VITELLI, Francesco Anselmo Decio.
– Nacque il 30 agosto 1582 a Bomarzo dall’unione di due rami della famiglia gentilizia originaria di Città di Castello. Il padre, Vincenzo, dei conti di Montefiore, era generale di fanteria dell’esercito pontificio, ma morì il 4 settembre 1583, quando Francesco aveva appena un anno; la madre, Faustina Vitelli, era figlia naturale del condottiero Gianluigi Chiappino, dei marchesi di Cetona, e morì prima del 1602. Decimo e probabilmente ultimo figlio, da cui Decio, in età adulta omise puntualmente gli altri nomi di battesimo, firmandosi solo con il nome Francesco.
A Bomarzo presumibilmente risiedette nel primo piano di palazzo Orsini, dove viveva la sorella maggiore Porzia, che aveva sposato Marzio Orsini. Sin da giovanissimo si mostrò d’intelletto vivace, incline allo studio e mosso da curiosità eterogenee, probabilmente stimolate dall’immaginario culturale tra classico ed ermetico rinascimentale che, attraverso numerose ed enigmatiche raffigurazioni e iscrizioni, permeava il palazzo e il famoso Sacro Bosco sul quale si affaccia.
Le prime notizie sulla sua carriera ecclesiastica risalgono al 1612, quando ottenne da Paolo V il titolo di referendario d’ambo le Segnature. Tra il 1621 e il 1622 Gregorio XV lo investì di incarichi che lo portarono nella Marca Anconetana, prima come governatore di San Severino e commissario dell’Annona, poi come vicelegato al seguito del cardinale Carlo Emmanuele Pio di Savoia fino al 1624. Ma il suo cursus honorum toccò il proprio apice sotto Urbano VIII. Nello stesso 1624 venne infatti incaricato, in qualità di governatore di Ascoli, di riformare il sistema governativo e di gestire le entrate municipali. Negli anni successivi fu richiamato a Roma e nominato membro votante della Segnatura di Grazia della Sacra Consulta, nonché membro della neonata congregazione dei Confini dello Stato ecclesiastico. A cavallo tra la fine degli anni Venti e l’inizio degli anni Trenta gli vennero assegnati alcuni primiceriati; contestualmente venne inviato a risolvere alcune dispute confinarie interne al papato: a Montefortino (oggi Artena) e Bagnorea (oggi Bagnoregio). Nel 1630, in veste di commissario apostolico, si occupò di preservare i confini settentrionali dello Stato ecclesiastico dal contagio di peste che aveva colpito la penisola. La nomina ad amministratore del vescovato di Ripatransone e quella – in partibus infedelium – di arcivescovo di Tessalonica, del 16 agosto 1632, servirono a legittimare quella di nunzio apostolico a Venezia, di due settimane precedente (31 luglio). Per regolarizzare il mancato rispetto dei tempi minimi che dovevano intercorrere tra la nomina vescovile e quella diplomatica fu quindi necessario un extra tempora. Un anno più tardi e fino al 1634 amministrò contemporaneamente la diocesi di Rieti.
Prima di stabilirsi a Venezia trascorse qualche tempo nel Ferrarese, dove lavorò alla risoluzione di una disputa confinaria con la Serenissima nell’attesa che si smorzasse definitivamente il focolaio di peste che, tra i tanti, aveva ucciso anche il suo predecessore, il nunzio Giovanni Battista Agucchi. Vitelli si insediò il 12 settembre 1632, in un clima politico che a prima vista gli parve proficuo, dal momento che il dilagare del morbo aveva causato, tra appestati e fuggiti, il ricambio dell’intero corpo diplomatico residente a Venezia, il quale era peraltro chiamato a confrontarsi con Francesco Erizzo, doge in carica da poco più di un anno.
A dispetto delle prime impressioni, la nunziatura si sarebbe ben presto dimostrata complicata e infausta per il papato come pure per il suo rappresentante. La prima asperità per il nunzio riguardò l’indisciplina del clero secolare. Infatti, appena inseditatosi, Vitelli dovette farsi carico del delicato caso del vescovo di Belluno Giovanni Dolfin, uomo incline al crimine, prepotente e malvoluto sia dai bellunesi sia dalle autorità della Serenissima. L’ecclesiastico e patrizio veneziano era già da tempo al centro di un braccio di ferro giurisdizionale tra la Serenissima da una parte, la quale intendeva processarlo come criminale comune, e la Santa Sede dall’altra, impegnata a difendere il diritto di giudicare un alto prelato nel foro ecclesiastico. La vicenda, che aveva avuto inizio nel 1624, durante la nunziatura di Agucchi, si risolse a sfavore della Santa Sede agli inizi di ottobre del 1632, quando le autorità veneziane condannarono il vescovo al bando e alla confisca dei beni per crimine di lesa maestà, estromettendo del tutto il nunzio e la giurisdizione ecclesiastica.
A un anno dal suo arrivo a Venezia, nell’agosto del 1633, Vitelli si spese per «far pervenire a notitia di tutti gli ordinarii di questo Serenissimo Dominio l’abiuratione del Galileo intorno all’opinione [...] che la terra fosse quella che si movesse, e non il sole [...] e la pena che gli ne fa patire; perch’essi la possano notificare nella maniera più convenire ai professori di Filosofia, e di Matematica nelle loro Diocesi onde comprendendosi la gravità dell’errore del Galileo medesimo se ne tengano lontani» (I documenti vaticani, 2009, pp. 110 s.). Per il nunzio fu molto complicata anche la gestione del clero regolare, il cui controllo era reso arduo e controverso, oltre che dall’indisciplina dei frati, anche dall’ormai solida tradizione del giurisdizionalismo sarpiano. Nello stesso 1633, trascorsi dieci anni dalla morte di fra Paolo Sarpi, era cresciuto ulteriormente il mito della sua figura, glorificata sia da emuli come Fulgenzio Micanzio, sia dalle stesse istituzioni veneziane. Queste ultime erano intenzionate a realizzare un busto in onore del servita da erigere nella sala del Consiglio dei dieci a Palazzo Ducale, progetto poi abbandonato con enorme sollievo di Vitelli. Allo stesso tempo erano frequenti gli episodi d’insubordinazione dei regolari verso i loro priori, nonché di condanne per crimini – secolari e di fede – gravi o gravissimi.
Tra questi, il caso del celebre Ferrante Pallavicino, giovane e indocile frate dalla condotta libertina e dalla verve letteraria satirica nei confronti del papa e del nunzio stesso. Agli inizi degli anni Quaranta, sul finire del suo mandato, Vitelli ingaggiò con Pallavicino un duro scontro. Per catturarlo, fu tuttavia costretto ad architettare un astuto espediente che gli consentì di aggirare la protezione offerta a Pallavicino da buona parte del patriziato veneto e dai membri dell’Accademia degli Incogniti, in primis dal suo fondatore Giovan Francesco Loredano. Nel maggio del 1642 Vitelli assoldò la spia francese Charles de Bresche, che fintosi emissario del cardinale Richelieu condusse con un raggiro Pallavicino ad Avignone anziché a Parigi. Nel contado fu immediatamente fatto arrestare, in seguito processato e, sulla base delle testimonianze cartacee spedite da Vitelli, giustiziato il 5 marzo 1644. L’episodio avrebbe contribuito peraltro a inibire l’irriverenza del frate e letterato Girolamo Brusoni, anch’egli accademico degli Incogniti, nonché biografo, amico ed emulo di Pallavicino, e in quanto tale osservato speciale di Vitelli. Tuttavia, ciò non ridimensionò nell’insieme i continui problemi causati dal clero veneto al nunzio, il quale, in virtù del suo ruolo, presiedette qualche centinaia di procedimenti giudiziari tra quelli inquisitoriali veneziani e quelli del tribunale della Nunziatura apostolica.
Altrettanto burrascosi furono i rapporti con alcuni ambasciatori residenti a Venezia negli anni in cui la Francia si apprestava a prendere parte alla guerra dei Trent’anni. In particolare Vitelli si dovette misurare con le studiate stravaganze dell’ambasciatore spagnolo Juan Antonio de Vera y Figueroa y Zúñiga, meglio noto come conte della Rocca, il quale, al fine di turbare le relazioni internazionali, fabbricava false lettere dei Barberini indirizzandole a Richelieu; favoriva inoltre la pubblicazione di opere clandestine in una stamperia allestita in casa propria, e si recava infine da Vitelli criticando la politica filofrancese del papa, che a suo giudizio sarebbe stato presto dichiarato pontefice illegittimo da un concilio appositamente incaricato.
Anche i rapporti con le autorità veneziane furono continuamente tesi, soprattutto nel 1636, quando le autorità marciane vennero a sapere che a Roma era stata imbiancata l’iscrizione sottostante La riconciliazione fra papa Alessandro III e l’imperatore Federico Barbarossa (1564), dipinto della Sala regia del Palazzo Apostolico che enfatizzava il ruolo di Venezia nella pace del 1177. Ma l’aspetto che più compromise la riuscita del mandato di Vitelli fu la mala gestione della crisi diplomatica tra i Barberini e i Farnese, poi sfociata nella cosiddetta prima guerra di Castro. Limitandosi a riportare le garanzie offerte verbalmente dal doge, a partire dal 1641 Vitelli rassicurò ininterrottamente, fino al giugno del 1643, la Segreteria di Stato pontificia circa l’intenzione della Serenissima di rimanere estranea al conflitto già in corso, salvo poi scoprire con grave ritardo che la Repubblica aveva sottoscritto accordi a sostegno della lega antibarberiniana sin dal 31 agosto 1642.
L’incarico veneziano di Vitelli si concluse il 27 giugno 1643, quando, svelato l’inganno, alcuni messi del doge lo costrinsero armi in pugno ad abbandonare palazzo Gritti a S. Francesco della Vigna, sede della nunziatura di Venezia. Il rimpatrio via mare verso la Romagna fu problematico anche dal punto di vista pratico. I suoi eclettici interessi lo avevano spinto a raccogliere negli anni una notevole collezione di libri fatti arrivare da tutta Europa, così come medaglie, monete, carte geografiche, sculture e dipinti (La Mancusa, 2013, p. 31) – compresi quadri di Tintoretto, Paolo Veronese, Pordenone e Paul Bril (Fornasari, 2003, p. 57) –, e a tenere con sé persino alcuni animali: un cane e un orso in gabbia (Serpetro, 1653, 2011, p. 311). Delle decine di casse riempite dei suoi averi, trenta erano di libri. Oltre a volumi leciti, contenevano anche vari pezzi compromettenti, che decise d’inviare al vaglio degli inquisitori, «perché io non voglio intrichi» (Archivio di Stato di Venezia, Collegio, Esposizioni Roma, Registri, 34, c. 250r), soprattutto dopo che era stato scoperto in possesso di una copia manoscritta della Clavicula Salomonis, donatagli da un frate. Estimatore peraltro di Pietro Aretino (Barbierato, 2006, p. 285), Vitelli ricevette decine di dediche e fu privatamente in rapporti epistolari con ecclesiastici appassionati di varia erudizione, come Angelico Aprosio, Giovanni Ciampoli e il futuro papa Fabio Chigi. Del resto, come scrisse uno dei suoi servitori a Venezia, «la sua casa era sempre piena di pittori e scultori e d’ogni sorta di letterati, de’ quali fu gran mecenate» (Leonardi, 2011, p. 259). Fu egli stesso autore di una serie di opere rimaste inedite, tra le quali un «Calendario antico sui fasti dei romani e delle altre nazioni», e «due grandi volumi dei trattati di tutte le leghe, confederazioni, paci, guerre» (La Mancusa, 2013, pp. 30 s.; Muzi, 1843, p. 217). Tradusse infine dal francese il Tesoro della vecchiezza di André du Laurens e lo fece pubblicare a Venezia nel 1637.
Quando la famiglia Barberini fu messa in ombra dall’ascesa al soglio pontificio di Innocenzo X, la carriera di Vitelli subì una parziale eclissi. Tra la fine della lunga esperienza veneziana e la scomparsa di Urbano VIII, ebbe tuttavia il tempo di accumulare qualche altra nomina: dopo essere stato per breve tempo governatore di Roma (dal settembre del 1643 al gennaio successivo) e commissario generale dell’esercito pontificio a Perugia, agli inizi del 1644 si spostò nell’arcidiocesi di Urbino, assegnatagli ufficialmente il 16 novembre 1643, nonostante ne godesse le rendite già da quattro anni. L’ultimo incarico della sua vita fu quello, brevissimo, di prefetto del Palazzo Apostolico (Gauchat, 1960, p. 353), ottenuto il 28 luglio 1644, un giorno prima della morte di Urbano VIII, ma ceduto ad Alderano Cybo già lo stesso anno. Non gli riuscì tuttavia di diventare cardinale, come anelava. Niccolò Serpetro, dipendente di Vitelli a Venezia, sostenne che quando ancora nunzio il suo padrone fosse stato nominato cardinale in pectore da Urbano VIII, dietro insistenza di Francesco Barberini (La Mancusa, 2013, p. 27), tesi poi accolta anche da Ludwig von Pastor (1931, p. 897). La nomina alla porpora non venne però mai annunciata pubblicamente, cosicché perse definitivamente l’occasione di essere ufficializzata il giorno della morte del papa.
Morì a Urbino il 25 febbraio 1646. La salma venne prima sepolta nella cattedrale della città, ma in seguito a un contrasto tra l’arcidiocesi e la famiglia fu traslata a Roma, nella cappella agnatizia della chiesa di S. Marcello al Corso, della quale la nonna paterna Angela de’ Rossi era stata benefattrice (Ligi, 1953, p. 183; Gigli, 1996, pp. 58-61).
I suoi beni passarono in eredità ai nipoti: Angela, Faustina, Vincenzo, Gianfrancesco e Alessandro. A quest’ultimo – chierico e suo fidato segretario delle cifre a Venezia tornato a Città di Castello – andò buona parte delle sue collezioni. Tra queste anche la sua ricca biblioteca, che l’erede in seguito ampliò e mise a disposizione dei tifernati per alcuni anni, fino a quando passò al pronipote di Decio Francesco, Giovanni Vitelli, che ne donò la parte più consistente alla regina Cristina di Svezia, della quale fu primo gentiluomo di camera. Più tardi la sovrana ne avrebbe donato a sua volta una parte alla Biblioteca Angelica di Roma. I circa duecento volumi rimasti a Città di Castello, insieme a vari altri oggetti appartenuti a Vitelli, finirono in collezioni private.
Fonti e Bibl.: Viterbo, Centro diocesano di documentazione, Archivio dell’antica Diocesi di Bagnoregio, Sezione paesi, Fondo parrocchiale di S. Maria Assunta a Bomarzo, Serie Battesimi, II, 1582-1629, c. 3v; Los Angeles, University of California, Orsini family papers, UCLA Library special collections, box 67, folder 6, Città di Castello 01; box 67, folder 7, Città di Castello 02; Urbino, Archivio diocesano, Visite pastorali, visite Vitelli 1629-1646.
G.F. Loredano, L’anima di Ferrante Pallavicino, Lione [ma Venezia] 1645, p. XXIV; N. Serpetro, Il mercato naturale delle meraviglie della natura, overo Istoria Naturale, Venezia 1653 (ed. anast., Cosenza 2011, p. 311); G. Brusoni, Vita di Ferrante Pallavicino, Venezia 1654, pp. 11 s.; Id., Dell’historia d’Italia dall’anno 1625 fino al 1660, Libri ventotto, Venezia 1661, pp. 348 s.; B. Nani, Historia della Republica veneta di Battista Nani Cavaliere e Procuratore di San Marco, II, Venezia 1663, p. 661; F. Ughelli, Italia sacra, III, Venezia 1718, col. 764 s.; G. Colucci, Delle antichità picene, XXII, Delle antichita del Medio e dell’Infimo Evo, Fermo 1794, p. 277; A. Lazzari, Memorie istoriche dei conti e duchi di Urbino, delle donazioni, investiture e della devoluzione alla Santa Sede, Opera del Signor D. Andrea arciprete Lazzari e di altri autori che sono citati ai loro luoghi, Fermo 1795, pp. 402 s.; P. Litta, Famiglie celebri, f. XXIV, disp. 35.3, Milano 1832, tav. 3; G. Muzi, Memorie ecclesiastiche di Città di Castello, V, Città di Castello 1843, pp. 214-217; L. Tettoni - F. Saladini, Teatro araldico..., III, Lodi 1843, p. n.n.; A. Atti, L’Album, giornale letterario di belle arti, XXI (1854), 21 settembre, p. 247; L. von Pastor, Storia dei papi, XIII, Roma 1931, p. 897; A. Zanelli, Le relazioni tra Venezia e Urbano VIII durante la nunziatura di mons. Gio. Agucchia (1624-1631), in Archivio veneto, s. 5, XIV (1933), pp. 153-206, XVI (1934), pp. 148-269; Id., La vita giornaliera della famiglia di un nunzio pontificio a Venezia (mons. F. V.), ibid., XIX (1936), pp. 199-209; V. Kybal - G. Incisa della Rocchetta, La nunziatura di Fabio Chigi (1640-1651), Roma 1943, I, pp. 24 s., II, pp. 595-597; B. Ligi, I vescovi e arcivescovi di Urbino, notizie storiche, Urbino 1953, p. 183; P. Gauchat, Hierarchia catholica, IV, Patavii 1960, pp. 335, 353; N. Del Re, Monsignor governatore di Roma, Roma 1972, p. 103; S. Adorni - N.A. Mancini, Stampa e censura ecclesiastica a Venezia: il caso del “Corriero Svaligiato”, in Esperienze letterarie, X (1985), 4, pp. 3-36; A. Menniti Ippolito, Politica e carriere ecclesiastiche nel secolo XVII. I vescovi veneti fra Roma e Venezia, Bologna 1993, pp. 136 s.; Legati e governatori dello Stato pontificio, 1550-1809, a cura di C. Weber, Roma 1994, p. 980; Nuntiaturberichte aus Deutschland, VII, 4, a cura di J. Wijnhoven, Paderborn 1995, pp. 46, 66, 81, 85 s., 142, 221, 246, 248, 257, 265, 284; L. Gigli, San Marcello al Corso, Roma 1996, pp. 58-61; Die Hauptinstruktionen Gregors XV. für die Nuntien und Gesandten an den europäischen Furstenhofen 1621-1623, a cura di K. Jaitner, Tubingen 1997, p. 365; L’Archivio della nunziatura di Venezia, sezione II (an. 1550-1797). Inventario, a cura di G. Roselli, Città del Vaticano 1998, pp. XVII, XXIV, 20 s., 45, 47, 62, 79, 372-376, 410; M. Calvesi, Gli incantesimi di Bomarzo: il sacro bosco tra arte e letteratura, Milano 2000, ad ind.; A. Menniti Ippolito, Note su Giovanni Dolfin, vescovo di Belluno (1625-1634), in Archivio storico di Belluno, Feltre e Cadore, LXXII (2001), pp. 102-111; F. Barbierato, Nella stanza dei circoli. Clavicula Salomonis e libri di magia a Venezia. Secoli XVII-XVIII, Milano 2002, pp. 177, 204 nota, 208 s., 242, 278, 321 nota; L. Fornasari, Il collezionismo ad Arezzo nel Seicento e nel Settecento. Le collezioni Albergotti e Fossombroni, in Annali aretini, XI (2003), pp. 53-86 (in partic. p. 57); C. Weber, Die päpstlichen Referendare, 1566-1809, III, Stuttgart 2003, p. 984; F. Barbierato, Politici e ateisti. Percorsi della miscredenza a Venezia fra Sei e Settecento, Milano 2006, p. 285; Bomarzo: il Sacro Bosco, a cura di S. Frommel, Milano 2009; I documenti vaticani del processo di Galileo Galilei (1611-1741), a cura di S. Pagano, Città del Vaticano 2009, pp. 110 s.; Nuntiaturberichte aus Deutschland, IX, 1, a cura di M.T. Börner, Paderborn-München-Wien-Zürich 2009, pp. 16, 25, 47, 112, 223, 439, 757; M. Leonardi, Nicolò Serpetro a Venezia, nota su un manoscritto dell’archivio diocesano di Città di Castello, in Bruniana & Campanelliana, XVII (2011), 1, pp. 257-262; C. La Mancusa, Eroi di casa Vitelli. Trascrizione di un manoscritto di Nicolò Serpetro, Cosenza 2013; Nuntiaturberichte aus Deutschland, IV, Siebzehntes Jahrhundert, V, a cura di R. Becker, Berlin-Boston 2013, p. 150 nota 2; M. Albertoni, La missione di D.F. V. nella storia della nunziatura di Venezia, Città del Vaticano 2017; Id., Vendetta e carriera: il nunzio D.F. V. e Ferrante Pallavicino. Ipotesi e documenti provenienti dall’Archivio segreto Vaticano, in Studi secenteschi, LIX (2018), pp. 195-223.