Berni, Francesco
Vissuto per lo più tra Firenze e Roma, B. (Lamporecchio 1497 o 1498 - Firenze 1535) svolse la sua attività di letterato e cortigiano negli anni dei papati medicei.
Testi di M. e di B. sono compresenti nel manoscritto Marciano It. IX 369, vergato da Marin Sanudo, che raccoglie tra l’altro quattro capitoli e un sonetto di B. e una sezione di «pasquinate» tra cui figura, adespoto, l’epigramma di M. “Sappi ch’io non son Argo quale io paio”. Le «pasquinate» – come si ricava dalla testimonianza coeva di Angelo Germanello – furono scritte in occasione dei festeggiamenti romani per il San Marco del 1526 (in risposta all’apparizione della statua di Pasquino travestito da Argo), cui potrebbero aver preso parte entrambi gli scrittori (B. risiedeva presso la corte pontificia, al servizio del datario Gian Matteo Giberti, e M. si trovava proprio in quei giorni a Roma).
Una testimonianza che accomuna i due autori è fornita da Matteo Bandello, che nella dedica al conte Bartolomeo Canossa della novella 55 della parte III del suo novelliere racconta di un convito, organizzato da Cesare Fregoso nell’estate del 1532 nei pressi di Verona: dopo che B., tra gli ospiti, ebbe recitato alcuni suoi componimenti, un altro convitato lesse ai presenti il cap. xxvii del I libro dei Discorsi, intorno al quale poi si discusse a lungo. A proposito dei Discorsi, va segnalato che nei vv. 61-75 del “Capitolo secondo della peste”, composto da B. nel 1532, l’esaltazione della funzione purificatrice della peste, che purga il mondo corrotto paragonato al corpo umano indisposto, può far pensare a Discorsi II v 16 («quando la astuzia e la malignità umana è venuta dove la può venire, conviene di necessità che il mondo si purghi per uno de’ tre modi»: ossia peste, fame o diluvio).
Più che un eccezionale recupero contenutistico, come questo che si è notato, paiono significativi i riscontri sul piano delle scelte formali. Proprio i Capitoli (→) machiavelliani possono essere indicati quale precedente del capitolo-epistola di Berni. Saltano agli occhi, inoltre, parallelismi lessicali ed espressivi che, se non formano prova di lettura, certo attestano la pertinenza di entrambi gli autori a una tradizione comica municipale e la loro attenzione per scrittori come Burchiello e Luigi Pulci. Di seguito alcuni esempi (si cita da Rime, a cura di S. Longhi, 2001):
«Ditegli che non sa mezze le messe» (“In lode dei cardi”, v. 54) da confrontare con Clizia I i; «Io gli farò veder [....] / Ch’e’ non sa se s’è morto o se si vive» (“Capitolo in lode delle pèsche”, vv. 47-48), cfr. il v. 83 del prologo della Mandragola; «Che t’han cacciato un porro dietro via» (“Nel tempo che fu fatto Papa Adriano”, v. 24), cfr. Mandragola II iii; «Io le farei di dreto un manichino» (“In lamentazion d’Amore”, v. 68), cfr. Clizia V ii; «Alle guagnel’» (“Capitolo primo alla sua innamorata”, v. 4) da mettere in parallelo con Mandragola II ii; «E potta [...] di San Piero» (“Alli Signori Abati”, v. 24) variante dell’esclamazione di Nicia «potta di San Puccio» in Mandragola II vi; «babbuasso» (“In lode d’Aristotele”, v. 86 e “Lettera a uno amico”, v. 65) da confrontare con Mandragola I ii, nella lezione del ms. Laurenziano Rediano; «Cacasangue» (“Alla corte del duca Alessandro a Pisa”, v. 2), cfr. l’imprecazione usata da Nicia (v. Mandragola II vi; «moccicone» (“Se mi vedesse la Segreteria”, v. 10) presente anche in Mandragola III xi; «non m’infracidate» (“Se mi vedesse la Segreteria”, v. 32) per cui si veda Mandragola II v. Passando al rifacimento dell’Orlando innamorato, da segnalare l’espressione «vendere vesciche» (II xi 21) cui ricorre Nicia in Mandragola II i.
Accanto al reimpiego del lessico comico, va ricordato anche un analogo gusto per i doppi sensi, le allusioni oscene derivanti dalla tradizione dei canti carnascialeschi; per quanto riguarda questi ultimi, si può notare che al canto carnascialesco dei “Romiti”, incentrato sul motivo del pronostico astrologico dell’inondazione, si ricollega il capitolo “Sopra il diluvio del Mugello” (composto da B. nel 1521), parodia delle cronache in rima su catastrofi naturali. Nell’ambito dei coevi timori popolari, possiamo ricordare anche l’irrisione della paura del supplizio turco dell’‘impalare’ (“Lettera a uno amico”, v. 75, per cui cfr. Mandragola III iii).
Non va dimenticato che entrambi si sono cimentati nell’epitaffio satirico, in forma di tetrastico di endecasillabi a rima chiusa: cfr. per M. “La notte che morì Piero Soderini” e per B. “Giace sepolto in questa oscura buca”, esempio del sottogenere dell’epitaffio canino. Da ultimo, va ricordato che M. e B. ci hanno lasciato due notevoli esempi di descrizione deformante e caricaturale, incentrata sul motivo del vituperium vetulae, ritratto femminile al negativo (cfr. per M. la lettera a Luigi Guicciardini dell’8 dic. 1509 e per B. il sonetto caudato “Io ho per cameriera mia l’Ancroia”).
Bibliografia: Poesie e prose, a cura di E. Chiòrboli, Genève-Firenze 1934; Rime burlesche, a cura di G. Barberi Squarotti, Milano 1969; Orlando innamorato di M.M. Boiardo, rifatto da F. Berni, scelta e commento di S. Ferrari, nuova presentazione di G. Nencioni, Firenze 1971; Rime, a cura di D. Romei, Milano 1985; Rime, a cura di S. Longhi, in Poeti del Cinquecento, t. 1, Poeti lirici, burleschi, satirici e didascalici, a cura di G. Gorni, M. Danzi, S. Longhi, Milano-Napoli 2001. Per gli studi critici si vedano: A. Virgili, Francesco Berni. Con documenti inediti, Firenze 1881; C. Mutini, Berni Francesco, in Dizionario biografico degli Italiani, Istituto della Enciclopedia Italiana, 9° vol., Roma 1967, ad vocem; E. Scarpa, Argo, Clemente VII e Pasquino in un epigramma del Machiavelli e in un’antologia del Sanudo, «Filologia e critica», 1976, 2, pp. 259-70; S. Carrai, Machiavelli e la tradizione dell’epitaffio satirico fra Quattro e Cinquecento, «Interpres», 1985-1986, 6, pp. 200-13; F. Bausi, Francesco Berni lettore di Machiavelli, «Interpres», 2001, 20, pp. 309-11.