BERNI, Francesco
Nacque, di famiglia fiorentina, a Lamporecchio nel 1497 o '98 e visse i primi vent'anni nel Casentino e a Firenze. Fu protetto dal cardinale Bernardo Dovizi da Bibbiena suo parente, il quale lo mise al servizio del proprio nipote, Angelo Dovizi, protonotario apostolico. Allontanatosi da questo, il Berni passò segretario di Matteo Giberti, vescovo di Verona e datario di Clemente VII, col quale si trovò nel 1527 al sacco di Roma e nel 1529 all'incoronazione di Carlo V in Bologna. Nel 1532 entrò al servizio del cardinale Ippolito de' Medici, dal quale ottenne, l'anno dopo, il canonicato che aveva già avuto il Poliziano. Abbandonò il cardinale, mentre si recava con lui a Nizza per il matrimonio di Caterina de' Medici. Morì il 26 maggio 1535, pare per veleno propinatogli dal cardinale Cibo, perché si sarebbe rifiutato di avvelenare il cardinale Giovanni Salviati. Triste fine d'uno spirito così gioviale e arguto.
Il Berni scrisse versi latini agili, snelli, talora arguti; uno scherzo scenico, La Catrina (Firenze 1567), di carattere rusticale e faceto, in linguaggio contadinesco, ultima imitazione della Nencia del Magnifico; un dialogo contro i Poeti (Ferrara 1527), cioè contro gli scombiccheratori di versi, e alcune poche Rime serie, inferiori ai versi latini. Ma la sua fama è particolarmente raccomandata alle Rime facete, sonetti, sonettesse e capitoli, e al rifacimento dell'Orlando Innamorato del Boiardo.
Rifacendo l'Innamorato il B. intese soddisfare il gusto della sua età, che abituata alle ottave limpide e schiette dell'Ariosto, giudicava il poema del Boiardo rozzo e impacciato, e desiderava di leggerlo in versi più liquidi e in lingua più viva e corretta, né sospettò di peccare mettendo le mani nell'arte altrui. Egli aveva già compiuto la sua fatica nel 1531; ma non la pubblicò, pare per timore di minacce da parte di Pietro Aretino che vi sospettava certe allusioni a lui malevole. Si dice anzi che lo stesso Aretino, dopo la morte dell'autore, avuto tra mano un manoscritto del poema, lo alterasse a suo piacere. Così fu pubblicato dai Giunta a Venezia nel 1541 e dal Calvo a Milano nel 1542. E si dice anche che l'Aretino inducesse il letterato Ludovico Domenichi a rifare a sua volta il poema del Boiardo, perché ne fosse oscurata la fama del suo avversario. Il Domenichi pubblicò il suo rifacimento nel 1545, quando per i tipi dei Giunta era riprodotto anche quello del Berni, in miglior forma, più corrispondente alle intenzioni del suo autore. Le due opere si divisero la fama per qualche tempo, finché quella del Berni prese il sopravvento per la più fresca toscanità della lingua e per la comica vena che vi circola dentro. Si deve però escludere che il Berni volesse in qualche modo parodiare il poema del Boiardo; mirò essenzialmente a migliorarne lo stile e a toscaneggiarne la lingua; introducendovi aggiunte, correzioni, mutamenti, quando gli parve opportuno, senza modificare il carattere generale del poema, ma riuscendo in effetto a togliergli proprio quello che era più suo, quel sapore primitivo, quella sua cara rudezza, quella sua fresca originalità, quelle movenze un po' impacciate in che consistono la sua grazia e il suo pregio. Non solo questo; ma non si peritò d'introdursi in persona prima nel tempio dell'arte boiardesca, intercalando proemî con cenni a cose e persone contemporanee e notizie autobiografiche con quel fare gioviale che è propriamente suo.
Nelle rime facete il Berni è il continuatore e l'erede della tradizione fiorentina segnata dal Pucci, dall'Orcagna, dal Burchiello, dal Pistoia, dal Franco. Nei sonetti si scaglia contro i proprî nemici, specialmente contro Pietro Aretino, e contro gli ecclesiastici dati alla gozzoviglia e alla crapula; con piacevolezza veramente spassosa si diverte a rappresentare gli ondeggiamenti, le debolezze, i difetti di papa Clemente; con fine senso d'arte mette in caricatura certi modi di poetare dei petrarchisti sfaccendati. Anche nei capitoli satireggia, a volte, le egloge, le epistole, le disperate dei poeti d'amore, o mettendo in burla quello che in esse è di sentimentale e sdolcinato, o brutalmente e oscenamente mostrando una disperazione d'amore piena di truculente minacce e di grottesche violenze. Ma quelli che più procacciarono fama al Berni sono i capitoli in cui canta o temi di poesia burlesca tradizionale, come quello del malo alloggio, o cose umili (i ghiozzi, le anguille, i cardi, la gelatina), o triste e nocive (la peste), o volgari (l'orinale), o in qualche modo insulse (la primiera, il debito). Trovate umoristiche, paragoni inaspettati, salaci motti, tono spesso studiatamente solenne per innalzare materia sì umile, detti sboccati e sottintesi osceni, trovano adeguata espressione in un linguaggio schietto, liquido e frizzante, che anche oggi dà aria di festa e assicura al poeta la riconoscenza dei buongustai. Arte modesta, è vero; ma non tale che non vi traspaia quello che è vivo e presente all'anima del Berni, il quale sembra così smemorato nella sua giovialità e allegrezza: l'intento cioè d'un'arte che fosse libera dalle scempiaggini dei petrarcheggianti, l'ideale d'una vita sana e onesta, in contrapposizione al secolo gaudente e corrotto.
Bibl.: Le rime e poesie latine e lettere edite e inedite ordinate e annotate per cura di Antonio Virgili, Firenze 1885; Antonio Virgili, F. B. con documenti inediti, Firenze 1881 (a p. 42 è dimostrato che il Mogliazzo non è del Berni); G. Mazzoni, L'Orlando innamorato rifatto da F. Berni, in Fra libri e carte, Roma 1887, pp. 1-35; P. Micheli, L'Orlando innamorato rifatto da F. B., in Saggi critici, Città di Castello 1906; P. Nediani, Dal Boiardo al B., Catania 1905; C. Testi, Il B. e i Berneschi, in Atti Accad. olimp. di Vicenza, IX (1923-24).