CABRINI, Francesco
Nacque ad Alfianello (Brescia) tra il 1510 e il 1515. La madre era della nobile famiglia Sala, il padre apparteneva a famiglia forse originaria del Bergamasco che aveva dei possedimenti terrieri nella zona.
Le prime notizie della sua vita si hanno solo a partire dal 1539, che fu l'anno dell'incontro decisivo col predicatore vagante fra' Raffaele e con Francesco Santabona. Degli anni precedenti si sa, dalla testimonianza del p. Francesco Landino, che il C. si era recato giovanissimo a Brescia "per cagione di studio" e che qui, ordinato sacerdote, "diceva la messa et confessava nel Domo" (Guerrini, p. 99).
Restano misteriosi molti elementi di quanto avvenne nel 1539 e negli anni immediatamente successivi, sia per la scarsezza delle fonti, sia perché le testimonianze dei confratelli e le prime biografie hanno semplificato il tormentato itinerario del C. in mezzo a esperienze religiose intricate e complesse, presentandoci un lineare profilo di sacerdote postridentino. Comunque la svolta decisiva che si produsse allora nella vita del C. avvenne sotto l'influsso di una di quelle figure di "romiti" e predicatori vaganti allora tutt'altro che insolite: quello che, con la sua infiammata predicazione, commosse la città di Brescia nella quaresima del 1539, era un tale fra' Raffaele, sacerdote, il quale aveva rinunziato ai suoi benefici perché "tocco dal Spirito Santo" (ibid., p. 96), e dopo un pellegrinaggio in Terrasanta, era giunto da Venezia a Brescia. La sua predicazione, nella critica violenta di abusi e pratiche diffuse, non rinunciava ad attaccare la devozione popolare alle "reliquie over imagini de santi", esortando a una pietà incentrata su Cristo e alimentata dalla frequente comunione.
Nel modello offerto dal p. Raffaele il C. riconobbe il proprio ideale della vita sacerdotale; decise perciò, di entrare a far parte della comunità. raccoltasi già da qualche anno intorno al p. Raffaele e che, dopo essersi dispersa per l'ostilità incontrata a Roma, si era di nuovo riunita dopo i successi della predicazione bresciana. Così, con una cerimonia pubblica nella chiesa di S. Urbano, il C. divenne membro di quel gruppo che accoglieva.anche laici (come il notaio bresciano Giulio Comini) e si proponeva soltanto di "seguitar Iesu Christo crucifixo et nudo", predicando la rottura completa con ogni tipo di Ordine religioso tradizionale.
Vestito, come gli altri, alla maniera dei cappuccini, con una tonaca scura, scalzo e recando in mano un crocifisso, il C. si dispose all'attuazione dell'ideale francescano ed evangelico proposto da quel gruppo di "spirituali", disfacendosi dei propri beni e andando a vivere nei romitori delle montagne intorno a Brescia. Ma l'infiammata predicazione del p. Raffaele andò presto incontro ai sospetti e ai rigori che un po' dovunque si producevano contro figure e gruppi analoghi. Parallelamente alla sua si era svolta in Brescia la predicazione dei gesuiti favorita dal vicario generale della diocesi Annibale Grisoni, il quale probabilmente prestò orecchio alle loro osservazioni sui danni provocati dall'attività del religioso. Le accuse di eresia trovavano facilmente argomenti o pretesti in quella esperienza religiosa di un evangelismo estremo, "illuminato" e "spirituale", dalle cui inquiete vicende il C. non fu certo indenne. Mentre le prediche del p. Raffaele toccavano temi sempre più delicati (condannando, ad esempio, le spese che si facevano in onore e in suffragio dei defunti), sappiamo per certo dalla testimonianza del p. Santabona che il C. dovette resistere, tra il 1539 e il 1540, a "molte tentationi, maxime de fede" (ibid., p. 98); è un'indicazione che apre uno spiraglio sulla forza di sviluppo interno che quel programmatico ritorno alla pura e integrale predicazione del Vangelo poteva avere. Ma mentre il p. Raffaele, accusato di eresia, bruciava le tappe di un'esperienza singolare anche se non isolata - si pensi all'Ochino -, prima ricorrendo all'appoggio di "spirituali", ancora, sia pur per poco, potenti come Gregorio Cortese e Gaspare Contarini, e infine accostandosi senz'altro alla Riforma, nel C. prevaleva una diversa natura e un diverso tipo di atteggiamento.
Disperso il gruppo degli eremiti, si recò nel Milanese con un compagno di cui è rimasto ignoto il nome e che aveva su di lui un grande ascendente; i due rientrarono poi di nascosto in Brescia per riprender contatto con un gruppo di fedeli, ma furono catturati ed imprigionati nelle carceri del vescovado. Liberati per l'intervento di amici, il C. fu "fuori città, con l'obbligo di non uscire dalla diocesi, mentre il suo compagno, che apparteneva probabilmente al primitivo nucleo di p. Raffaele, ne fu bandito. Tornato ad Alfianello, conservò rapporti con una comunità bresciana di cui non si sa niente, se non il modo con cui il C. si rivolgeva a loro, chiamandoli "amatori del celeste et perpetuo amore" (lettera del 17 marzo 1545 in Zigliani, pp. 67 ss.).
Nelle lettere indirizzate al gruppo bresciano si trova la descrizione di un'esperienza religiosa improntata a un misticismo gioioso ed esaltato, insieme con le tracce residue delle convinzioni Maturate nel gruppo di p. Raffaele; tali, per esempio, l'idea della prossima fine del mondo e quella di possedere, per diretta ispirazione divina ("noi illuminati dallo Spirito di Dio"), la vera interpretazione del Vangelo. Tutto ciò non aveva però nel C. esiti ereticali, ché anzi egli insisteva, proprio in previsione dell'arrivo dell'Anticristo e della fine del mondo, sulla necessità di restare "saldi nella unità della Chiesa, fuori della quale non vi è salute alcuna, all'ubbidienza dei superiori nelle cose sante, evitando i "falsi profeti" (ibid.). Si comprende così come l'attività del C. si incanalasse e trovasse pieno appagamento non tanto nella predicazione estemporanea e ispirata, irregolare nei modi e sospetta per i contenuti, quanto piuttosto nella riforma dei costumi e della disciplina del clero.
Il prestigio che lo circondava ad Alfianello dove, secondo quanto egli stesso testimonia, sempre più numerosa era la folla che si raccoglieva ad ascoltarlo ed a confessarsi e comunicarsi frequentemente come egli voleva, fece sì che nel 1545 il vicario Gian Pietro Ferretti gli conferisse l'incarico di cappellano e confessore del monastero benedettino di S. Maria della Pace dove, tra le maglie di una disciplina estremamente rilassata, trovavano accoglienza in quello stesso periodo figure di avventurieri della fede come don Benedetto degli Asperti da Cremona, che vi diffondeva le idee della Riforma (Archivio di Stato di Venezia, S. Uffizio, b. 19, fasc. 30, ff. 68v., 76v). La vita del C. non fu facile in quell'ambiente; anzi, entrato in urto con un camerlengo veneziano, fu posto in carcere dal capitano della città e liberato solo per l'intervento del vescovo. Di fronte ai problemi e alle difficoltà del suo ufficio, si formò in lui la convinzione della necessità di preparare un nucleo di sacerdoti "riformati" e disposti a operare per un rinnovamento morale e disciplinare. Un certo Alberto giovane familiare del canonico Paolo Alenis, fu il primo a unirsi al C., che lo fece preparare agli ordini sacri dal Santabona, a Cisano; a lui tennero dietro il notaio Comini, e diversi altri, fino a formare una compagnia di preti riformati, detta anche, dal nome del monastero dove il C. li impiegava, compagnia della Pace. Se nel 1550 la comunità iniziata dal C. era già di fatto esistente, fu solo nel 1563, con la spinta riformatrice in senso tridentino del vescovo Bollani, che ne furono dettate le costituzioni e ne venne riconosciuta l'importanza nell'ambito della diocesi.
Il compito della vigilanza antiereticale, chiaramente precisato nelle costituzioni assieme al tratti ideali del "prete riformato", dà la misura di come, in accordo con le tendenze generali dell'epoca, l'ardente ma confusa ispirazione mistica del C. si fosse venuta precisando e incanalando nell'alveo della Riforma tridentina. Comunque, una volta formate le strutture della compagnia, il C. non sembra essersi particolarmente dedicato al governo di essa; le sue doti di suscitatore di energie e di direttore spirituale trovarono più adeguato impiego nella cura delle monache di S. Maria della Pace e delle orsoline di S. Angela Merici; queste ultime dovettero alla sua opera la composizione di gravi dissidi e un cospicuo incremento numerico. Non a caso l'ultima sua lettera conservataci, di poco anteriore alla data della morte, è indirizzata a una religiosa di nome Maddalena: in essa si ritrovano accennate le inquietudini e i tormenti, la "melanconia" e la "confusa turba" di pensieri da cui, pur nella tarda età, egli non cessava di sentirsi agitato e turbato.
Nel luglio 1570, scendendo in città dalla "casa del monte" in Val Tavareda, sede della compagnia, cadde da cavallo e si ferì. Ricoverato nella casa della famiglia Usupini, le sue condizioni si aggravarono sempre più, fino alla morte avvenuta il 23 agosto.
Fonti e Bibl.: G. Cortesii …Omnia…, Patavii 1774, pp. 143 s.; G. Zigliani, Racc. di memorie per la storia della Congregazione dei preti dell'Oratorio di S. Filippo Neri in Brescia,detti della Pace, I, Brescia 1879, passim;P. Guerrini, La Congregazione dei padri della Pace, Brescia 1933; A. Mancini, Sui margini della Riforma. Il Padre Raffaele Narbonese e le origini della Compagnia dei Poveri, in Boll. stor. lucchese, IX (1937), n. 3, pp. 1-12; A. Cistellini, Figure della Riforma pretridentina, Brescia 1948, pp. 125-147, 320-339, e passim;T. Ledochowska, Angèle Merici et la Compagnie de Ste-Ursule à la lumière des documents, II, Roma 1967, ad nomen;A. Cistellini, La vita religiosa nei secc. XV e XVI, in Storia di Brescia, II, Brescia 1963, pp. 457-459.