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BELO, Francesco

di Nino Borsellino - Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 8 (1966)
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BELO, Francesco

Nino Borsellino

Poche e incerte le notizie relative alla vita dei Belo. Che fosse romano risulta dalla stampa delle sue opere, in particolare quella del Laberinto d'amore, pubblicato nel 1524 e non più ritrovato, ma noto al Mazzuchelli, che, tramandandone il frontespizio, dice l'autore "romano" e "dottissimo giovane", sicché il Vecchietti poté arguire che fosse nato "circa il principio del secolo XVI", aggiungendo che era figlio di un Ugolino, originario di Roccacontrada e, forse fondandosi solo sul luogo di pubblicazione del poema, che nel 1524 era studente nell'università di Perugia. Il Salza ha poi sottolineato la rilevanza biografica della dedica del Laberinto a "Elena Orsina, patrizia romana", collegandola con un passo della commedia Il Pedante (atto III, scena IV) sfuggito ai precedenti biografi. Qui alle lamentele del servo Rufino contro i signori il giovane Curzio risponde che "venne sonno pur assai de quegli che della loro servitù godeno. E, fra gli altri, el Belo, a cui la mercé del signore Francesco Orsino de Aragona abate de Farfa gli ha donato possessione e campi: di sorte ch'egli, per quello ch'io ne intendo, l'ha fatto ritornare ai studi da' quali, per essere poco pregiati appresso dei più, allontanato se n'era". Ma, argomenta sempre il Salza, la specificazione relativa al titolo di abate di Farfa (se non l'intero omaggio, come anche si potrebbe supporre) dovette essere aggiunta nella seconda edizione della commedia (1538; la prima, del 1529, è perduta), stante che Francesco Orsini dei duchi di Bracciano acquistò il titolo nel 1530 succedendo al fratello Napoleone, destituito dalla carica per cattiva condotta da Clemente VII. Di più non è possibile spigolare circa la vita del Belo.

Quanto alla sua attività di scrittore, oltre al titolo della ricordata opera giovanile (Laberinto d'amore del dottissimo giovane Francesco Belo Romano; in fine: Impressum Perusiae apud Leonem, opera et industria Cosmi Veronensis cognomento Blanchini, 1524, in 8°; ma anche Venezia 1524), che il Mazzuchelli tramanda precisando che è in ottava rima, senza alcuna distinzione di capitoli o di libri, e che è assai scorrettamente stampata, restano altre due opere a stampa: le commedie in prosa Il Pedante (El Pedante, Roma, Valerio Dorico e Luigi fratelli bresciani, 1529, in 12°, e 1538, in 8°) e Il Beco (El Beco, ibid., Antonio Blado da Asolo, 1538, in 4°).

Il Pedante soprattutto definisce con sufficiente compiutezza la fisionomia del B. come autore drammatico. Divisa in cinque atti e preceduta da un prologo che è un monologo vivace, ma fin troppo carico di allusioni oscenamente plebee, la commedia svolge un tema che non ha, come la maggior parte delle commedie cinquecentesche, precedenti in modelli latini. L'anziano pedante Prudenzio ama la fanciulla Livia, sorella di un suo scolaro che gli fa da tramite per evitare le punizioni corporali di cui è largo il maestro. Livia è anche desiderata dal giovane Curzio, il quale è venuto a Roma abbandonando la moglie Fulvia, sposata controvoglia per ubbidire al suo signore. Questa però lo raggiunge e con un accorgimento boccaccesco, sostituendosi a Livia in un convegno notturno, ottiene l'amore del marito e si riappacifica, mentre il pedante può così sposare Livia. Se si eccettua lo stratagemma di Fulvia, la trama non ha un reale svolgimento; l'autore anzi si mostra tanto poco interessato all'intreccio da capovolgere le convenzioni teatrali tipiche delle trame amorose (e il loro implicito moralismo), che impedirebbero di far sposare un dileggiato e vecchio pedante con una fanciulla. L'animazione scenica della commedia, tuttavia vivissima, appare piuttosto generata da un intento di divertimento letterario che prende corpo nella figura del pedante qui satiricamente definito con tutte le sue manie (sentenziosità moraleggiante da repertorio in contrasto con i suoi turpi vizi più o meno nascosti, erudizione vana e d'accatto boriosamente esibita) e con una ricchezza di particolari inerenti alla sua professione (qualifica di maestro stipendiato dalla Curia; usanze di scuola; figura del Ripetitore, altro pedante in subordine), che non ha riscontro nella produzione comica cinquecentesca, dove il tipo, che il B. ha il merito di aver elaborato per la prima volta con tutti i suoi caratteri, appare poi di frequente.

In particolare il linguaggio pedantesco, affine per il suo prezioso ibridismo a quello del Polifilo, non offre qui occasionali campioni, ma s'impone come lingua strutturalmente autonoma contraddistinta da un uso strabocchevole di parole rare, formazioni nominali e suffissi latineggianti, che tendono a nobilitare il volgare con l'esito ridicolo proprio di tutte le lingue artificiose adottate come parlata normale, ma in commedia soprattutto emergente per la contrapposizione del linguaggio plebeo dei servi che nel Pedante il personaggio di Malfatto porta al limite della sconnessione sintattica e verbale.

È impossibile determinare per mancanza di testimonianze contemporanee se la commedia abbia avuto fortuna scenica e letteraria. Se si è indotti a escludere una sua rappresentazione, si sarebbe d'altra parte portati a supporre che essa non fosse ignota all'Aretino (specie per le analogie col Marescalco) né ad altri commediografi, come i senesi Intronati, Oddi, Bruno, Della Porta, nei quali il tipo del pedante ha così grande rilievo. Il B. comunque, a differenza di altri commediografi e soprattutto del Bruno, s'arresta alla definizione grottesca del tipo, senza tradurre la caricatura in invettiva antipedantesca.

Questo distacco verso la propria materia e i propri personaggi s'avverte anche nell'altra commedia, Il Beco, che mette in scena gli amori del vecchio Beco per la giovane fantesca Sandra e dei giovane Lepido per la Gigia, figlia del Beco.

L'azione, ambientata a Siena, come precisa il prologo recitato da un "forestiero" è condotta dai molti servi, che affollano la scena, fino alla beffa giocata al vecchio amoroso con la consueta sostituzione di persona, per cui la moglie Minoccia scopre le colpe del marito, che si ravvede consentendo anche alle nozze di Lepido con la Gigia, che frattanto ha partorito un bambino. Fredda nei caratteri e lenta nello svolgimento, nonostante la concitazione dei servi e la loro petulanza che ha velleità sentenziose, la commedia non valorizza come nel Pedante i tratti caricaturali inerenti al protagonista: il vecchio Beco è solo una pallida reincarnazione di uno sfruttatissimo tipo plautino, ma non ha né l'odiosa protervia del modello né il rilievo comico-patetico di consimili personaggi cinquecenteschi, per esempio il Nicomaco della Clizia dei Machiavelli.

Bibl.: Delle due commedie del B. solo Il Pedante ha avuto stampe recenti dopo la riesumazione fattane da I. Sanesi, che lo inserì nella sua raccolta di Commedie del Cinquecento, Bari 1912. Sul B., oltre a G. M. Mazzuchelli, Gli Scrittori d'Italia, II, 2, Brescia 1760, p. 714, e F. Vecchietti, Biblioteca picena, Osimo 1791, II, p. 155, cfr. A. Graf, I pedanti, in Attraverso il Cinquecento, Torino 1888, p. 204; S. Ferrari, C. Scroffa e la poesia pedantesca, in Giorn. stor. d. letter. ital., XIX (1892), pp. 325 ss.; A. Salza, Una commedia pedantesca del Cinquecento, in Miscell. di studi critici in onore di A. Graf, Bergamo 1903, pp. 431 ss.; A. Di Prima, Il centone di Prudenzio nel "Pedante" di F. B., in La nuova cultura, I (1913), pp. 266 ss.; I. Sanesi, La commedia, Milano 1954, I, pp. 400 e 805; N. Borsellino, introd. a Commedie del Cinquecento, Milano 1962, I, p. XXXII.

Vedi anche
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bèlo
belo bèlo s. m. [der. di belare], letter. – Belato: il doloroso belo della madre, che perde il caro agnello (Lorenzo il Magnifico).
bèlo-
belo- bèlo- [dal gr. βέλος «dardo, giavellotto»]. – Primo elemento di alcuni nomi composti della terminologia scientifica ital. e lat. (come belodonte, ecc.), nei quali indica forma di giavellotto e simili.
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