti figurative, resta anche il Saggio sopra l'opera in musica (1762), altrettanto notevole per la storia delle controversie settecentesche sul melodramma, quanto infelici furono i due tentativi teatrali che lo precedettero: una specie di abbozzo scenico Enea in Troia ricavato dal II libro dell'Eneide e, in francese, l'Iphigénie en Aulide ricalcata su Euripide e Racine.
In questo saggio sono importanti per la conoscenza del costume del tempo i capitoli dedicati alla scenografia e all'architettura teatrale; ma più acuti e più utili per la storia del gusto e della critica riescono i capitoli nei quali l'autore discute della natura del melodramma, la cui unità deve essere fissata dal libretto; della scelta dei soggetti adatti, che devono fondarsi su un'azione "seguita in tempi o almeno in paesi da' nostri molto remoti ed alieni, che dia luogo a più maniere di maraviglioso"; della musica, che deve subordinarsi alla poesia e non blandire le orecchie ma commuovere gli animi; delle arti del canto e della recitazione, che devono aspirare ad una naturalezza educata e non obbedire ai capricci dei virtuosi; infine delle scene di danza, che non dovrebbero essere gratuiti divertimenti ma inserirsi a proposito nell'azione: che. son tutte idee che ben si collegano ai propositi di A. Zeno e dì P. Metastasio di ridare dignità all'opera in musica.
Quando nel 1753 lasciò la corte di Prussia, l'A. contava di curare nel clima d'Italia la malferma salute e di dedicarsi con maggior calma agli studi prediletti, e le date anche degli scritti qui citati dimostrano che di fatto la sua attività di scrittore continuò alacre. Visse i primi anni dopo il ritorno parte a Venezia parte in villa, poi fra il 1757 e il 1762 fu per lo più a Bologna dove volle istituire un'Accademia da lui denominata degli Indomiti, intesa a incoraggiare gli studiosi giovani. L'episodio più memorabile di questo periodo fu il seguito che ebbe la pubblicazione dei Versi sciolti di tre eccellenti moderni autori (Frugoni, Algarotti, Bettinelli) che recavano come introduzione le Lettere virgiliane del Bettinelli (1757). Infatti l'A., che pure era l'autore di un Saggio sopra la rima (1752), nel quale aveva difeso i diritti del verso sciolto, si rammaricò dell'audacia del Bettinelli e sconfessò pubblicamente la sua iniziativa nella lettera dedicatoria delle sue Epistole in versi a Mme Du Boccage (28 dic. 1758).Il che non gli valse la benevolenza dell'amico gesuita; tutt'altro: ché questi non gli risparmiò i suoi strali neppure dopo la sua morte, nella VI e nella VII delle Lettere inglesi (1766). Più importante comunque di questo episodio, per l'attività dello scrittore, fu la cura data alla prima edizione delle sue Opere,cui attese fino agli ultimi giorni di vita, a Pisa, dove s'era trasferito per godere dell'aria mite di quella città, e la non mai intermessa consuetudine d'intrattenere corrispondenza con letterati, uomini politici, scienziati: nell'epistolario, infatti, ricco e vario, ottima fonte di notizie anche per la vita dell'autore, si trovano non poche delle pagine significative dell'A., il quale, sia per il suo abito mondano sia per il breve respiro dei suoi pensieri, trovò nella lettera un genere letterario a lui singolarmente congeniale. Morì il 3 maggio 1764 e fu sepolto nel Camposanto di Pisa; sulla sua tomba fu posta questa epigrafe: "Algarotto Ovidii aemulo, Neutonii discipulo, Fridericus rex".
Edizioni delle Opere: dopo quella di Livorno, Coltellini, in 8 voll. (1764-65) e quella di Crèmona, Manini, in io voll. (1775-78), la più completa è quella curata dall'Aglietti in 17 voll. (Venezia, Palese, 1791-94). Utili i tre voll. di Opere scelte,curati da G. Gherardini, Milano 1823; il vol. di Lettere filologiche a cura di B. Gamba, Venezia 1826; Operette critiche scelte,Milano 1831; Viaggi di Russia,a cura di P. P. Trompeo, 2 ediz. Torino 1942. V. anche Correspondance de Frédéric II,Berlin 1851, voll. II e III.
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