BERNI, Francesco
Nacque da Nicolò, notaio, e da Isabella di Francesco Baldi in data non precisabile, ma compresa tra il 1497 e il '98. Per quel che riguarda il luogo, Lamporecchio, di cui il B. si diceva nativo in una ottava autobiografica del Rifacimento dell'Orlando Innamorato (III, VII, 37: "Costui ch'io dico a Lamporecchio nacque, / ch'è famoso castel per quel Masetto"), appare, pur con l'attenuante del frizzo boccaccesco, più probabile che Bibbiena: "Bibiena in lucem hunc extulit" si legge in un epitaffio di impronta berniana, ma è ironica allusione alla famiglia Dovizi, che ne determinò il destino come cortigiano.
Nella Firenze repubblicana e poi provincia medicea soggetta a Leone X il B. visse fino al 1517, quando si trasferì a Roma per avere ottenuto, dopo molti rifiuti, di entrare al servizio del cardinale Bibbiena, al quale era legato da una tenue parentela avendo Antonfrancesco, padre di Nicolò, sposato in prime nozze una Rosa Dovizi.
Neanche un maestro di umanità si distingue nello squallore di questi anni trascorsi a Firenze, che furono anni ineffabili anche per il B. scrittore: anni realmente vuoti, come per chi attende un evento straordinario, un'occasione legittimamente accettabile, onde chiarire a se stesso il senso della propria esistenza. Si può immaginarlo mentre, confuso tra i clienti dei Medici, tenta l'autorità del Bibbiena, lui "nimico capitale delle nuove e delle novelle", offrendo un'ambigua solerzia in cambio della stima, presumibilmente minima, del potente familiare; o intento a ripercorrere, con l'impegno e l'indipendenza dell'autodidatta, la lezione degli auctores (classici e cristiani, volgari e umanistici), scegliendo alfine la tradizione comica per offrirsi, poeta giocoso, al signorile ambiente dei Cavalcanti, che l'inattività pubblica rende inclini all'umore sarcastico; o mentre assiste, con animo svogliato e certo indifferente verso ogni ottimismo politico, alle mascherate allegoriche, con cui ingegni tanto più duttili - da lacopo Nardi al Pontormo - tentano di resuscitare il mito mediceo: e un germogliante alloro fregia l'impresa del futuro duca di Urbino, l'aetasaurea sorge dal ferreo carcame della repubblica piagnona. Occhi che guardano al miracolo e labbra atteggiate a un torpido sorriso: forse monsignor Bottari non si ingannò ravvisando il B. nel s. Iacopo pellegrino che il Rosso dipinse nell'Assunzione della S. Annunziata.
L'Assunzione del Rosso è del 1517. Anteriore forse di un solo anno è il primo lavoro del B., sicuramente noto in ambiente fiorentino, anche se non dato alle stampe: La Catrina.
Può considerarsi come un tentativo totalmente fallito questa farsa rusticale che difetta in ciò che è essenziale a simili componimenti: l'effetto comico. La rappresentazione del mondo contadino nel Quattrocento è motivo di svago intellettuale piacevolissimo, e il diletto è condizionato alle capacità associative di un pubblico cittadino colto, che confronta le enormità di quel mondo con un ideale di perfezione e di equilibrio. Da ciò deriva la voluttuosa attrattiva di siffatto gioco letterario fino alla Pastoral dell'esordiente Ruzzante, che evidenzierà, rispetto alla marcata discriminante della "naturalezza", tanto le approssimazioni arcadiche quanto l'interpretazione rozzamente dialettale della favola scenica. Terzine drammatiche e serie di versi brevi facilmente rimati, secondo una consuetudine letteraria di frottola popolaresca, serviranno al giovane autore padovano per il contrappunto della ninfa Siringa, che provoca la morte del vecchio Milesio, e del pecoraio Ruzzante, che può soddisfare il proprio istinto solo dopo la morte del padre. Ma queste stanze del B. ventenne, rifinite e sentenziose come epigrammi paesani, rotte da un invadente sistema di battute che infrangono la compattezza dell'ottava descrittiva quattrocentesca, sembrano veramente uscite dalla penna di un classicista tanta è la fedeltà a temi prestabiliti. In questo scritto di pur modeste dimensioni è presente l'intero repertorio dei motivi inventati dalla letteratura rusticale: lo stupore dei contadini nell'ambiente di città e gli equivoci verbali cui danno luogo inusitati spettacoli, la zuffa fra due rivali in amore e la composizione della lite al cospetto del podestà (una situazione tipica di certe farse dello Strascino), allorché Catrina, giudicando con una prontezza che ovviamente manca al magistrato, sceglie per compagno l'amante "Perché m'è piaciuto", e liquida il marito con una sequenza di ingiurie: "Non vedi tu come Beco è biancoso, / e grande, e grosso, e alto, e relevato? / E tu sei brutto, arabico, e sdegnoso, / affamatello, e sparuto e sdentato". è la battuta che salda la fragile architettura dell'opera: gioco potenzialmente destinato a un pubblico che ne conosce le regole, ma di cui nessun pubblico poté interessarsi per la mancanza di una posta qualsiasi azzardata dall'autore.
Alle medesime intenzioni pigramente eludenti ogni impegno fantastico va riportata la sporadica, ma prolungata esercitazione dei carmi latini, condotta su modelli catulliani e virgiliani: un'attività protratta, a voler escludere il tardo epitaffio "auctoris tumulus", fino al 1523 o '24.
Niente di meno berniano che l'esordio sensuale e descrittivo dell'epigramma "Tibia, quae niveae labris infiata puellae" o la progressione emotiva dei distici "Angelo Divitio", che pure si concludono con un verso sapiente: "Sed certe vestra est haec amor invidia". Il limite di accessibilità a motivi di pura riproduzione classicistica è contenuto nell' "Elegia de puero peste aegrotante" con quella topica deprecazione del morbo quale corruttore della natura e nemico del consorzio umano che verrà smentita nei due celebri Capitoli della peste, laddove una effettiva originalità sembra potersi individuare in certe brusche deviazioni tematiche, per cui al vago motivo di un ratto d'amore e ad una fugace spaziatura mitologica segue la riflessione sull'insicurezza di ogni possesso quando vengano meno la vis e l'ars: "Nil adeo tutum est quod, si patientia praestet, / seu vi non possit, seu magis arte capi" (nell'elegia "Ergo ego transactos intempestivus amores").
Il richiamo a queste divinità nello scabro Parnaso dei Carmina costituisce il punto di sutura con la poesia in volgare del periodo romano, quale viene definita, nel 1518, al termine di una lettera che il B. indirizzò a Giulio Sadoleto per ringraziarlo di aver sostenuto la propria candidatura a cortigiano del Bibbiena.
La lettera verte per intero sopra un binomio solo apparentemente risolvibile nell'equilibrio di una condizione sociale: la "natura da poca" del poeta e l'"uomo da bene": modello di virtù intellettuali e civili, di cui la realtà offre cospicui esempi (il Barignano, Giovan Francesco Valerio, il Sanga, lo stesso Sadoleto) e al quale si assoggetta anche il B. facendo ricorso a tutte le forze dell'animo, allo "studio", all'"observantia", all'"amore", e finalmente al "desiderio", sebbene la propria inclinazione sembri volerlo costringere all'impotenza con la tenacia assillante di una malattia fisica ("nervos omnes intendam meos in aiutarmi da me stesso, in eccitarmi, in vincer questa mia maladetta natura da poca… i' farò come quell'infermo che ha voglia di guarire; benché si vegga debole, pur a chi lo domanda risponde di buon'animo e fa del gagliardo, tanto che pur alla fine esce di letto"). La natura del poeta offre una resistenza così solida che solo la volontà del mecenate può farsi legittimamente garante della sua onorabiltà ("conseguirete il desiderio vostro e vedretemi uomo dabbene… ché so ad ogni modo vorret'aver onor di me"); mentre da parte del cortigiano si accenna all'eventualità di un "inganno" che, per difetto del poeta, potrà frodare la rispettabilità del protettore.
La resa dei B. rispetto al proprio modello di vita è incondizionata e viene espressa dallo scrittore nella lingua delle iscrizioni lapidarie: "si volo is esse quem tu me esse voluisti". Ma la vita, in quanto adeguazione a un modello, è abdicazione e rifiuto dell'esistenza; il dover essere è pura astrazione: dalla natura, dall'esperienza, dalla fantasia, che getta sul poeta la luce di una condizione irreale fra quelle la cui validità oggettiva sembra garantita da un grado di virtù civilmente determinabile. Per questo al termine della lettera la scomparsa del B. come individualità fisica corrisponde alla vanificazione della poesia in quanto oggetto d'esperienza, possibilità di mimesi naturalistica. Il B. è diventato senz'altro Francesco da Bibbiena, i versi recentemente composti per Antonio Dovizi, nipote del cardinale, sono pazzie comiche, documenti di un assoluto disobbligo morale, su cui nessuno ha diritto di misurarsi, "baie" soggette esclusivamente alla lode dell'autore, mentre i versi degli "uomini dabbene" si offrono, "come le cose de' santi", ad un giudizio di valore in cui si rispecchiano i contenuti di una determinata civiltà. "In eo genere - cioè nella poesia in volgare, dirà il B. in una lettera del '23 a Latino Giovenale -, ancora io ho fatto non so che baie, anzi ne ho fatte tante da poi che sono in questo laberinto che non arei mai creduto essere stato da tanto. Ecco che mi lodo io; non fo come voi, che troppo alla cortigiana ve n'andate: mi lodo da mia posta, per avanzar la manifattura".
Entro i termini delimitati dalle due lettere andrà valutata la produzione romana del B., mentre lo scrittore è al servizio di Bernardo e poi di Angelo Dovizi in cerca di quei magri "beneficioli" che gli eruditi hanno situato in Abruzzo., presso la lancianese badia di S. Giovanni in Venere. è una produzione chiaramente diseguale che contempla, ai limiti di un ideale di vita impudicamente solitaria, la paradossale precettistica contenuta nel Capitolo a suo compare e la scabra rappresentazione del Sonetto delle puttane, l'invettiva contro la severa moralità di Adriano VI (in nome della festevole, latina bonomia di papa Medici) e un doloroso assunto di innocenza, quando, a seguito dello scandalo provocato da un amore omosessuale, Angelo Dovizi provvederà (febbraio 1523) a un momentaneo allontanamento del B. da Roma e lo scrittore sarà costretto a esercitare le funzioni di sottovicario nella badia abruzzese. Ma pur nella genericità dei tributi alla maniera giocosa, un significato indubbiamente più preciso assume una serie di "lodi" (delle anguille, dei cardi, delle pesche, dell'orinale, della gelatina), su cui insiste con straordinaria frequenza l'attività ruvidamente "manifatturiera" del poeta.
Queste "baie" vanno intese come tentativi di astrarre significati paradossali dall'entità corporea degli oggetti, di liberare il frammento comico da ogni verosimiglianza naturalistica che possa richiamare alla esperienza ("Poi ch'io ho detto di Matteo Lombardi, / de' ghiozzi, dell'anguille e di Nardino, / voglio dir qualche cosa anco de' cardi, / che son quasi meglior che 'l pane e 'l vino… Ma la brigata poi non me lo crede, / e fammi anch'ella rinegar san Piero: / ben che pur alla fin, quando ella vede / che i cardi son sì bene adoperati, / le torna la speranza nella fede. / E dice: 'O terque quaterque beati / quei che credono altrui senza vedere! ' / Come dicon le prediche de i frati"). Ciò si rende possibile al B. con la tecnica della "lode" (o "esaggerazione", come verrà designata nel Commento al Capitolo della primiera), ricorrendo cioè alla tradizionale figura retorica dell'iperbole, che tuttavia non è più uno strumento di decoro formale, ma si configura come norma costante di un metodo discorsivo, logicamente sbilanciato, con cui lo scrittore salva la possibilità di azzardare una bizzarria nel linguaggio dell'epoca.
L'incomunicabilità fra questo tipo di personalissima soluzione e le direttive della contemporanea cultura rinascimentale è abbastanza evidente. Roma purifica, innalza, trasfigura. Di fronte alle sublimazioni della natura umana offerte dalla pittura raffaellesca e michelangiolesca un pittore della tempra del Rosso fiorentino dà un addio definitivo all'arte e si vota all'eterna decorazione. Il B., il quale sapeva a tempo debito ammonire il Dovizi con l'esempio del proprio disprezzo per la morte, si serra nel cerchio inaccessibile di un'espressione privata dell'oggetto o, se si vuole, di una predica dissacrata che l'autore inventa e recita a se stesso.
Un brano di lettera (del 1522) contiene del resto una chiara indicazione di comico berniano che rinvia direttamente all'orditura dei Capitoli: "Che si cava di questo mondo finalmente altro che 'l contentarsi, o almeno cercare di contentarsi? - chiede lo scrittore ad Angelo Dovizi - Non vi sia dunque invidia né maraviglia quel ch'io dico e scrivo, perché l'uno e l'altro fo umanamente: ma questo non importa, come il vino". E la medesima deviazione da un reale possesso dell'esperienza si registra a più riprese nell'intero arco della corrispondenza romana del Berni.
Di ritorno dall'esilio abruzzese, sullo scadere del 1523, il poeta spera di trovare presso il nuovo papa mediceo condizioni di vita più favorevoli di quelle sperimentate sotto Adriano VI: si offre invece, peccatore tutt'altro che impenitente, al servizio di Giovan Matteo Giberti, datario di Clemente VII (1524), dopo aver liquidato l'ambiguo rapporto di familiarità col Dovizi ed ottenuto la protezione di Giovan Battista Sanga, primo segretario del Giberti. Per il futuro vescovo di Verona la tensione verso un generico ideale di decoro si precisa nel contenuto di dottrina della riforma cattolica: l'uomo dabbene non è il cortigiano che si nobilita in nome di una funzione civile, è il discepolo di virtù, colui che si integra con la figura del mecenate al livello di una indiscussa sostanza morale. Per volere del Giberti cadono, estremo sacrificio delle vanità, le barbe dei cortigiani (B. ne immortalerà una, quella di Domenico D'Ancona, assurta per forza di iperbole a motivo di fregio decorativo) e cadono le ultime speranze dello scrittore di governarsi come soggetto d'esperienza.
Nella più interessante delle poesie scritte durante il secondo soggiorno romano (il Sonetto di ser Cecco) il B. rappresenta l'annullamento fisico di un individuo, Francesco Benci decifratore della Camera apostolica, ad opera della corte, un'entità incorporea che finisce per conferire al cortigiano i propri ineffabili connotati. La progressiva assìmilazione fra i due protagonisti del componimento è resa con un'abilità stilistica senza precedenti: l'alternanza di due parole - rima (Cecco e corte),la ripetuta ambivalenza delle espressioni sintatticamente elementari, un'accentuazione di reciprocità diretta nelle funzioni verbali - che si conclude nell'ambiguo e preziosissimo "somiglia" del v. 7: "Questo ser Cecco somiglia la corte" - sottolineano l'idea di un destino almeno altrettanto necessario come quello naturale, fino a che l'impreveduto esito degli ultimi tre versi non ne sancisce una innaturale durata: "Ma da poi la sua morte, / arassi almen questa consolazione, / che nel suo loco rimarrà Trifone". La fatale irriconoscibilità del cortigiano costituisce un risultato analogo a quello espresso nella conclusione della lettera al Sadoleto e trova conferma in alcuni versi autobiografici del Rifacimento (III, VII, 39), dove B. sintetizza la propria esperienza di segretario: "Aveva sempre in seno e sotto il braccio, / dietro e innanzi di lettere un fastello, / e scriveva e stillavasi il cervello".
Motivata da questa estrema rarefazione psicologica è l'indifferenza per i temi con cui lo scrittore si assoggetta a una pigra esercitazione poetica. Versi come quelli rivolti a Clemente VII forse su espressa richiesta del datario ("Un papato composto di rispetti") o come quelli ideati contro l'Aretino (che era stato vittima di un attentato ad opera di Achille della Volta, uomo del Giberti), una scialba parodia del Bembo e due sonetti comici su altrettanti motivi tradizionali ("Chiome d'argento fino, irte e attorte" e "Cancheri, e beccafichi magri arrosto") non lasciano traccia nella storia della poesia berniana, mentre una reale incidenza sembra potersi individuare in una nuova "lode": quella della primiera, e più nel commento al capitolo che il B. dette alle stampe (Roma 1526) sotto l'innocente pseudonimo di Pietropaulo da San Chirico.
Qui l'indicazione comica avviene su due piani tendenti ad un effetto unitario. In evidenza è il contrappunto tra la futilità dei versi e la serietà dell'impegno didascalico: si pensa subito alla consuetudine cinquecentesca dei commenti apposti a poesie di genere tutt'altro che comico, alla ricchezza delle argomentazioni, alla nobiltà del dettato. Ma questo, che può essere stato il primo e più scoperto oggetto polemico della prosa berniana, non dové rappresentare per l'autore il fine più interessante del proprio commento. Per comprenderlo nelle sue esatte dimensioni bisogna ripercorrere il procedimento che adotta ogni linguaggio interprete di poesia: esso astrae dall'espressione alcuni contenuti e su di essi lavora, servendosi di categorie che sono comuni alle contemporanee scienze, nel tentativo di conferirle una significazione universalmente valida, di assegnarle il posto che le compete in una tradizione di cultura. Ora, tutta la scienza contemporanea è presente anche nel commento berniano; senonché, per la manifesta mancanza di contenuti teologia, filosofia, retorica e linguistica iscenano la loro danza farsesca intorno a un oggetto inafferrabile, tanto superbamente elevato quanto più scontata poteva sembrare la sua raggiungibilità razionale. Forse non si riscontra rappresentazione iperbolica più perfetta in tutta la prosa berniana di questa illusione ottica per cui astrazione poetica e significazione razionale si rincorrono lungo una linea prestabilita senza mai incontrarsi sul fuoco del reale, di questa sconfitta della ragione ad opera di una poesia inesistente, soggetta all'estro bizzarro dì uno scrittore che allontana o ingigantisce gli oggetti sensibili secondo un gioco fallace di prospettive.
In una scrittura coeva, il Dialogo contro i Poeti (pubblicato forse a Roma nel 1526), il B. riesce a ipotizzare la morte di una esperienza poetica in generale, la cui "naturale" attinenza viene decisamente condannata dal Sanga, principale interlocutore dell'opera.
Quale poesia può sottrarsi a una requisitoria che trae le proprie norme dalla legge dei dieci comandamenti? Quella "del Pontano, del Vida, del Sannazaro,delBembo, del Navaiero, del Molza, e delli altri della Acadernia", cioè di quegli "uomini da bene" che subordinano l'attività poetica a una ufficiale professione di virtù. "Io non chiamo poeta - precisa il Sanga - e non danno, se non chi fa versi solamente e tristi, e non è buono ad altro: questi di sopra si sa chi sono, e se sanno far altro che versi, quando vogliono. Essi non fanno professione di poeti; e so pur han fatto qualche cosa a' suoi dì, è stato per mostrare al mondo che, oltre alle opere virtuose che appartiene a far ad uomo, non è impertinente con qualche cosa che abbi men del grave ricrearsi un poco, e che sanno anche far delle bagatelle per passar tempo". Giovanni, servo sciocco che si esprime in un rozzo dialetto settentrionale, accetta per innato buon senso le tesi dell'accusa, cui si associa anche il B., che collabora a concludere polemicamente un tema de inventione fondato sul raffronto tra poeti e inabili muratori.
L'immagine di una incompiuta opera manuale appare di frequente nelle espressioni in cui il B. determina negativamente la propria poesia (dalle "baie" degli anni '20 al tardo Capitolo di Gradasso), ma ciò che essa sembra voler criticare nel contesto del Dialogo è la velleità costruttiva di un'invenzione astratta dalla fantasia e dalla naturalezza, come appare lecito dedurre dal finale elogio della pura esercitazione retorica. In questo caso, l'intervento del B. nel Dialogo ha lo scopo di completare una diagnosi sulle cause oggettive che vietano l'ingresso della finzione poetica in un mondo ormai irriducibile alla dimensione dell'esperienza: che è poi, su diverso registro, la lezione che Guicciardini esprimeva, nello stesso giro di anni, per voce di Bernardo del Nero nel Dialogo sul reggimento di Firenze, ove il richiamo a un "parlar naturale", contro i pretesi valori dei filosofi e il fervore ideologico dei nuovi politici, non può che sublimare l'inerzia del vecchio partigiano mediceo. Se si pensa in questi termini al futuro Rifacimento dell'Orlando Innamorato si intende come il ricorso a un'opera di fantasia come quella del Boiardo avrebbe potuto verificarsi soltanto nei limiti di una retorica classicistica dietro cui si cela la moralità dello scrittore.
A un'altra impresa letteraria (il restauro del testo del Decameron per l'edizione giuntina) attendeva probabilmente lo scrittore quando fu sorpreso dal sacco di Roma. La devastazione della città eterna ad opera dei nuovi barbari sarà motivo di civile deprecazione in alcune stanze aggiunte all'Orlando, tra le più goffe e arbitrarie del Rifacimento (I, XIV, 22 ss.), laddove nello spazio di una breve lettera poetica (il sonetto A Giovan Marìani congratulandosi che sia vivo) il B. riuscirà a individuare il dramma della passata esperienza nel divario insensibile tra la vita e la morte: "Le carestie, le guerre e i tempi strani, / c'hanno chi morto e chi fatto mendico, / fan che di te non arei dato un fico: / tu m'eri quasi uscito delle mani. / Or vi sei, non so come, ritornato… Vo' che tu m'imprometti / ch'io ti rivegga prima che si sverni. / Mi raccomando: tuo Francesco Berni" una poesia minore, eppure autenticata dall'autore come quella ove il senso di un occasionale ritrovamento si esprime in immagini di gioioso e istantaneo possesso materiale.
Evitata la strage dell'esercito imperiale, il B., il quale è stato nel frattempo elevato al grado di protonotario apostolico, si preoccupa di salvaguardare i propri benefici su tre chiese riminesi che Sigismondo Malatesta, tornato in possesso della città, non è disposto a riconoscere. Nell'ottobre del '27 si reca in Mugello per incaricare il fratello Tommaso di riscuotere le rendite e lancia contro il signore di Rimini un ingiurioso sonetto. Poi torna dal Giberti, che nel febbraio del 1528 entra in possesso della sede vescovile di Verona. Ma la scabrosa situazione della città sulla quale ancora infuria la "tempesta di Lanzichenecchi" consiglia al vescovo di riparare provvisoriamente a Venezia mentre il B. visita, in missione ufficiale, la badia di Rosazzo, nel Friuli, che fa parte della giurisdizione vescovile. Il Sonetto in descrizion d'una badia, indirizzato nel '28 al Giberti, è un gioco metaforico in cui, oltre a dissolversi l'impegno del visitatore, scompare l'oggetto stesso della visita.
Di ritorno dal Friuli, il B. soggiorna per qualche tempo a Venezia ove conosce i protettori del Ruzzante, l'unico scrittore contemporaneo per il quale egli confessi di nutrire "invidia" e compone uno scherzoso capitolo per il milanese Francesco Navizzani invitandolo alla magra mensa del Giberti. Poi, migliorata la situazione a Verona, il vescovo decide di farvi ritorno: il B. naturalmente lo segue insieme a tutta la schiera dei cortigiani.
Da Verona, il 10 ott. 1528: "Se Dio mi dà grazia ch'io vinca un poco questa mia poltroneria, con la quale ho combattuto per tanti anni e sempre ho perso, come faceva colui con la cena, la vostra eccellenzia conoscerà ch'io sono un uomo da bene, idest ho voglia d'essere uomo da bene; e che sia vero, son tornato a Verona per stare appresso ad uno uomo da bene e provare se li essempli suoi mi possono far qualche giovamento". In questi termini la duchessa di Camerino accoglieva le profferte di rettitudine del B., il quale non mancava di delineare a Caterina Cybo un quadro abbastanza eloquente della propria esperienza quotidiana: "Non mi si può già tôrre dalla fantasia quel fra Mariano e quelle cenine dalle quali ho ancora allegati i denti, e credo che per molto che digiuni in pane et in acqua non me li sciorrò mai… non ragionerò più né di questo né d'altro; solo dirò che son qui, signora mia illustrissima, e, così teatino e romito come sono, son suo devotissimo servitore in carne in ossa, e mi raccomando devotamente in grazia sua". In questo clima di professato impegno morale le resistenze all'autorità del Giberti coincidono con l'inerzia assoluta. Nel giugno del 1529 il Giberti regala al poeta i Commentari di Giovanni Crisostomo alle lettere di s. Paolo recentemente impressi dalla tipografia vescovile; il giorno immediatamente successivo alla data dell'edizione (29 giugno) il B. scrive a Giovan Francesco Bini una lettera che contiene, fra l'altro, questo elogio del silenzio: "A vivere avemo sino alla morte, a dispetto di chi non vuole; et il vantaggio è vivere allegramente, come conforto a far voi, attendendo a frequentar quelli banchetti che si fanno per Roma, e scrivendo sopra tutto manco che potete; quia haec est victoria quae vincit mundum".
Sono soprattutto gli incarichi ufficiali gli obblighi di rappresentanza che annoiano l'irrequieto cortigiano. Tra il febbraio e il marzo del 1529 lo scrittore accompagna il Giberti a Roma e compone tre svogliati sonetti per l'infermità di Clemente VII; nel febbraio del 1530 è con il vescovo a Bologna per assistere all'incoronazioneimperiale di Carlo V, ed escogita una sorta di scarna elencazione per assolvere alle mansioni laudative riservate al segretario: quale spettacolo più gradito avrebbe potuto offrire la città al massimo esponente della pace cristiana che una sfilata di personaggi la cui concordia, almeno nominale, rivelava impossibili accostamenti? ("Gualterotto de' Bianchi, / Bonifazio de' Negri… / Cristofano Marrano, / Filippo de' Cristiani"). Ed è tuttavia in questa atmosfera di assoluta dedizione che il B. realizza il Rifacimento del poema boiardesco, meditato con una volontà di rivincita sul proprio silenzio, solo che l'autore sappia opporre un deciso rifiuto a "impastorare" il proprio cervello, e voglia invece affidarsi all'autorità di un genere letterario.
Nel Rifacimento (già composto nel novembre del '30, come si apprende da un brevepontificio che concede all'editore scelto dal B. un privilegio di stampa per dieci anni) l'istanza letteraria provoca una serie di contraddizioni, a comincìare da quella doppia dedica nello stile del Petrarca in cui l'autore tentò di far coincidere le lodi di Isabella d'Este, la protettrice del Boiardo, con quelle di Vittoria Colonna, interprete di spiritualità riformata. Estraneo all'originale è l'assetto linguistico del poema in cui vengono non solo eliminati i più aspri idiotismi del Boiardo, ma bilanciati da una terminologia allusìva e puristica che ricorda da vicino l'esperimento della Catrina. Al pari contrastante è l'impegno di precisazione logico-sintattica con cui il B. tende a sostituire un tipo di rappresentazione graduale, fluida e in effetti scontata, all'immediatezza espressiva delle disarticolate immagini boiardesche. Arbitrarie appaiono le attenuazioni espressive in senso moralistico, le variazioni che il B. ritenne doveroso apportare in nome di un ambiguo decoro dell'opera; come, d'altro canto, scadenti si rivelano, largamente, le parti aggiunte del Rifacimento, quei proemi che al Foscolo sembravano superiori a quelli del Furioso, e sono invece pigre lezioni di sapienza letteraria con cui l'autore cerca di sollecitare la lode spettante al "vir probus dicendi peritus". Una biblica deprecazione dei parassiti di corte (II, XXVIII) e un ritratto edificante del sovrano che Carlo Emanuele III farà trascrivere ad uso d'emblema (I, VII), un oraziano elogio dello stato coniugale (III, VII, 7), un ammaestramento contro l'ipocrisia che ricorda Iacopo Passavanti (I, XX, 3), un invito all'umana solidarietà ispirato al proemio del Decameron (I, XVII)sono pesanti travature che devono sostenere il peso di tutta una civiltà letteraria, laddove in Ariosto il ricorso a una massima (poniamo: "O degli uomini inferma' e instabil mente! / Come siàn presti a variar disegno!": XXIX, I) si giustifica come riscontro al più totale distacco fantastico: la riproposta di un personaggio tradizionale (Rodomonte) la cui condotta tuttavia sembra "offendere" la logica dello stesso poeta e che egli potrà "perdonare" soltanto se saprà ricondurre nei limiti d'esperienza del proprio pubblico.
èindubbio che dietro la saggezza dei B. si profila la presenza del "vescovo modello" della riforma, ma è altrettanto chiaro che il destinatario dell'opera non è il Giberti, è un pubblico di uomini dabbene che può accettarla come prodotto civile di indiscutibile decoro, tanto è vero che, puntando sulla fortuna del Rifacimento, il B. decise di lasciare il vescovo e sperimentare fino in fondo il mestiere del letterato.
Nel marzo del 1531 B. è finalmente sciolto dal servizio di segretario. Il Sanga ha preparato la rottura col Giberti con una abilità taumaturgica di cui ser Cecco non avrebbe avuto il più lontano sentore: "A quel ch'io vedo - si legge in una lettera al B. raccolta tra le Facete da Francesco Turchi - credo che Monsignore farà, non voglio dire il parer mio, ma qualche cosa di simile, di voler mostrarvi la bontà sua, e mettervi poi in libertà vostra… Dubito bene che accrescendovi Monsignore obbligo, vi parerà strano il non restar con Sua Signoria, e che prometterete cose grandi e penserete di legare e impastorare il vostro cervello, che a creder mio romperà tutte le catene, e tornerete a peggior termine che mai" (Venezia 1601, II, c. 102). La previsione non tarderà ad avverarsi. Tuttavia il B. gode dell'emancipazione con una intensità straordinaria, e a Padova, ove stabilisce la propria dimora, reca con sé il manoscritto del Rifacimento, replicando presso le autorità venete quella richiesta di privilegio che aveva inoltrato, l'anno precedente, in Curia.
Quale fosse l'ambiente che il poeta si illudeva di trovare a Padova risulta chiaramente da un Capitolo di risposta "Alli signori Abbati" Cornaro, che forse gli rivolsero un formale invito: "O che grata, o che bella compagnia! / Bella ciò è per me; ma ben per voi / so io che bella non saria la mia. / Ma noi ci accorderemmo poi tra noi: / quando fussimo un pezzo insieme stati, / ogniuno andrebbe a fare i fatti suoi: / faríamo spesso quel gioco de' frati, / che certo è bello, e fatto con giudizio, / in un convento ove sian tanti abbati; / diremmo ogni mattina il nostro uffizio; / voi cantaresti, io vel terrei secreto, / ché non son buono a sì fatto essercizio; / pur, per non stare inutilmente cheto, / vi farei quel servigio, se voleste, / che fa chi suona a gli organi di drieto". Ebbe invece a sperimentare la crisi di una società ormai inerte, propensa a ipotizzare quei valori, primo fra tutti quello della cultura, capaci in qualche modo di perpetuarne la vitalità. Tale è la società veneta che in questo scorcio di secolo celebra il proprio mito e chiama per officiante lo storiografo Pietro Bembo dopo averlo per un ventennio rifiutato come politico. Uno degli esponenti politici più autorevoli in questo periodo è Gasparo Contarini, l'uomo che, illuminato dalla grazia divina all'indomani della sconfitta di Agnadello, rifiuta di ritirarsi nell'eremo di Camaldoli e decide di portare avanti un programma di riforma cattolica percorrendo il rituale corso delle magistrature veneziane. Rispetto all'attività di un diplomatico-teologo il contributo degli scrittori deve necessariamente insistere sulla funzione moralizzatrice della poesia: il magistero letterario che Pierio Valeriano prospetta al Contarini nel De litteratorum infelicitate si determina come la più alta delle professioni civili; il classicismo bembiano, come recupero professionale di una tradizione illustre, di un linguaggio culturalmente accessibile, costituisce l'unico canone che possa conferire all'arte il valore di una perenne necessità. E il B., giunto a Padova in tempo per assistere allo scandalo clamoroso della controversia tra il Bembo e il Brocardo, tenterà di mistificare in termini di compassato classicismo la cronaca di malcostume che si svolgeva in quei giorni: nel canto XIII del Rifacimento ilproemio aggiunto sicuramente nel '31 rivela i connotati dei contendenti dietro l'effige dei mitici Iroldo e Prasildo, che recitano la parte di eroi cavallereschi confortati dal proverbiale ottimismo del cantore di virtù: "Ché ogn'uomo è inclinato a benvolere ed a far bene all'altro, e se fa male, / esce del proprio corso naturale" (I, XIV, 1).
Ad un certo punto del poema sembra che la presenza dello stesso B. si sia dileguata dietro l'autorità di tanti "uomini dabbene" che hanno detto e scritto "in lingua greca, in latina, in ebrea, / in Roma già, in Atene, in Egitto": ed è nel proemio (I, IV, 3) in cui lo scrittore verifica con la tradizione le proprie conclusioni sulla natura di Amore. Ma, giunto "non so come" in un castello incantato, lungo la riviera del Riso (III, VII, 36), il B., appartato nella cucina, sogna una malinconica rivincita sui protagonisti del poema festanti nelle splendide sale e sugli scrittori d'avventure che li hanno cantati. Il letto è la sua veste: un letto solitario e vasto come il mare ove la fresca nudità del poeta può sguazzare liberamente, mentre, a capo riverso, egli contempla sul soffitto la dimensione e l'ordine delle travi, le tracce di invisibili oggetti perforatori. A pochi passi di distanza, quanti occorrono per far luogo a una tavola riccamente imbandita, giace su un letto di identica fattezza il cuoco Pietro Buffet, siniscalco del Giberti, che racconta favole bellissime e pigramente si ciba di ghiotte vivande; a lato del B. "un servitore in bocca gli metteva, / fatto a quell'uso, un cannellin d'argento, / col qual mangiava ad un tratto e beeva". Nel silenzio della camera, rotto dai rari colloqui dei due compagni, si avvertono attutiti i rumori della festa, come sullo schermo della memoria si delineano, diradati e netti, i ricordi dello scrittore: il tempo passato in servitù dei Dovizi e del Giberti, le gioie e i fastidi, le "miracolose" amicizie e gli odi "a guerra finita e mortale".
Nella disastrosa situazione testuale del Rifacimento si dovrà necessariamente ritenere autentica questa scoperta proiezione psicologica elevata per la prima volta dal B. al Parnaso di un genere narrativo, questo esito irrazionale che sfrangia i precisi contorni dì una rappresentazione naturalistica. (Si tiene conto, ovviamente, di una testimonianza estrema: la fantastica violenza escogitata dal poeta contro la "sua innamorata" ostinatamente schiva). E tuttavia già in alcuni versi immediatamente successivi al ritorno dello scrittore a Verona (ottobre 1531) è possibile scoprire il ripiego verso un tipo di raffigurazione irreale e grottesca, psicologicamente motivata con una chiarezza che non ha riscontro nella poesia del Berni.
Rientrato al servizio del Giberti con il rimpianto di una grande opera fallita e neanche pubblicata, con l'amarezza di un infranto sogno di libertà, il B. individua nel rapporto col mecenate un'antinomia irrisolvibile in cui si è vanamente dibattuto. Non è più questione di benefici, che il poeta richiede e ottiene puntando sul meccanico effetto di un madrigale d'occasione. Il gioco è più alto e investe le capacità vitali dell'uomo combattuto fra un ideale di indipendenza, che comunque si paga sull'altare dei valori consacrati, e una remissione alla servitù, che lascia, per carità cristiana, un esiguo margine inalienabile all'autorità morale. In questo caso il poeta, racchiuso in un'esistenza minima, enuclea - estremo residuo fantastico - la fiaba comica di un esodo spirituale e irride al richiamo mitico della fama.
Con due poesie indissolubilmente legate dalla logica dei contrari (il Sonetto a messer Francesco Sansovino "in dileggio di Verona" e una Ricantazione di Verona) il B. rappresenta il dissidio psicologico che è alla radice del giudizio sul Giberti: " …'l martello ch'io ho del mio padrone, - confessa il poeta nel secondo scritto - di quel sonetto è stata la cagione". Rapportate dunque al sentimento ambivalente che lo scrittore nutre per il protettore, sia la prima quanto la seconda poesia trovano una giustificazione unitaria, a voler prescindere, si intende, dalla soluzione di continuità artistica tra la scialba palinodia e l'estroso sonetto d'attacco.
In esso il B. vuol suggerire l'idea della propria prigionia e si serve, nei primi quattro versi, di efficaci immagini di chiusura atte a rappresentare l'invalicabilità di tale condizione ("Verona è una terra c'ha le mura / parte di pietre e parte di mattoni, / con merli e torre e fossi tanto buoni / che mona Lega si staría sicura"). Il trapasso analogico tra lo spazio e un tempo ermeticamente serrato avviene in un solo verso ("drento ha spilonche, grotte e anticaglie"), dopodìché il B. procede a un'elencazione di oggetti storicomitologici ognuno dei quali non si pone in una serie, ma vive in una dimensione cronologica che gli è propria, quasi in un ristagno che il tempo astrae dal flusso della vita ("due archi sorian, un culiseo… la ribeca ch'Orfeo / lasciò… a Plinio et a Catullo ìn testamento"). "I fanghi immortali" che adornano le strade e le piazze cittadine, i luoghi pubblici costruiti a dispetto di ogni ordine geometrico danno la possibilità di un riferimento concreto all'astrazione delle "anticaglie", sommerse nelle pastoie del passato, e offrono l'idea di un più tenace impedimento - dopo la morsa e la tortuosità - che ostacola la smania di evasione del prigioniero. Prodotti inerti di un mondo vegetativo, vivono nello "sguazzo" "fagioli e porci e poeti e pidocchi", mentre al suono asinino della fama si involano gli "spiriti isnelli e pellegrini", che di notte passano l'Adige e sfilano, come in una sarabanda di streghe, sopra i tetti delle case. Il motivo della Ricantazione trasferisce questo tema su un piano di indifferenza ancora aperto all'ambigua accettabilità del cortigiano, ed ecco che in una violenta apostrofe conclusiva il B. rende finalmente chiare a se stesso le ragioni della propria incapacità a vivere, allorché la libertà sognata e perduta si presenta al poeta in sembianza di donna corrotta eppure inafferrabile nella sua volubilità, come se ogni frustrazione nella vita ("andar legato come un fegatello, / vivere ad uso di frate e di sposa") equivalesse a una impossibile avventura erotica.
è questo vizio d'amore, accennato per la prima volta nel sonetto "S'io posso un dì porti le mani addosso", che segna un definitivo distacco con il fallito tentativo del Rifacimento e prelude ai capolavori del '32: i due capitoli della peste, ideati durante l'ultimo soggiorno dello scrittore presso il Giberti. Ormai la fantasia berniana si é completamente affrancata da ogni ambizione mimetica: la peste è una violenza contro la vita, è il trionfo della morte sulla vita, ma siccome ogni negazione non può avere che un significato materiale, soggetto di vittoria è l'immensa natura, il vero trionfo è quello di una gigantesca entità corporea che condensa e disperde bizzarramente la vita: "Così a questo corpaccio del mondo, / che per esser maggior più feccia mena, / bisogna spesso risciacquare il fondo; / e la natura, che si sente piena, / piglia una medicina di moría… e purga i mali umor, per quella via".
Nel primo dei due capitoli la peste è una situazione-limite mitizzata dal B. secondo i consueti procedimenti retorici: "La peste par ch'altrui la mente tócchi, / e la rivolti a Dio: vedi le mura / di san Rastian dipinte e di san Rocchi. / Essendo adunque ogni cosa sicura, / questo è quel secol d'oro e quel celeste / stato innocente primo di natura". L'energia eversiva implicita in una "materia astratta" come l'elogio di una calamità tende a negare la vita in quanto esistenza ideale, di cui il B. riscopre la fisionomia in base a un'indicazione chiaramente letteraria. Nessun motivo meglio che quello delle quattro stagioni può rappresentare un arcadico sogno d'esistenza canonizzato da una singolare concordia delle arti, autenticato da una secolare capacità poetica. Dalla primaverile festa d'amore (quando i poeti "voglion ch'ogniun s'impregni e s'inamori; / che i frati, allora usciti de' conventi, / a' capitoli lor vadano a schiera, / non più a dui a dui, ma a dieci e venti") agli invitantiindugi nelle lunghe serate d'estate; dalle "opere" e "frutti" dell'autunno (contrapposti al "disegno" e al "fiore" della precedente stagione: "credo che tu m'intenda, ancor che scuro / paia de' versi miei forse il costrutto", dice il B. avanzando una didascalia di indubbia pronunzia dantesca) alle vantate delizie del riposo invernale, le illusioni che l'arte ha sapientemente inventato per la felicità dell'uomo sono riproposte e negate dal B. con un tale distacco critico che solo un'improvvisa immagine di morte ("Prima, ella porta via tutti i furfanti: / gli strugge, e vi fa buche e squarci drento, / come si fa dell'oche l'ognisanti") può resuscitare con la sua cruenza il senso materiale della vita, e convince infine ad amare le aspre delizie della quinta stagione in cui la natura si sazia "di far pazzie".
Questi motivi si precisano ulteriormente nel secondo capitolo. La peste costituisce una "prova", un "vaglio", che ha la facoltà di far prevalere tutto ciò che è naturale nella vita: l'amicizia,. l'amore, la morte, escludendone il superfluo e il ridicolo: "la stampa volgar del 'come stai', i loquaci spasimi degli amanti, il "requiem eterna" dei frati. Essa ingaggia con la vita una lotta terribile, ma non facome quei mali "ignoranti e indiscreti" che tormentano lungamente le membra: "costei va sempre a' luoghi più secreti" e abbatte con la stessa immediatezza con cui avviene il fenomeno della vita, "O sia che questo mal ha per istinto / ferir le membra ov'è il vital vigore, / et è da loro in quelle parti spinto; / o veramente la carne del core, / il fegato e'l cervel gli den piacere, / perch'ell'è forsi di razza d'astore", onde il problema verrà affidato a Pietro Buffet che di carne si intende "più che cuoco al mondo".
Semmai lezione è giunta al B. dall'esperienza dell'Orlando Innamorato è da ravvisare in quella piena fiducia nella natura che sempre riesce a suggerire un'opera di fantasia, per cui il poeta potrà confessare, con una sensibilità tutta nuova per i contrasti: "Non fu mai malattia senza ricetta: / la natura l'ha fatte tutt'e due: / ella imbratta le cose, ella le netta. Ella trovò l'aratol, ella il bue, / ella il lupo, l'agnel, la lepre, il cane, / e dette a tutti le qualità sue…ella ha trovato il buio e le candele, / e finalmente la morte e la vita, / e par benigna ad un tratto e crudele". Ma è anche vero che solo da questa serie di antitesi si può individuare l'oggettiva difficoltà di invenzione che una poetica naturalistica deve superare prescindendo da un'esistenza estraniata dagli oggetti e da una cultura che offre semmai delle soluzioni devianti: in questi termini lo sperimentalismo del Ruzzante e il frammentismo berniano rappresentano altrettante risposte negative alla teoria rinascimentale dell'imitazione e rivelano due tendenze, che intanto si incontrano sulla necessità di una esperienza vitale, divergendo peraltro l'una alla ricerca di autentici contenuti rappresentativi, l'altra di un'espressione irriconoscibile a una verifica di tipo razionale.
Dopo la peste, e a prescindere dallo scialbo Capitolo del prete da Povigliano scritto per il Fracastoro e recitato a una brigata in vena di avventure burchiellesche, Aristotele offrì al B. un tema ricco di spunti paradossalmente felici. Il filosofo è l'antitesi della natura in quanto interprete di essa per forza di ragione, suo simbolo astratto: "è regola costui della natura, / anzi è lei stessa; e quella e la ragione / ci ha posto inanzi a gli occhi per pittura". è la personificazione del tradizionale procedimento logico che si illude di imporre una norma alla realtà ("Sempre con sillogismi ti ragiona, / e le ragion per ordine ti mette; / quella ti scambia che non ti par buona"), una sorta di prestigioso manipolatore sempre in grado di offrire la carta della verità; onde allo scrittore, avvezzo ai "digiuni" cibi delle proprie poesie, non meno che a Pietro Buffet, desideroso di imparare sempre nuovi "pasticci", rimane solo il rimpianto che Aristotele non abbia pure composto "un'operetta sopra la cucina, / fra l'infinite sue miracolose".
A parte questo gustoso effetto comico, il capitolo offre poco più di quanto non fosse già implicito nel Commento al Capitolo della primiera,tanto che l'autore avverti l'urgenza di escogitare nel Capitolo del debito, dedicato al fiorentino Alessandro del Caccia, una nuova situazione-limite intesa nel senso di un valore assoluto da conferire all'astrazione comica. Finemente strutturato su una parodia del ragionamento sillogistico che lo ricollega al Capitolo in laude d'Aristotele, ricco di aperture ironiche sollecitanti, questo capitolo riesce veramente a inserirsi nella più felice stagione poetica del B., non fosse altro che per la creazione di un eroe squattrinato e indolente, sordo a ogni norma di vivere civile eppure esistito e vivo nei luoghi storici di più sicura civiltà: alle Stinche di Firenze, paragonabili a "quel famoso Pritaneo, / dove teneva in grasso i suoi baroni / el popol che discese da Teseo".
Sul finire del 1532 il B. decise di abbandonare per sempre la famiglia del Giberti e di andare al servizio di Ippolito de' Medici conosciuto durante una breve sosta che il cardinale, di ritorno dalla legazione ungherese, fece nel Veneto in attesa di proseguire per Bologna. Probabilmente il B. lo vide per la prima volta in quell'assetto marziale che appare in un ritratto attribuito al Tiziano, e nemmeno la serena spiritualità del pittore riuscì a mitigare la massiccia fierezza di quei lineamenti. Paolo Giovio ne concepì l'elogio funebre ricordando la variopinta famiglia di schiavi barbari che il cardinale aveva mantenuto a Firenze (Elogia virorum bellica virtute illustr., Basileae 1596, c. 202). Ma forse nessuna rappresentazione del Medici è così immediatamente sconcertante come quella che ne offrì Iacopo Nardi, quando, nella segretezza di un convegno notturno, Ippolito si presenta ai fuorusciti fiorentini che tramano contro Alessandro de' Medici, "con un cappello peloso di seta rossa in testa, e in cappa, con la spada, in abito militare, talmente che di lui potrebbe aver preso qualche timore chi allora in altro abito l'aspettava, se egli sorridendo non avesse detto: 'Io sono il cardinale'" (Istorie della città di Firenze, X, VII).
Il B. ebbe a ritrarlo nel Capitolo di Gradasso, che il Medici richiese espressamente al poeta mentre questi soggiornava ancora presso il Giberti, e lo raffigurò compiutamente nel giro di poche terzine nell'atto di imporre al buffone di corte un gioco animalesco. Tra le "bestie di casa" Medici il B. sperò di essersi almeno sottratto ad un obbligo di servitù morale, di aver infranto quel giogo dolce-amaro che minacciava, dopo quasi un decennio passato col Giberti, di sublimarsi in un ideale di "santa cortigiana vita". Era naturalmente un'illusione quella di confidare in una forza cieca da cui sarebbe stato piegato, ma un'illusione che sembrò assicurare al B. un'indipendenza intellettuale mai raggiunta e persino una vitalità, una ritrovata sicurezza nel proprio destino fisico che si esprimono orgogliosamente nella lettera indirizzata a Marco Cornelio abate di Vidor sul punto di lasciare Bologna (dove il cardinale aveva incontrato Carlo V) e proseguire il viaggio per Roma, ove si sarebbe ricongiunto con il Medici: "Lunedì si fa vela generalmente per tutti, e tutti con l'aiuto di Dio ci dirizziamo alla volta di Roma; onde, se ci arrivo mai e mi riposi un poco, potrebbe essere che vi facessi il bordello. Vo per la via di Firenze, per far l'amore con mia madre quindici o venti dì, et andare un poco in coro con la zanfarda, e poi truccar via al nome di Dio, il quale sa quando ci rivedremo".
A Firenze il B. prende possesso di un canonicato del duomo che era già appartenuto al Poliziano: la tranquillità economica che gli promette l'acquisto, la lontananza del cardinale che, seppur momentanea, libera totalmente il cortigiano da ogni soggezione, rassicurano il B. nella più estrosa delle bizzarrie, il sonetto Dell'anticaglie e de' suoi parenti, imperniato su una inconsueta rappresentazione della vita eterna.
Le arti illustrative, non esclusa la letteratura, avrebbero potuto rappresentare questo tema astraendo una serie di particolari sensibili atti a formare un insieme verisimile. In effetti niente è più vicino al reale che una rappresentazione allegorica, ove, tuttavia, la credibilità "classica" delle forme impegna un tempo infinito, è una semplice didascalia che conforta l'avventura metafisica dell'interprete. Questo procedimento, più propriamente pittorico che poetico, è sconfessato dal B. nel Sonetto in descrizion dell'arcivescovo di Firenze (1533-34), ove il poeta, stabilendo un raffronto tra la propria scrittura e lo stile di Michelangelo, postula come fondamento rappresentativo una serie di immagini talmente inconsistenti da eludere qualsiasi tentativo di dislocazione in un tempo più che irreale. In questa prospettiva il sonetto Dell'anticaglie costituisce il capovolgimento del metodo allegorizzante presente in larga misura all'arte del Rinascimento. I devoti pellegrini, i relitti (archeologici e letterari) del passato, i parenti (canuti come la fede), e poi di nuovo: gli antichi dei, le reliquie dei santi, le presenze quotidiane della vita eterna non sono elementi di una sintesi interpretativa, ma dati figurativi autonomi, entità deformi - in quanto sopravvivono a un tempo che è loro concesso come improlungabile - da poter essere assimilate all'idea di una alterazione fisica. èchiaro che per una sufficiente compenetrazione di questa doppia serie di immagini prevalgano sui deboli nessi logico-sintattici i rapporti analogici, che assecondano il bizzarro succedersi delle metafore, dei giochi di parole con cui il B. forza la dimensione delle singole figure fino ad un impreveduto punto di sutura. Il limite estremo della concatenazione analogica è situato nel terzetto finale della poesia: "Dunque, chi s'ha a chiarire / dell'immortalità di vita eterna, / venga a Firenze nella mia taverna", ove, a voler risolvere l'apparente tautologia nel calembour, si ha l'immagine di una vita eterna come ostinatamente non mortale, sebbene la morte chiami e i parenti - ripercorrendo la serie a ritroso - "la lascian dire"; nonostante la sconsacrazione delle reliquie ad opera degli infedeli e la decrepitezza del culto e degli oggetti di fede; nonostante lo spettacolo dei ruderi cadenti ("…li archi e' colisei, / e' ponti, li acquedutti e' settezonî"), la deformità della tradizione classica (presente semmai proprio in quanto falsata dalla superstizione: "…la torre ove stette in doi cestoni / Vergilio, spenzolato da colei") e la stantia consuetudine dei pellegrinaggi in tempo di quaresima, quando i romei vanno "giù per le scale sante ginocchioni, / pigliando l'indulgenzie e i giubilei". La stessa lentezza con cui si svolge, nel tempo delle due quartine, la raffigurazione della superstiziosa sfilata in uno scenario di fasto plebeo, l'insistenza della rima su una desinenza accrescitiva danno l'impressione di un grandioso e solenne grottesco, di un trionfo della morte superato paradossalmente dalla sopravvivenza di forme mostruose.
L'entusiasmo creativo che spezzò gli idoli della servitù morale fu di brevissima durata. Giunto a Roma e ritrovato il cardinale de' Medici, il B. viene accolto dai "morti" dell'Accademia dei Vignaioli, ai quali lo scrittore concede soltanto lo sciatto contributo burlesco del Capitolo dell'ago, mentre, infastidito dal cardinale per le richieste di passatempi giocosi, procede a una significativa ricantazione del Capitolo della primiera. Una poesia composta per Baccio Cavalcanti sul viaggio in Francia che il B. avrebbe dovuto compiere con Ippolito in occasione delle nozze di Caterina de' Medici è significativa per il contrasto tra lo stile del poscritto, in cui si rievocano i giorni dell'adolescenza trascorsi nella villa dei Cavalcanti in Val di Pesa, e il linguaggio allusivo del capitolo (vertente nientemeno che sul motivo dell'"impalazione"), cui il B. sicuramente affida il tema di una oggettiva irriconoscibilità tra il proprio discorso e quello degli altri cortigiani.
Il viaggio servì in realtà al B. solo come pretesto per liberarsi di una servitù divenuta intollerabile. Il 3 sett. 1533l0 scrittore è di nuovo a Firenze adducendo la causa di certi disordini in famiglia cui avrebbe dovuto momentaneamente provvedere, ma continuò a risiedervi anche dopo che il cardinale ebbe terminato il viaggio di ritorno dalla Francia e poi, fatta eccezione per un breve soggiorno compiuto a Roma nei primi mesi del 1534e in Mugello nel settembre di quello stesso anno, fino alla morte.
Di nuovo l'illusione di una esistenza libera suggerisce allo scrittore una poesia polemica verso chi s'illude di rappresentare allegoricamente la vita: è il Capitolo a fra Bastian dal Piombo, in cui il B. discute col fedele discepolo di Michelangelo del più famoso artista contemporaneo. Come Aristotele anche il Buonarroti è un'astrazione simbolica e, in quanto tale, non può essere che iperbolicamente lodato: "Costui cred'io che sia la propria idea / della scultura e dell'architettura, / come della giustizia mona Astrea; / e chi volesse fare una figura / che le rappresentasse ambe due bene, / credo che faria lui per forza pura"). Ma contrariamente al filosofo, che simboleggia le facoltà categorizzanti del pensiero, il pittore è uno specchio delle meravigliose prove che "il vero, il bello, e 'l bene" possono produrre in un uomo dabbene; le sue composizioni sembra d'averle già lette nel libro delle immortali idee platoniche: peccato che neanche Michelangelo possa sottrarsi alla vecchiaia, "che voi, che fate e' legni e' sassi vivi, / abbiate poi come asini a morire… Ma questi son ragionamenti vani; - conclude maliziosamente lo scrittore - però lasciàngli andar, ché non si dica / che noi siam mamalucchi o luterani".
L'accusa di platonismo per il Buonarroti era abbastanza infondata, come infondato era il sospetto di luteranesimo che pur dovette minacciare il poeta, ma al B. poco importava di rintracciare le fonti della spiritualità michelangiolesca, e il Buonarroti, d'altro canto, mostrò di tenere in buon conto la lezione impartitagli dallo scrittore legittimando il senso della caducità dell'arte con un'etica esistenziale di impronta piagnona: "Il Bernia ringraziate per mio amore, / che fra tanti lui sol conosc'el vero / di me; ché chi mi stim'è'n grande errore. / Ma la sua disciplin'el lum'intero / mi può ben dar, e gran miracol fia, / a far un uom dipint'un uom da vero". Tale fu la replica di Michelangelo nella Risposta (in nome) di fra Bastiano.
Nel rifiuto dell'arte come valore immortale potevano incontrarsi l'austera moralità michelangiolesca e l'incredulità del B.: esiste del resto un madrigale ("Vero inferno è il mio petto") che documenta l'eccezionale convergenza della tematica berniana con quella delle contemporanee poesie del Buonarroti. Ma il B. libero è il letterato al quale si addice non tanto una negazione quanto un'affermazione di civiltà: ed ecco che ripensa con nostalgia all'ambiente che fu il destinatario del Rifacimento;tenta di bilanciare il risentimento del Medici per l'abbandono con la pietà di Alvise Priuli, conosciuto forse nel '31, cui si rivolge in termini di fede religiosa che richiamano la promessa di virtù confidata al Sadoleto e quella di rettitudine garantita al Giberti; ricrea la servitù sotto il vescovo di Verona ("perché io non sono per star lungamente senza la vista del mio reverendissimo padrone"); vagheggia un'ideale commercio fra le anime belle del circolo contariniano; aspira a quel "convento di spiriti divini" come mèta del viaggio terreno e nido di casta colomba, salvo poi a trasferire questo ideale di purezza nell'impudica "casa del Bernia": "Faremo ad un piattello, / voi e mia madre et io, la fante e' fanti: / poi staremo in un letto tutti quanti; / e leverènci santi, / non che pudichi; e non ci sarà furia, / sendo tutti ricette da lussuria".
Nello strano mosaico di citazioni di cui si compone la lettera al Priuli (1534) sono presenti tutte le autorità sperimentate dallo scrittore durante la sua carriera di artista e di cortigiano. Il Catullo dei carmi latini, Omero, riferimento canonico di ogni poesia epica, fino alle lettere paoline di gibertiana memoria si assimilano - proprio come nell'Aretino - in un mito di intangibilità letteraria, in un'ideale, ancora vivo in quegli anni presso alcuni ambienti della riforma cattolica, di tolleranza culturale, e, soprattutto, in un imperativo morale cui il poeta ha ancora la forza di contrapporre la negazione della propria inerzia: "…non ho fatto mai alli dì miei cosa buona".
L'ultima parte della vita berniana riconduce inequivocabilmente all'esordio dello scrittore cortigiano. E tuttavia non è il puntuale ripetersi degli eventi ciò che caratterizza l'estremo lembo di questa biografia quanto la capacità dell'uomo, divenuto signore delle proprie passioni, di adeguarsi a un destino ormai noto, verificabile, per fatale successione di tempi, sulla base immutata della propria insufficienza. Il passaggio da un ideale di virtù alla soggezione morale, e poi a una "sostanza di cose sperate" si coglie nelle lettere del B. come l'evoluzione di un piano provvidenziale, di cui lo scrittore accentua semmai il carattere di necessità. D'altro canto il B. ripete spesso in questi anni la definizione., liberamente parafrasata dal Vida, "che la poesia è come quella cosa bizzarra che bisogna star con lei, che si rizza a sua posta e leva e posa": energica facoltà naturale che postula un adempimento altrettanto completo come quello che si esige dal cortigiano, ma al quale il poeta può meno che mai corrispondere, se non con una astratta disponibilità.
Ricorrendo a questa identità fra i due tipi di richiamo, che il B. stabilisce sul piano della propria inadempienza, andranno valutati i capitoli Alla sua ìnnamorata, che danno l'impressione di una esperienza conclusiva qualora si pensi al tentativo letterario di definire una rappresentazione comica di tipo nenciano (qui, più che nella Catrina, ricca di spunti derivati dallo Strascino), anche se proprio su questa base le approssimazioni letterarie del B. divengono affatto generiche e i due capitoli segnano, nel complesso, una consapevole chiusura che lo scrittore opera rispetto ai propri modelli. Il linguaggio comico tende innanzi tutto a confondere più che ad accentuare i lineamenti dell'innamorata, la quale, nonostante le enfatiche profferte del corteggiatore, è in effetti neutralizzata da ogni appetito in virtù di una iperbolica ed evanescente grandezza: "…buona / ad ogni gran refugio e naturale, / sol con l'aiuto della tua persona", capace di far "sì fatti figliuoloni / da compensarne Bacco e Carnevale". Il primo capitolo consiste nel buffonesco corteggiamento dello spasimante a questa musa della procreazione, la cui sola presenza ha il potere di trasmettere nell'amante le più istintive e sublimi emozioni ("Son come uno stallon quando si scioglie, / che vede la sua dama in sur un prato, / e balla e salta come un paladino"), tutta l'energia vitale che lo scrittore riconosce come l'essenza dell'arte ("Io ballo, io canto, io sòno il citarino, / e dico all'improvista de' sonetti / che non gli scoprirebbe un cittadino"). Ma l'unione con la gigantesca e inafferrabile divinità è impossibile per il poeta: solo dopo che egli è morto per amore potrà raggiungere la dea, penetrare in lei col proprio spirito, "sguazzare" nel suo ventre, vendicarsi con le più fantastiche oscenità della sua ritrosia. Il secondo capitolo "all'innamorata" è la rappresentazione di una maliziosa rivincita sulla natura, di un sortilegio, che nessun prete potrà esorcizzare, mediante il quale il poeta finalmente possiede il sospirato preniio d'amore.
La poesia del B. si chiude idealmente su questa ennesima vittoria della morte e su questa ulteriore vendetta della vita, che si afferma dopo la morte come in una assurda fantasia medioevale. Mentre in Ruzzante Madonna Allegrezza risplende in un paesaggio naturale e rigoglioso - ma è infine un sogno, che richiama quello della Pastoral evitando l'esperienza dei periodo "classicheggiante" - nel B. il linguaggio della tradizione umanistica o lo scenario incantato della riviera del Riso finiscono per suggerire una accidiosa fantasia che separa il mondo dello scrittore dal possesso della realtà.
Gli ultimi mesi di vita accrebbero nel poeta la coscienza di un destino che stava irrimediabilmente chiudendosi sulla sua inattitudine a governare gli eventi. Nel settembre del 1534 il B. è in Mugello per provvedere alla sistemazione di alcune proprietà e stende una sorta di poetico bilancio della propria esistenza. Sedici anni d'affanni e di stenti contro quattrocento ducati figurano nel libro dei suo cuore "ch'è in carta buona", qualora la "segretaria" e la "prebenda del canonicato" esigano dei conti da presentare ai presunti benefattori. Ritornato a Firenze, il B. visita assiduamente Ricciarda Malaspina Cybo, la cui casa è frequentata da una vecchia amicizia del poeta, Caterina Cybo Varano, ma purtroppo anche da Alessandro de' Medici e dal cardinale Innocenzo Cybo, cognato di Ricciarda, al quale la Malaspina concede plausibili favori. Si rinnovava per il B. la facile strategia di mantenersi il più possibile lontano dal padrone, mentre a Roma Ippolito seguiva le fasi dell'ultima malattia di Clemente VII, ma era una tattica questa volta molto rischiosa perché coinvolgeva direttamente il cortigiano nella trama di rivalità tra i due Medici.
Morto Clemente VII, che di quella rivalità era stato in certo senso il moderatore, i cardinali fiorentini Salviati, Ridolfi e Gaddi brigano contro Alessandro sostenendo la candidatura del cardinale Ippolito che avrebbe dovuto sostituirlo al ducato. Innocenzo Cybo reagisce in favore di Alessandro assumendosi l'incarico di uccidere Giovanni Salviati. Quale esecutore più insospettabile avrebbe potuto scegliere se non il vecchio cortigiano di Ippolito e forse personale amico del Salviati? Secondo la testimonianza di G. B. Businì, contenuta in una lettera al Varchi (cfr. Virgili), il B. sarebbe morto, il 26 maggio 1535, del veleno che egli si rifiutò di porgere al cardinale. La notizia appare sospetta per essere stata utilizzata, e forse ideata, tra i capi dell'accusa che i fuorusciti fiorentini produssero contro Alessandro de' Medici, sebbene il silenzio che circondò immediatamente la fine del B., la stessa mancanza di più precise informazioni dietro cui si trincerarono i contemporanei possano ancora dar credito all'ipotesi di una morte violenta, dovuta a ragioni politiche pericolosamente rintracciabili sotto il ducato di Cosimo I.
La fortuna del B., come quella di ogni artista autentico, è una storia che riguarda solo marginalmente lo scrittore, e lo riguarda nella misura in cui egli non riuscì a liberarsi di una tradizione, offrendo già alla contemporanea civiltà letteraria l'opportunità di essere giudicato come il maggior esponente di un "genere" vecchio quanto la poesia in volgare. Sotto questo aspetto il B. del Sonetto contro la moglie, del Capitolo al Fracastoro o di quello dell'ago è anche il primo bernesco, le cui poesie poterono essere stampate dal Lasca, unitamente a quelle dei più vicini imitatori, e riproposte, dopo le prime, affrettate edizioni (Sonetti del Bernia, Ferrara 1537; I Capitoli del Mauro et del Bernia et altri authori,[Venezia] 1537; Tutte le opere del Bernia in terza rima, [Venezia] 1538; Sonetti del Bernia in diversi soggetti et a diverso persone scritti,[Venezia] 1540) con un sonetto del curatore che ne sanciva la "classicità" ricorrendo al primo verso del Canzoniere petrarchesco: "Voi ch'ascoltate in rime sparse il suono / di quei capricci che 'l Berni divino / scrisse cantando involgar fiorentino, / udite ne la fin quel ch'io ragiono" (c. 7 r). L'edizione giuntina procurata dal Lasca: Il primo (e Il secondo) libro dell'opere burlesche di M. Francesco Berni, di M. Gio. Della Casa, del Varchi, del Mauro, di M. Bino, dei Molza, del Dolce, e del Firenzuola, Firenze 1548 (e 1555), ebbe una notevole rilevanza critica in quanto servì ad accrescere il corpus delle rime berniane, ma la sua importanza fu soprattutto storica elevando sul piano di assoluta accettabilità un modello di stile cui faranno ricorso gli uomini della Controriforma. E anche in questa prospettiva la responsabilità del B. è indubbia: il passaggio dalla poesia alla retorica può avvenire al livello dell'ideologia (secondo l'acuta diagnosi berniana contenuta nel Dialogo contro i poeti) anche in nome di una risposta negativa ad essa che allontani, insieme con i valori, i contenuti e gli oggetti stessi dell'esperienza. Il destino cinquecentesco di un B. retore, autenticato dalle esercitazioni del Della Casa non meno che dalle Lezioni di Benedetto Varchi, affonda le radici in un "mito" berniano: la determinazione soggettiva di non poesia in rapporto alla civiltà, e si configura molto simile a quello di Guicciardini maestro di empirismo politico sotto la tutela del confessore gesuita.
Sfortunata fu anche la sorte del Rifacimento dell'Orlando Innamorato giudicato dal B. poeticamente infelice e non pubblicato nonostante le due richieste di privilegio inoltrate nel 1530 a Roma e nel '31 a Venezia. Usci invece dieci anni più tardi per volontà dell'Aretino e con probabili aggiunte di Gian Alberto Albicante per i tipi di Andrea Calvo: Orlando Innamorato composto già dal Signor Matteo Maria Boiardo conte di Scandiano et rifatto tutto di nuovo da M. Francesco Berni, Milano 1542 (alcuni esemplari di questa edizione, contraffatti dai Giunta, recano sul frontespizio l'indicazione di Venezia 1541), e ristampato dai Giunta nel 1545 (Orlando Innamorato composto dal S. Matteo Maria Boiardo conte di Scandiano et hora rifatto tutto di nuovo da M. Francesco Berni), in un'edizione che solo parzialmente riparava i guasti della prima. Eppure, come prodotto letterario di fronte al quale il pubblico non si sarebbe posto il problema di riconoscere le parti originali da quelle aggiunte o rimaneggiate, il Rifacimento ebbe nella seconda metà del secolo una diffusione non inferiore a quella delle Rime (si stampò anche La Catrina, a Firenze, nel 1567), fino a quando Cesare Caporali non pensò di adattare l'eredità berniana a uno strumento più duttile di svago retorico, e consegnò alla poetica dei tardo Rinascimento il nuovo, fortunato genere del poema eroicomico. I critici dell'età marinista riconoscono ormai la maestria del B. utilizzando l'invenzione di Cesare Caporali (T. Boccalini, Ragguagli di Parnaso, I, Bari 1948, pp. 206 ss.), mentre la continuità del genere rusticale si affida alle ostentazioni puristiche di Michelangelo Buonarroti il Giovane, e all'esempio delle Rime,lette nelle edizioni castigate del Grossi (Vicenza 1609) o del Baba (Venezia 1627), si accostano quanti, fra uomini di scienza o di chiesa, eruditi o maestri di umanità, intendono sfoggiare imprevedibili doti poetiche: berneschi per divertimento letterario, anche se accademico, e comunque rappresentati in larga misura nelle due maggiori raccolte settecentesche: quella a cura di Paolo Rolli e Anton Maria Salvini (Londra 1721-24), che segna la definitiva acquisizione arcadica della maniera bernesca, e quella edita a Napoli tra il 1723 e il '29 con una serie di emendamenti al testo avanzati da Giovanni Bottari.
Fino a Foscolo, e nonostante un giudizio luministicamente ostile del Parini (Tutte le opere, Firenze 1925, p. 830), la fama del B. vive in nome di un insuperato "atticismo" stilistico e del decoro letterario che ancora si ravvisa nel Rifacimento dell'Orlando Innamorato (U. Foscolo, Opere, XI,1-2, Firenze 1958, ad Indicem).Del resto il Baretti aveva deriso con una eloquente impennata qualsiasi tentativo di confondere la poesia del B. tanto con quella dei precursori quanto con quella dei berneschi (La frusta letteraria, 15 febbr. 1764), anche se soltanto nei limiti di una tradizione retorica avrebbe potuto iscriversi il giovanile entusiasmo di Aristarco per lo scrittore cinquecentesco (ibid., 15 apr. 1764). Furono gli uomini del Risorgimento (dal Giusti al Settembrini) che fecero eclissare la fama del B., esercitando sul poeta una censura che era mancata ai letterati della Controriforma. Una significativa eccezione costituisce il giudizio di Leopardi, che riconosceva al B. un senso del comico simile a quello degli antichi, cioè consistente nelle cose più che nelle parole (Zibaldone di pensieri, I,Milano 1961, p. 62).
La stroncatura dei Settembrini (Lezioni di letteratura italiana, II ,Napoli 1920, pp. 86 ss.), motivata da una concezione della Rinascenza priva di ideali civili, riaffiora tanto nel determinismo, sociologico del De Sanctis (Storia della letter. ital., I, Bari 1939, p. 404: "Non è più la coltura che ride dell'ignoranza e della rozzezza; è la coltura che ride di se stessa; la borghesia fa la sua propria caricatura"), quanto nell'estetismo classicheggiante del Croce, al quale tuttavia si deve un giudizio inconsapevolmente acutissimo dell'arte berniana: "La verità è che il B., attraverso questa o quella poesia del tempo suo, veniva a parodiare la poesia stessa in universale, l'atteggiamento poetico dell'anima umana".
La sconfessione del Croce (1941) fu definitiva per la fortuna del B. nell'ambito della critica accademica: per Flora, che pure suggerì indicazioni suggestive sulla dimensione astratta della poesia berniana, l'autore deve essere innanzi tutto integrato nella precisa funzionalità dei generi letterari che fu ideata dal classicismo cinquecentesco (Storia della letter. ital., II, 1, Milano 1941, pp. 446 s.); per Momigliano (Elzeviri, Firenze 1945, pp. 98 ss.) la sua poesia è indice di un ozio morale "inconcepibile dopo l'unificazione d'Italia", e il B. uno scrittore al quale "manca non solo la serietà spirituale, ma anche una vera e propria serietà artistica"; sì che agli specialisti di storia letteraria o linguistica rimase soltanto da interpretare la poesia comica del B. come letteratura "che risponde ad un atteggiamento fondamentale ed eterno dello spirito umano, e nel suo valore dialettico fonda la propria necessità storica" (M. Marti, F. B.,in Lett. italiana. I minori, II, Milano 1961, p. 1095).
Rispetto a queste direttive della critica accademica i contributi più validi vanno ancora ravvisati in quelli del Virgili, autore di una esauriente biografia, del Pirandello, interprete spregiudicato dei comico berniano nel saggio sull'Umorísmo, (in Saggi, Milano 1939, pp. 75 ss. e passim), e del Chiorboli, al quale si deve l'edizione critica di lettere e rime, che trovarono nel Macchia il più acuto dei lettori.
Edizioni: F. B., Poesie e prose,criticamente curate da E. Chiorboli, Genève-Firenze 1934; utilissima è ancora l'edizione di A. Virgili, Rime, poesie latine edite e inedite, Firenze 1885, mentre la guida criticamente più attendibile alla lettura dei versi in volgare rimane l'introduzione di G. Macchia a Le rime, Roma 1945. Per il rifacimento del poema boiardesco bisogna ancora ricorrere all'Orlando Innamorato di M. M. Boiardo rifatto da F. B., Milano 1806. Edizioni in compendio comparvero a cura del Virgili (Firenze 1892) e di S. Ferrari (Firenze 1911).
Bibl.: La biografia fondamentale è quella di A. Virgili, F. B., Firenze 1881. Contributi particolari alla biografia del B.: L. Renzetti, F. B. in Abruzzo, Teramo 1887; G. Pansa, Il poeta F. B. in Abruzzo. Nota storica, Lanciano 1892; L. Suttina, Nuovi doc. su F. B., in Giorn. stor.della lett. ital., XC(1927), pp. 87 ss.; E. Chioboli, F. B. a Bologna, Bologna 1935. Profili del B. in rapporto alla cultura contemporanea: A. Graf, Petrarchismo e antipetrarchismo, in Attraverso il Cinquecento, Torino 1888, pp. 51 ss.; A. Sorrentino, F. B., poeta della Scapigliatura del Rinascimento, Firenze 1934 (alla riproposta di una attribuzione al B. del Mogliazzo, già negata dal Virgili, replicò il Chiorboli in una nota aggiunta all'ediz. critica delle Poesie e Prose; dello stesso Chiorboli cfr. B. codici e studiosi, in Leonardo, VI[1936], p. 66). Sull'atteggiamento del B. di fronte alla Riforma cfr. D. Cantimori, Atteggiamenti della vita culturale italiana nel sec. XVI di fronte alla Riforma, in Riv. stor. ital., s. 5, I (1936), pp. 41 ss.; G. De Blasi, Problemi critici del Rinascimento, in La lett. italiana. Le correnti, I, Milano 1956, pp. 366 ss.. Contributi alle vicende editoriali di alcune opere: E. Chiorboli, Stampatori ignoti e ignote edizioni del Cinquecento, in La bibliofilia, XXXVI(1934), pp. 193 ss.; G. Sassi, Figure e figuri del Cinquecento, in Nuova riv. stor., XII(1928), pp. 580 s.; B. Weimberg, Une edition du Dialogo contro i poeti de B., in Bulletin du bibliophile, gennaio 1949, pp. 33 s. Giudizi critici sulla poesia berniana, vertenti soprattutto sulle Rime: C. Pariset, La vita e le opere di F. B., Livorno 1915; E. Allodoli, Il capitolo al Fracastoro, in Esempi di analisi letteraria, II, Torino 1926, pp. 211 s.; B. Croce, Poesia giocosa ossia la poesia tolta in gioco, rist. in Poeti e scrittori del pieno e del tardo Rinascimento, 1 ,Bari 1945, pp. 77 s.; A. Polvara, Il Bernia, in Convivium,VI(1934), pp. 514 ss.; V. Lugli, F. B., in La cultura, XIII(giugno 1934), pp. 63 ss.; J. Fucilla, "Parole identiche" in the sonnet and other verse form, in Pubbl. of the modern language association of America,V(giugno 1935), p. 376; G. Macchia, F. B. a quattro secoli dalla morte, in Pan, III(agosto 1935), pp. 560 ss., e poi, con importanti aggiunte, come introduz. all'ediz. delle Rime; R. Monti, Berni's capitoli, in Times literary Suppl., 22 ag. 1936; C. Sgroi, La personalità del B., in Prospettive letterarie, Bologna 1940, pp. 20 ss.; E. Allodoli, Il pensiero del B., in La Rinascita, VI(1943), pp. 3 ss.; E. H. Wilkins, Bernis bellezze, in Italica, XXVI (1949), pp. 146 s.; S. Ancidei, Dialetto e lingua nel B., in Il Caffè, n.s., V, 8 (1957), pp. 33 ss.; E. Loos, Die italienischen Dichtungen Francesco Berni's, in Romanistisches Jahrbuch, XI(1960), pp. 143 ss.; N. Jonard, L'esprit de B., in Revue des études italiennes, IX(1962-63), 1, pp. 100 ss. Sulle poesie latine: C. Pariset, Ancora le poesie latine di F. B., Crotone 1900; M. Paolillo, Le poesie latine di F. B., Lucera 1935. Sul Rifacimento: F.De Sanctis, Lezioni zurighesi, in Verso il realismo, Torino 1965, ad Indicem; G. Mazzoni, L'Orlando Innamorato rifatto dal B., in Tra librie carte. Studi letterari, Roma 1887, pp. 1 ss.; A. Nediani, Dal Boiardo al B., Catania 1905; P. Micheli, L'Orlando Innamorato rifatto dal B., in Saggi critici, Città di Castello 1906, pp. 145 ss.; L. Azzolina, Il mondo cavalleresco in Boiardo Ariosto, B., Palermo 1912.