Francesco Calasso
Come riconosce Carlos Petit in un recente e prezioso contributo, grande è il merito di Francesco Calasso che lottò sempre – divenuto professore – «per fornire di senso e metodo propri la storiografia giuridica» (Petit 2012, p. 742). L’assunto di aver Calasso configurato, sia pur ‘a poco a poco’, un vero e proprio ‘codice’, inteso a ripudiare «il malefico influsso dell’empirica summa divisio di storici e giuristi» (Storicità del diritto, 1966, p. 23), non del tutto acriticamente posto, ben delinea l’incidenza esercitata dallo studioso che, pur muovendo i suoi primi passi entro la civitas forte e protetta dalle alte e possenti mura della Historische Rechtsschule, ne determinò il crollo (Conte 2009, p. 31) con ripetuti, acuti, ma armonici ‘squilli’: una straordinaria operazione, a ben vedere, che inaugurava una pagina radicalmente nuova non solo della storia del diritto (Paradisi 1973, p. 168), ma della cultura tout court.
Francesco Calasso nacque a Lecce il 19 luglio 1904 e, compiuti gli studi classici nella città natale, dai genitori, Vincenzo e Adele Maria Longo, fu indirizzato a Roma per gli studi giuridici. Nel 1927 si laureava con una tesi su La “Dottrina degli Statuti” per l’Italia meridionale avendo come relatore Francesco Brandileone, di cui l’anno successivo, vincendo il primo concorso per titoli ed esami, Calasso diveniva assistente. Nel 1929 conseguì la libera docenza e, l’anno successivo, con una borsa ministeriale si recò a Monaco dove ascoltò maestri del calibro di Konrad Beyerle e Karl Neumeyer. Al ritorno, nel 1930, ebbe per incarico l’insegnamento di storia del diritto italiano nella Libera Università di Urbino.Vinta nel 1932 la cattedra a Catania, ove nel 1933 pronunziò la sua prima prolusione-manifesto, già l’anno seguente era a Modena e quindi a Pisa, giungendo nel 1935 a Firenze, ove per un decennio tenne un memorabile magistero accademico e civile, e dove fu arrestato, nel 1944, per pochi giorni, all’indomani dell’uccisione di Giovanni Gentile (Fiorelli 1967-1968, p. 7). Nel 1945 fu chiamato a Roma dove, dal 1955 sino alla morte, fu preside della facoltà giuridica. Intanto, non mancavano le onorificenze, tra cui per tutte basterà rammentare la qualifica di socio corrispondente (1947) e poi nazionale (1958) dell’Accademia dei Lincei.
I contributi scientifici, se non quantitativamente, cospicui lo furono di certo nei contenuti, con un raggio che dal metodo si era volto alle fonti (tra esse primeggiavano quelle di diritto comune), al diritto pubblico, al pensiero giuridico, al contratto e al negozio, ma in una visione costantemente d’insieme, mai settoriale. Del resto, dopo aver diretto con Filippo Vassalli e Pietro De Francisci la «Rivista italiana per le scienze giuridiche», nel 1957 Calasso dava avvio agli «Annali di storia del diritto» e, dall’anno successivo, assumeva la guida dell’Enciclopedia del diritto.
Il vuoto creato d’improvviso dalla morte di Calasso (che si spense a Roma il 10 febbraio 1965) non poteva essere rapidamente colmato, ma il velo era ormai squarciato perché una nuova generazione di storici, allievi e non, medievisti e non, si sentisse vocata alla missione. Un omaggio non comune in tal senso fu il volume di scritti (1967) di studenti degli ultimi anni, non meno della silloge degli allievi apparsa nel 1978: l’insegnamento del maestro dava ormai i suoi frutti, in «ciascuno a modo proprio».
Scorrendo l’analitica bibliografia da Roberto Abbondanza premessa al nono volume degli «Annali di storia del diritto» (1965) dedicato agli scritti storico-giuridici di Calasso «di minore mole» non ricompresi in Introduzione al diritto comune (1951) e in Storicità del diritto (1966), come si verifica sempre con i profili scientifici delle personalità di spicco, ci si impegna a trovare connessioni che vadano oltre le opere nella loro specificità e la mera cadenza cronologica. Così è avvenuto anche per Calasso con pregevoli ricostruzioni, tra cui risultano particolarmente impegnate e commendevoli le recenti letture di Petit e di Ugo Petronio (2012). Eppure, qualcosa di una personalità per sua natura ‘libera’ e restia a classificazioni di sorta sembra ancora sfuggire.
Con il distacco di mezzo secolo dalla scomparsa dello studioso, quando ormai il suo esempio appare «lontano, chiuso a possibili confronti, irripetibile», le espressioni dell’«allievo più vecchio», ancora vibranti per lo sconcerto innanzi alla prematura perdita («il rimpianto dell’uomo e del suo vivente esempio si colora d’uno struggimento che non si saprebbe esprimere con parole», Fiorelli 1967-1968, p. 12), possono tuttavia offrire una convincente cifra di lettura degli scritti del maestro: lo stile. Insuscettibile, infatti, a ogni inquadramento – persino all’‘etichetta’ già ‘pronta’ di idealista, di crociano – lo stile di Calasso si realizzava nel fatto che l’autore fosse sempre «tutto in ogni sua pagina: nel passar da un tema a un altro, da un problema a un altro, non adattava sé stesso alle cose, sempre le cose a sé stesso» (p. 8). La fisionomia che ne scaturisce, pur non esente da instabilità e da sensibili variazioni di toni, anzitutto sul piano espositivo – né poteva essere sottaciuto dal Fiorelli allievo, ma nel contempo autorevole linguista –, proprio per ciò si palesa genuina, schietta, in ultima istanza «libera». Il ricorso a più registri segnala, a ben vedere, la grande varietà di corde toccate da Calasso, che in lui stesso trovavano composizione a unità, un’armonia che non poteva «accattare dall’esterno». E anzi, sul versante evocativo è proprio quella fragile euritmia a indurre un prorompente giudizio – «bellissimo» – in riferimento al saggio Metodo e poesia. Conversazione con Francesco Carnelutti (in Storicità del diritto, cit., pp. 125-40).
Questione di stile attiene, in effetti, anche e soprattutto, a opzione di metodo. Che Calasso facesse esplicita, ricorrente professione di superamento degli schemi positivistici ed evoluzionistici è incontroverso. Quanto già maturato negli anni della formazione realizzata con prestigiosi maestri – Pietro Bonfante, Pietro De Francisci, Brandileone, Gioacchino Scaduto, Cesare Vivante, Giuseppe Chiovenda, solo per fare qualche nome – e già affiorato alle prime prove viene espresso a pieni polmoni, con tenacia e con passione. Nel successivo trentennio, infatti, per contributi scientifici e iniziative editoriali, Calasso nella direzione prescelta si pone decisamente come un «grande organizzatore di cultura» e come un vero «trascinatore» (Petronio 2012, p. 752) a vasto raggio, e ciò ben oltre l’incidenza di fatto esercitata, con il tempo, su una vasta schiera di allievi, pur liberi di risolvere i molti problemi dal maestro suscitati «ciascuno a modo proprio».
L’operazione portata innanzi da Calasso venne a dispiegarsi, a ben vedere, quanto meno in una triplice direzione. Anzitutto, verso l’identità e la funzione stessa della disciplina storico-giuridica, che con lui assumeva fisionomia scientifica del tutto nuova, ben lungi dalla dimensione municipalistica ovvero nazionale, spaziando piuttosto entro un orizzonte europeo e riuscendo su questo versante a imporsi all’attenzione degli studiosi a livello sovranazionale. Le recensioni, le numerose voci enciclopediche, le capitali prolusioni dell’affermato maestro del diritto si propongono ormai come occasioni ricorrenti per riempire quella «pagina», «ancora da scrivere», ma di cui sembrava ormai «maturo il momento perché i popoli – emerge appieno la tensione etica delle sue parole – se la scrivano in comune, così come in comune la vissero»: a seguito di una revisione radicale della conoscenza storica si dava in effetti un contributo fondamentale al configurarsi della nuova coscienza giuridica europea. E appare quanto mai significativo in tal senso che il «problema storico» enunciato nel 1939 (Il problema storico del diritto comune, in Studi di storia e diritto in onore di Enrico Besta, 2° vol., 1939, pp. 459-513, poi in Introduzione al diritto comune, 1970, pp. 77-136), dopo la comune catarsi della catastrofe bellica, trovasse con la splendida prolusione romana del 19 gennaio 1946 (Il diritto comune come fatto spirituale, «Rivista italiana per le scienze giuridiche», n.s., 1948, 2, 1-4, pp. 315-52, poi in Introduzione, cit., pp. 137-80) la chiave di volta nella centralità dell’uomo, ora ritenuta tipica della rinascita medievale laddove, rievocando le parole del grande canonista Giovanni d’Andrea, «est homo armonia omnis creaturae: est autem armonia consonantia plurimorum causatuum» (in Introduzione, cit., p. 179).
Una seconda implicazione, parimenti rilevante, è quella che con Calasso viene a determinarsi nei confronti della storiografia generale: di essa la storia del diritto partecipa come scienza dello spirito, ma in piena autonomia, senza divenirne segmento. L’actio finium, ancor oggi spazio di ‘vibranti discussioni’ tra due agguerriti schieramenti, trovava con Calasso una breve, ma significativa messa a punto nella lucida critica del 1947 a L’opera storico-giuridica di Arrigo Solmi e il problema dell’oggetto e del metodo della storiografia del diritto italiano di Giampiero Bognetti («Rivista di storia del diritto italiano», 1947, pp. 171-99).
Il terzo, ma non certo ultimo profilo innovativo scaturito dall’operare di Calasso come studioso e autorevole docente è legato al rapporto della storia del diritto con le altre discipline nelle facoltà giuridiche. Da un lato, si definisce la netta distinzione della storia del diritto italiano, secondo la dizione ‘istituzionale’, dal diritto romano nel versante storico, basata non su una mera ratio cronologica, quanto piuttosto sull’intima ‘storicità’; dall’altro, si qualifica il rapporto con le discipline positive di cui la storia del diritto non viene più intesa come mero precedente (sul punto specifico, Colloquio con i giuristi, in Scritti giuridici in onore di Mario Cavalieri, 1960, pp. 133-45, ora in Storicità del diritto, cit., pp. 155-71). Testimonianza probante di una piena integrazione è la stessa direzione dell’Enciclopedia del diritto a decorrere dal 1958. Per Calasso che fa la sua ‘professione di fede’ sul «metodo» – «il metodo di una scienza non è che il problema di quella scienza… s e n z a r e s i d u i» (Storicità del diritto, cit., pp. 138-39) – la discriminante è capitale: si tratta in definitiva di tener ben distinto il «vero storico» dal «ricercatore erudito». Solo il primo delle testimonianze del passato, ma anche del presente, ne assume la complessiva organicità e vitalità:
Del resto, cos’è una ‘fonte storica’? È la testimonianza di un passato. Ora la testimonianza non è fine a se stessa, ma è coordinata a un fine di conoscenza, che ne misura il valore; né ha un valore in se stessa, cioè un valore obbiettivo, come empiricamente suol dirsi e si crede, bensì lo acquista nel momento e nella misura in cui nel nostro mondo interiore riprende anima e vita, dando il suo contributo al raggiungimento di quel fine attraverso una attività logica nostra, che accoglie e discerne, critica e rielabora. Ed è un valore molteplice e variabile, non univoco e fisso, poiché esso è intrinseco non della testimonianza in se stessa, ma del nostro spirito, che la considera e valuta in rapporto a un interesse, cioè ad un desiderio di conoscenza, variabile a sua volta come l’interferenza dei fattori, ponderabili ed imponderabili, che alimentano la vita del nostro mondo interiore nei suoi momenti diversi (Storia e sistema delle fonti del diritto comune, 1° vol., 1938, p. 15).
Parole limpide, divenute giustamente famose perché segnavano uno spartiacque nella cultura giuridica tout court: in essa intensa ed eticamente sentita era la dimensione progettuale. E giù i pilastri dell’edificio: I glossatori e la teoria della sovranità (1945), Gli ordinamenti giuridici del Rinascimento medievale (1947, 2 a ed. risistemata 1949), Introduzione al diritto comune (1951, dedicata «Ai miei studenti fiorentini»), Medio Evo del diritto, 1, Le fonti (1954) e Il negozio giuridico (2a ed. completa 1959). La struttura si mostra imponente, saldissima, duratura nella sua valenza ‘liberatoria’ (in tal senso Grossi 1995, pp. 32-33), al di là dei pur profondi interventi che vi si volessero arrecare. Motivi dominanti possono individuarsi, oltre che nell’attenzione peculiare per il diritto comune, come centro di gravità di un sistema, nel forte convincimento della centralità della scienza giuridica tra le fonti, nell’ammissibilità della convivenza di molteplici ordinamenti, nella compatibile ‘dialettica’ tra unità e universalità, nella peculiare valenza dell’aequitas in quanto «fondamentale armonia logica di tutto il diritto umano» (la fine distinzione tra aequitas rudis e constituta è in Medio Evo del diritto, cit., pp. 476-79).
Anche la strategia complessiva della straordinaria operazione culturale si coordina: l’impegno ancora nel 1947 riversato da Calasso nella «Rivista italiana per le scienze giuridiche», giunta alla terza serie, si converte in un proprio foglio, gli «Annali di storia del diritto» che, fin dagli esordi, si propongono senza aggettivazione di sorta e anzi, proprio in quanto «Rassegna internazionale», si avvalgono di un comitato scientifico «senza confine di patrie» (Alfonso García-Gallo, Alamiro de Ávila, Gabriel Le Bras, Stephan Kuttner) e vedono i contributi di studiosi «senza confine di patrie». Petit (2012) acutamente osserva che gli «Annali» costituivano «un potente strumento al servizio della scuola calassiana – in senso accademico ma anche istituzionale» (p. 743), nascendo la rivista espressamente «legata alla vita dell’Istituto di storia del diritto italiano» e all’annessa «Scuola di perfezionamento nella storia del diritto medievale e moderno» (F. Calasso, Nota di presentazione, «Annali di storia del diritto», 1957, p. 1, cit. in Petit 2012, p. 743), ma ciò ne segnava il limite. Scomparso Calasso, anche la sua rivista, nata con un esclusivo impianto storicistico, dopo neppure un decennio esauriva la sua forza propulsiva, anche se tra gli allievi in particolare Manlio Bellomo ne ha inteso – ‘Calasso dopo Calasso’ – far rivivere lo spirito nella «Rivista internazionale di diritto comune».
Uno spazio singolare è rivestito da una serie di appassionati interventi del maestro che, a dieci anni dalla scomparsa, nel 1975, il già citato Abbondanza e Maura Caprioli Piccialuti vollero opportunamente raccogliere in una preziosa silloge, Cronache politiche di uno storico (1944-1948). Nei settantacinque articoli recuperati e relativi a un periodo cruciale della storia del nostro Paese vi è tutta l’intensa partecipazione di chi, pienamente consapevole della drammaticità della congiuntura, ma non meno del valore assoluto della libertà riconquistata, si sente vocato all’impegno civile dell’informazione. Profondamente rispettoso del sentimento religioso, come ben indica la vicinanza a Giorgio La Pira, in una fase di forte scontro politico e sociale è, però, la devozione assoluta per Gaetano Salvemini e Piero Calamandrei che lo rende intransigibile assertore della laicità dello Stato, in quanto casa comune per il credente e per chi non crede. Del resto, in un frangente così ultimativo, non appariva più sufficiente l’impegno praticato dalla cattedra con piena dedizione nel culto della libertà, come pure indicò il singolare fermo presso le Murate protrattosi per venti giorni all’indomani dell’assassinio di Gentile (cfr. Fiorelli 1967-1968, p. 7). Bisognava far ‘sentire’ a tutti gli italiani che non potevano restare ‘inerti spettatori’, mentre erano «altri a decidere per loro» (così A.C. Jemolo, Francesco Calasso, il politico, «La rassegna pugliese», 1966, 4, pp. 342-49).
Da ciò la collaborazione a quotidiani e settimanali tra il settembre 1944, a pochi giorni dalla Liberazione, e l’aprile 1948, pochi giorni prima delle elezioni politiche (18 aprile 1948): una tormentata fase di preparazione all’esercizio civile della libertà. Così l’esordio: su «La Nazione del popolo» in data 16-17 settembre 1944 – nel numero successivo figura il discorso inaugurale di riapertura di Calamandrei, La coscienza civile della nuova Italia, tenuto il 15 settembre – appare Università, ove Calasso con espressioni di straordinaria lungimiranza ne rivendica con forza e immediatezza la ‘dignità’, «quell’autonomia che è condizione essenziale alla sua vita», senza direttive governative né politicizzazione alcuna: «l’Università lavora per la libertà, senza aggettivi e senza programmi» (Cronache politiche, cit, p. 6). L’epilogo, ancora per la libertà. Il 1° aprile 1948, a pochi giorni dalle elezioni, su «Il nuovo corriere» appare l’articolo Lo scandalo degli intellettuali, in cui l’uomo di cultura, al di là della personale posizione politica, formulando l’invito espresso a non rimanere «nell’inerte attesa che la salvezza venga da uomini e forze estranee», non si esime dal prendere una decisa posizione in difesa del «manifesto» elaborato da coloro che si erano riuniti in un’«Alleanza» per la rivendicazione dell’«autonomia della cultura».
Altri appassionati articoli Calasso pubblica sul «Corriere del mattino» di Firenze a far data dal 1° dicembre 1944, e dal 5 maggio 1945 sino al 15 novembre 1947 una sua più intensa presenza si realizza sul quindicinale fiorentino «Il Mondo». Colonne di straordinaria vivacità, e tuttavia lucide, ove emerge un Calasso a tutto tondo: deplora senza mezzi termini i frequenti ‘artificiosi’ mutamenti di governo; critica l’obbligatorietà per legge del voto («un ceffone sul viso degli italiani»); non si sente attratto da alcun politico in particolare, convinto che il popolo sia facilmente aduso a trascorrere dall’«antropomorfismo politico» alla «tragicomica venerazione di un duce»; si cimenta coraggiosamente e con solide argomentazioni sui temi spinosi della pace e del riconoscimento internazionale; si pronunzia senza mezzi termini per la Repubblica, ma con la stessa lucidità ne condanna ogni ‘protocollo cerimoniale’. Sono rispettivamente del 1° e del 15 giugno gli articoli La vigilia e La Repubblica vivrà, ove alla commossa attesa,
sia consentito a questa prosa di non registrare fatti e disporli in bell’ordine come su un tavolo di gabinetto scientifico per studiarli ‘in vitro’, ma di unirsi al tormento silenzioso che scuote ogni anima d’italiano, alla vigilia di un fatto che non sperimentò mai come popolo, di un avvenimento che sarà forse guardato dallo storico futuro come il vero atto di nascita di quel popolo alla vita politica unitaria (Cronache politiche, cit., p. 147),
riecheggia in «Questa volta, la Costituzione il popolo se la farà da sé» la serena fierezza di un’aspettativa ordinamentale d’alto profilo:
Il popolo italiano non sciupi la grande e singolare esperienza che sta vivendo in questi giorni: di un cambiamento della forma dello Stato, compiuto entro le dighe della legge e non attraverso le insanguinate rivolte di piazza. Chiunque tenti di spezzar queste dighe, o anche soltanto d’indebolirle, delinque contro la civiltà (Cronache politiche, cit., p. 152).
Ma tra i numerosi interventi, illuminante per comprendere la complessa personalità di chi si accingeva a scrivere di glossatori e di sovranità si palesa Prolegomeni alla Costituente del 6 luglio 1946:
ho educazione storicistica, ho dimestichezza coi concetti del mondo del diritto: ma l’una e l’altra sono pronto a buttarmi dietro le spalle, pur di guadagnarmi la fresca intuizione del grande rivolgimento che si snoda sotto i nostri occhi: la sostituzione di una palpitante realtà umana a un’astrattezza che a furia di dipanarsi è diventata una diavoleria. Ché appunto lo stato, quella formuletta dottrinaria che dopo la prima guerra mondiale è stata oggetto di esaltazioni parossistiche come ente supremo e invisibile che tutto può e a cui tutto dev’essere sacrificato, ha invece un sostrato umano che palpita e soffre: il popolo (Cronache politiche, cit., p. 159).
Ormai nella fervida mente di Calasso ‘urgevano’ in pari misura l’insegnamento di Santi Romano in tema di ordinamento circa il processo circolare tra organizzazione e norma (esplicitamente in Gli ordinamenti giuridici, cit., pp. 23-24), com’è stato di recente congruamente posto in evidenza da Paolo Grossi (1995, pp. 32 e segg.), e la ‘grande intuizione’ di Baldo degli Ubaldi: «eo ipso quod populus habet esse, habet per consequens regimen in suo esse». Perciò, e sono le ‘solenni’ espressioni di Calasso che nel commento del perugino rinviene le «parole tra le più grandi che il pensiero giuridico abbia mai scritte», le norme che il popolo si dà
non hanno bisogno dell’approvazione di un superior, “quia confirmata sunt ex proprio naturali iustitia”: perché il populus in quanto ordinamento giuridico ne ha bisogno per la sua vita, “sicut omne animal regitur a suo proprio spiritu et anima” (Gli ordinamenti giuridici, cit., p. 275).
La legislazione statutaria dell’Italia meridionale, 1° vol., Le basi storiche: le libertà cittadine dalla fondazione del regno all’epoca degli statuti, Roma 1929 (rist. anast. Bari 1971).
La ‘convenientia’: contributo alla storia del contratto in Italia durante l’alto Medio Evo, Bologna 1932 (poi rifuso in Il negozio giuridico, Milano 1957).
Storia e sistema delle fonti del diritto comune, 1° vol., Le origini, Milano 1938 (poi rifuso in Medio Evo del diritto, 1° vol., Le fonti, Milano 1954).
Lezioni di storia del diritto italiano. Le fonti del diritto (sec. V-XV), Milano 1946 (poi rifuso in Medio Evo del diritto, 1° vol., Le fonti, Milano 1954).
Lezioni di storia del diritto italiano. Gli ordinamenti giuridici del Rinascimento, Milano 1947 (poi rielaborato in Gli ordinamenti giuridici del rinascimento medievale, Milano 1949, 19532).
Introduzione al diritto comune, Milano 1951.
Medio Evo del diritto, 1° vol., Le fonti, Milano 1954.
Il negozio giuridico. Lezioni di storia del diritto italiano, Milano 1957, 19592, rist. 1967 (con una lezione inedita).
Scritti di Francesco Calasso, «Annali di storia del diritto», 1965, 9.
Storicità del diritto, con premessa di P. Fiorelli, Milano 1966.
Cronache politiche di uno storico (1944-1948), a cura di R. Abbondanza, M. Caprioli Piccialuti, Firenze 1975.
L’unità giuridica dell’Europa, Soveria Mannelli 1985.
A. Checchini, Scritti giuridici e storico-giuridici, 1° vol., Problemi di metodologia e di teoria generale del diritto, storia delle fonti, storia del diritto pubblico, Padova 1958.
G. Astuti, Francesco Calasso, «Annali di storia del diritto», 1965, 9, pp. VII-XVIII.
W. Cesarini Sforza, Francesco Calasso, «Rivista internazionale di filosofia del diritto», 1965, 2, pp. 356-57.
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E. Cortese, Il diritto nella storia medievale, 2 voll., Roma 1995-1997.
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Su Vincenzo Arangio-Ruiz:
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Per la bibliografia, si veda Synteleia Vincenzo Arangio-Ruiz, a cura di A. Guarino, L. Labruna, 1° vol., Napoli 1964, pp. XIX-XXVII.
Su Giuseppe Capograssi:
V. Frosini, Capograssi Giuseppe, in Dizionario biografico degli Italiani, Istituto della Enciclopedia Italiana, 18° vol., Roma 1975, ad vocem.
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M.G. Esposito, Diritto e vita. La lezione di Capograssi, Milano 1997.
Esperienza e verità. Giuseppe Capograssi: un maestro oltre il suo tempo, a cura di A. Delogu, A.M. Morace, Bologna 2009.
V. Lattanzi, Giuseppe Capograssi. I sentieri dell’uomo comune, Chieti 2011.
Nel contesto culturale in cui si trovò a operare Calasso si stagliano altre autorevoli figure di spicco tra cui è indispensabile ricordare Vincenzo Arangio-Ruiz, Giuseppe Capograssi, Bruno Paradisi e Paolo Ungari.
In particolare, Vincenzo Arangio-Ruiz (Napoli 1884-Roma 1964), figlio di Clementina Cavicchia e di Gaetano, docente di diritto costituzionale all’Università di Modena, in quella stessa università si iscrisse alla facoltà di Giurisprudenza, dove nel 1904 si laureò con Carlo Fadda. Nel 1907 ottenne la libera docenza a Napoli, nel 1909 fu straordinario a Perugia e l’anno successivo a Cagliari. Chiamato a Messina nel 1912, nel 1914 conseguì l’ordinariato; nel 1918 fu a Modena, nel 1921 approdò a Napoli, da dove si allontanò dal 1929 al 1940 per insegnare diritto romano all’Università del Cairo (vi sarebbe ritornato dal 1947 al 1954) e dove, ripresa la cattedra romanistica dopo la Liberazione, dal 1943 al 1945 fu preside di facoltà. Nel 1947 fu, infine, chiamato a insegnare istituzioni di diritto romano all’Università di Roma, ove nel 1959 venne nominato professore emerito. Linceo, dal 1952 fu presidente dell’Accademia, e dal 1961 presidente della neonata Società italiana di storia del diritto. Firmatario del Manifesto degli intellettuali antifascisti e legato a Benedetto Croce, fu ministro di Grazia e Giustizia nel governo Badoglio (1944), della Pubblica Istruzione nel secondo ministero Bonomi (1944-45) e nel ministero Parri (1945). Personalità di assoluto spicco nella giusantichistica italiana, ebbe piena padronanza del metodo filologico che gli consentiva di coniugare la dimensione giuridica con tutte le altre esperienze dell’antichità classica, mediante una sensibilità storica cauta nel far ricorso a categorie moderne per ricostruire il sistema giuridico romano. Oltre i due manuali di Istituzioni di diritto romano e di Storia del diritto romano, esemplari per chiarezza e funzionalità didattica, la produzione saggistica di Arangio-Ruiz si collocò su tutto l’arco della giusantichistica classica, con una particolare attenzione alle Tabulae Herculanenses e al Gaio ‘veronese’.
Giuseppe Capograssi (Sulmona 1889-Roma 1956), nato da nobile famiglia, si formò invece a Roma ove si laureò nel 1911 con una tesi su Lo Stato e la storia, in cui emergevano le problematiche dominanti la sua futura attività di studioso: le interrelazioni fra individuo, società e Stato. Insegnò a Sassari, Macerata – ove fu anche rettore –, Padova, Roma, Napoli per un decennio e definitivamente a Roma. Tra i fondatori dell’Unione giuristi cattolici italiani, di cui fu primo presidente, collaborò alla redazione del Codice di Camaldoli. Socio corrispondente dei Lincei, per nomina presidenziale il 15 dicembre 1955 giurò come giudice della Corte costituzionale, ma morì il giorno stesso della seduta inaugurale. Il suo pensiero, trovando ispirazione in Maurice Blondel e Antonio Rosmini-Serbati, si ricollega al ‘personalismo cattolico’ di Jacques Maritain e di Emmanuel Mounier. La sua ‘dottrina dell’esperienza giuridica’, avendo come punto focale la ‘persona’ e insieme la centralità della volontà del soggetto agente, come s’imprime nell’azione stessa, superando il campo della tecnica giuridica, si rivolge alla vera fonte di espressione giuridica e di vita, in una visione organica e totale del reale, ossia a Dio. Con straordinaria chiarezza della parola e profondità di analisi, la filosofia di Capograssi si dispiega in opere ormai classiche: Saggio sullo Stato (1918), Analisi dell’esperienza comune (1930), Studi sull’esperienza giuridica (1932), Il problema della scienza del diritto (1937), Introduzione alla vita etica (1953). Postumi i Pensieri a Giulia (3 voll., 1978-1981), scritti su foglietti dati alla futura moglie, Giulia Ravaglia.
Anche la formazione di Bruno Paradisi (Roma 1909-ivi 2000) avvenne nella capitale dove si laureò in giurisprudenza sotto la guida di Carlo Calisse, insegnando poi storia del diritto italiano nelle università di Bari, Siena, Napoli e Roma. Promotore e fondatore nel 1961 della Società italiana di storia del diritto, ne fu segretario e presidente. Accademico dei Lincei, diresse l’Enciclopedia giuridica edita dall’Istituto della Enciclopedia Italiana. Con una ben marcata connotazione metodologica, seguendo la lezione dello storicismo neoidealista, approfondì la dottrina e gli istituti giuridici posti in relazione con il contesto politico e sociale. Tre sono i preminenti campi scientifici dominati da Paradisi: istituti giuridici e diritto internazionale (Massaricium ius, 1937; Storia del diritto internazionale nel Medio Evo, 1940; Il problema storico del diritto internazionale, 1944; Civitas maxima, 1973), fonti giuridiche medievali (Storia del diritto italiano, 6 voll., 1951-1969), questioni metodologiche e analisi dei pregressi indirizzi storiografici (saggi raccolti in Apologia della storia giuridica, 1973).
Ancora all’Università di Roma si laureò, nel 1957, in giurisprudenza Paolo Ungari (Milano 1933-Roma 1999), poi ordinario di storia del diritto italiano presso la facoltà di Scienze politiche della LUISS Guido Carli di Roma, di cui fu anche preside dal 1986 al 1992, direttore dell’Istituto di studi storico-politici, componente della Commissione nazionale italiana per l’Unesco e presidente della Commissione per i diritti umani della Presidenza del Consiglio durante il governo Craxi. Le cause del drammatico decesso di Ungari a seguito della caduta nella tromba dell’ascensore in un palazzo di Roma, pur dopo l’archiviazione della Procura della Repubblica, restano ancora non del tutto chiare. Tra le sue opere da ricordare: Alfredo Rocco e l’ideologia giuridica del fascismo (1963), Il diritto di famiglia in Italia dalle costituzioni giacobine al Codice civile del 1942 (1967, nuova ed. Storia del diritto di famiglia in Italia, 1796-1975, a cura di F. Sofia, 2002), L’età del Codice civile (1967), Studi sulla storia della magistratura, 1848-1968 (1968), Per la storia dell’idea di codice (1972).