CAPECELATRO, Francesco
Nacque a Nevano (Aversa) feudo appartenente alla sua famiglia, ascritta a Napoli al seggio di Capuana, il 17 ott. 1595 da Annibale e da Lucrezia Pignone, figlia del marchese d'Oriolo. Circa gli studi e la formazione del C. non si conosce nulla di preciso; certamente essi dovettero essere indirizzati dallo zio Orazio, che fu suo tutore. I debiti lasciati dal padre resero necessaria la vendita del feudo di Nevano, sicché il C. si trovò privato della dignità feudale per rimanere semplice gentiluomo. In questa veste egli fu per diversi anni uno dei principali esponenti dell'opposizione aristocratica ai viceré conte di Monterey e duca di Medina de Las Torres, secondo quanto egli stesso negli Annali fa intendere.
Questa sua posizione si espresse chiaramente in occasione del Parlamento del 1636 quando, insieme con i deputati delle "piazze" di Caputana e di Nido, le più legate delle sei "piazze" napoletane alla tradizione aristocratica della città, si oppose ad alcune richieste del viceré. Nello stesso anno e in quello successivo, avendo il Monterey fatto riunire le "piazze" cittadine affinché votassero nuovi donativi, il C. fece in modo che quella di Capuana, insieme con quella di Nido, esprimesse voto contrario.
Queste manovre, però, non solo non ebbero successo, per la maggiore condiscendenza delle altre "piazze" ai voleri del viceré, ma addirittura provocarono la punizione del C., che il Monterey allontanò da Napoli, confinandolo a Lecce. Il castigo fu, poi, parzialmente revocato per le istanze avanzate dalla città in favore suo e degli altri nobili che avevano fatto resistenza alle richieste del viceré. Partito il Monterey da Napoli nel 1637, i rapporti del C. continuarono ad essere tesi anche con il successore duca di Medina de Las Torres. Svariate richieste del duca, che sembravano minacciare le tradizionali autonomie cittadine, incontrarono l'opposizione della città, che il C. sembra non aver mancato di fomentare. Uguale risposta ebbe la richiesta di donativo avanzata nel 1638. La tensione in atto tra il viceré e il C. si andò ancora aggravando, secondo quanto afferma il C. stesso, "per i mali uffici fattigli dai suoi malevoli in diverse occasioni degli affari del comune della città" (Annali, p. 124), in realtà per le precise prese di posizione del C. nei confronti di ogni atto del viceré che sembrasse oltrepassare le sue competenze e minacciare un'accentuazione dell'assolutismo regio. Questo comportamento portò nuovamente il C. sul punto di venire esiliato e imprigionato a Otranto. Dopo essere rimasto molti mesi nel convento di S. Giovanni di Dio per sfuggire alla notificazione dell'ordine, nel 1639 giunse ad un accordo con il viceré per cui sarebbe stato imprigionato invece che ad Otranto in Castel nuovo di Napoli. La punizione dovette avere essenzialmente carattere formale poiché ben presto gli fu concesso di tornare a casa dove fu costretto a una sorta di arresti domiciliari. In quello stesso anno fu designato eletto dal seggio di Capuana. Il duca di Medina, che in un primo tempo aveva manifestato l'intenzione di non fargli esercitare l'ufficio, avendo considerato l'elezione del C. come un'offesa, si astenne, poi, dal mettere in pratica il suo proposito in seguito all'intervento del duca di Caivano e di altri ministri. Da quel momento i rapporti tra il viceré ed il C. cambiarono. Secondo quanto afferma il C. stesso, da allora egli divenne "confidentissimo ed oltremodo caro" al Medina e per opera sua ricevette "l'abito di S. Gennaro ed altre segnalate mercedi ed onori" (Annali, p. 143).
Il mutamento di entrambi gli uomini, che ha fatto parlare, a proposito del C., di poca costanza e di opportunismo (Volpicella, p. 124), va interpretato alla luce della situazione politica del tempo e del riflesso di essa sui rapporti tra il governo vicereale e i vari ceti sociali. Per le esigenze della politica madrilena, nella fase più acuta della guerra dei Trent'anni, i viceré di Napoli dovettero ricorrere ai più vari espedienti per realizzare le forti somme da inviare in Spagna e, tra questi, innanzitutto ai prestiti di danaro della nobiltà, oltre che dell'alta borghesia mercantile e finanziaria. Da ciò una progressiva dipendenza del governo vicereale dalla pressione politica ed economica nobiliare, che condurrà, poi, per un certo periodo di tempo, all'indebolimento statale e al più largo dominio dell'aristocrazia nell'apparato politico-amministrativo. Il duca di Medina svolse una politica più incline di quella del suo predecessore conte di Monterey a fronteggiare ed assimilare in qualche modo l'offensiva aristocratica ed è in questa prospettiva e in quella dell'indirizzo più decisamente assolutistico seguito dal viceré di Napoli successivamente ai moti del 1647-'48che va inteso l'apparente mutamento politico del C., che non è passaggio da un orientamento filoaristocratico ad un orientamento filoassolutistico, ma piuttosto espressione di un necessario adattamento ad una complessa situazione politica e sociale. Evidentemente tutto ciò non poteva mancare di esprimersi nella produzione storiografica del C. e dà ragione del diverso atteggiamento, pur nell'immutato ambito della tradizione aristocratica, assunto negli scritti anteriori ai moti del 1647-'48 (Historia della città e del Regno di Napoli; Origini della città e delle famiglie nobili del Regno; Annali)ed in quelli successivi (Diario delle cose avvenute nel Reame di Napoli negli anni 1647-1650; Istoria dell'assedio posto ad Orbetello dal principe Tommaso di Savoia).
Non molte notizie si hanno della vita del C. negli anni 1640-1647. In quel periodo, dopo essere stato insignito da Filippo IV dell'Ordine di S. Giacomo, fu nominato maestro di campo. Fu anche governatore della Casa santa dell'Annunziata; e in questa veste ebbe, nel 1644, un violento scontro con il cardinale Ascanio Filomarino, arcivescovo di Napoli, che pretendeva di ingerirsi nel governo della Casa.
Durante i moti popolari del 1647 il C. fu inviato dal viceré duca d'Arcos a Somma perché la tenesse sottomessa. Di lì fuggì, dopo essere stato fatto prigioniero, per raggiungere Aversa dove si unì all'esercito dei baroni. Il suo lealismo nei confronti della causa regia gli procurò la stima e i favori oltre che dell'Arcos anche del successore di lui conte d'Oñate. Per i meriti che gli venivano riconosciuti, nel 1648 la "piazza" di Capuana gli conferì la carica di fiscale della Revisione, dignità a vita e di grandissimo prestigio. Nello stesso anno il conte d'Oñate inviò il C. in Calabria Citra in qualità di governatore.
La provincia era ancora in tumulto e il C. si applicò a ridurla all'obbedienza, compito non facile, ma che egli portò a termine facendo ricorso anche ai mezzi più drastici. Rimase governatore di Calabria Citra per tre anni e tre mesi, malgrado il mandato scadesse dopo due anni, per volontà del conte d'Oñate che era rimasto molto soddisfatto del suo procedere, avendo il C. "con somma autorità governato in Cosenza, con aver avuto fra le altre prerogative ch'egli ebbe, non solo il solito modum belli fuori della città come è in uso, ma parimente dentro la città e tribunale stesso dell'audienza, in cui potea procedere in tutte le cause criminali che a lui fossero parse convenevoli col voto di un solo auditore ch'egli eletto si avesse: cosa a molti poco conceduta" (Diario, p. 527).
Nominato, quindi, governatore di Terra di Bari, esercitò con fermezza anche questa carica. In quella provincia spadroneggiavano ormai da molto tempo i conti di Conversano e i duchi d'Andria. Il C., "questa cosa sofferir non volendo", fece in modo che l'Oñate ne chiamasse a Napoli i principali esponenti (ibid., p. 528).Terminato dopo due anni il governatorato di Terra di Bari, nel 1655 il C. fu richiamato a Napoli dal viceré conte di Castrillo. A quest'ultimo, secondo quanto afferma lo stesso C., "dalle persone potenti di ambedue le province era stato falsamente significato... che egli aveva malvagiamente proceduto nel governo di esse" (ibid., p. 530). Una volta chiarito con il viceré che le accuse mossegli erano soltanto calunnie, il C., sempre secondo le sue affermazioni, fu impegnato in molti e importanti "affari per il servigio del re" (ibid., p. 530). Venuto a Napoli nel 1659 il nuovo vicerè, conte di Peñaranda, fu da questo proposto a Madrid come preside di una delle province del Regno ed ebbe la nomina per quella di Principato Ultra, che governò negli anni 1665-66.
Il C. ritornò alla dignità feudale acquistando la terra di Lucito, in contado di Molise, nel territorio dell'odierna Gambatesa, sulla quale ottenne il titolo di marchese, e gli annessi feudi rustici di Gambatesa, Malamerenda e Sant'Angelo in Altissimo. La sua agiatezza sembra non essere stata solo il frutto degli uffici ricoperti ma anche dei "parentadi che volle conchiudere" (Volpicella, p. 120).
Intorno al 1630 sposò Isabella Maria di Palo, figlia di Lelio, signore di Garagusi, che gli portò una grossa dote. Da questo matrimonio nacquero diversi figli, dei quali sopravvivevano nel 1647 Francesca e Giulio. Quest'ultimo morì durante la peste del 1656. Rimasto vedovo, il C. sposò in seconde nozze Luisa Capano, appartenente ad una nobile famiglia del seggio di Capuana. Avendo perso anche la seconda moglie, dalla quale non aveva avuto eredi, sposò Beatrice Capecelatro, sua lontana parente, da cui ebbe sei figli.
Della sua morte si hanno notizie controverse. La più probabile è che essa sia avvenuta il 27 maggio 1670, mentre rimangono ignoti il luogo di essa e della sepoltura.
Al C. si devono diverse opere sulla storia del Regno e della città di Napoli, che non sono state finora sottoposte ad un approfondito esame critico. Nel 1640 a Napoli fu pubblicata la Historia della città e del Regno di Napoli in cui era trattato il periodo compreso tra il regno di Ruggero II e la morte di Costanza d'Altavilla. Era questa solamente una parte dell'opera, che giungeva sino alla morte di Carlo d'Angiò. La pubblicazione completa si ebbe solo nel corso del secolo XVIII ad opera del Gravier. Dal proemio dell'Historia emerge chiaramente l'intenzione del C. di opporre la sua opera a quelle del Collenuccio e del Summonte. Lo spunto polemico trova la sua ragione nella diversa concezione politica che animava il C. rispetto ai suoi predecessori, soprattutto al Summonte, principale esponente della storiografia di tendenza popolare della seconda metà del secolo XVI.
La Historia del Summonte aveva espresso unn tendenza politica sostanzialmente antiaristocratica e indirizzata ad un ampliamento delle basi politico-sociali della monarchia; e in funzione di ciò aveva privilegiato e sottolineato tradizioni politiche popolari, a cui aveva attribuito una non sempre fondata antichità e di cui aveva, comunque, ampliato il significato ai fini del giudizio dato sul regime napoletano alla fine del '500. In tal modo, il Summonte concludeva respingendo le pretese della nobiltà di svolgere da sola un ruolo politico rappresentativo di tutta la realtà sociale napoletana, nella prospettiva di un rafforzamento del potere regio attraverso l'alleanza con la borghesia cittadina: tendenza, questa, che sarà ripresa da F. Imperato nel Discorso politico intorno al Regimento delle Piazze e della Città di Napoli (Napoli 1604). L'opera del C. si colloca, invece, nell'ambito della storiografia napoletana di tradizione aristocratica, espressione dello spirito particolaristico della nobiltà e della sua più o meno manifesta ostilità verso le tendenze assolutistiche della monarchia spagnola. Ragguardevole esponente di questa tradizione era stato, prima del C., Angelo di Costanzo. La manifesta propensione nell'opera di quest'ultimo (Istoria del Regno di Napoli, Napoli 1581), come in quella successiva del C., per gli Angioini esprime appunto una presa di posizione politica sostanzialmente negativa nei confronti della monarchia spagnola che aveva ripreso, con maggior vigore e ben altre possibilità, gli sforzi già iniziati dagli Aragonesi di estendere il potere statale nel Mezzogiorno, pur senza infrangere la tradizione autonomistica, base essenziale dell'equilibrio tra corona e ceti dirigenti locali. Viceversa la simpatia manifestata per gli Angioini adombrava una linea politica di favore nei confronti della aristocrazia tradizionale, una linea, cioè, quale quella che gli Angioini avevano perseguito per le difficoltà in cui si erano venuti a trovare dopo le vicende del Vespro. E alle stesse ragioni è dovuto l'atteggiamento di decisa ostilità assunto dal C. nei confronti dei sovrani normanni e svevi che, pur se in una diversa condizione storica, avevano adottato una linea di tendenziale affermazione del potere regio, quale sarebbe poi stata ripresa dagli Aragonesi e, soprattutto, dalla dinastia spagnola.
È stato rilevato che la Historia del C. potrebbe intitolarsi "Vite de' re di Napoli" (Soria, p. 140) ed effettivamente il posto centrale occupato nell'opera dalle figure dei regnanti lo giustificherebbe. Questa prospettiva è, del resto, il frutto dell'atteggiamento politico delle forze aristocratiche che tendevano a centrare la storia napoletana sul rapporto tra monarchia e feudalità, eliminando dalla trattazione le altre istituzioni e forze sociali.
Rientra in questa prospettiva un'altra operetta: le Origini della città e delle famiglie nobili del Regno (Napoli 1769), che si lega alla Historia poiché tratta, benché brevemente, del periodo che va dalla fondazione della città all'avvento dei Normanni. Le principali opere del C. sono, però, quelle rimaste a lungo inedite e pubblicate negli anni intorno alla metà del XIX secolo: gli Annali della città di Napoli (Napoli 1849) e il Diario delle cose avvenute nel Reame di Napoli negli anni 1647-1650 (Napoli 1850-1854).
Gli Annali trattano degli avvenimenti napoletani dal 1631 al 1640, anni in cui furono viceré il Monterey e il Medina de Las Torres. Emerge chiaramente da questo scritto la posizione politica del Capecelatro. Egli mira, infatti, a dimostrare che almeno una parte della nobiltà napoletana, in particolar modo quella cui egli apparteneva e che era anche la più conservatrice e la più gelosa delle proprie prerogative, si preoccupava del bene pubblico opponendosi alla vessatoria fiscalità ed al malgoverno dei viceré, sui quali implicitamente viene fatta ricadere, almeno in parte, la colpa della rivolta del 1647-48. Di grande importanza è il Diario. Non solo, infatti, il C. partecipò a molti degli avvenimenti narrati ma, essendo stato governatore di Calabria Citra dal 1648, poté dar conto anche di quanto era accaduto nella provincia. Altro motivo per cui il Diario assume notevole rilievo è il legame del C. con la nobiltà napoletana e con i principali personaggi del tempo. Fra i contemporanei che scrissero dei moti del 1647-'48 egli fu l'unico a trovarsi in questa condizione. Il suo Diario è, ancora una volta, espressione di una precisa posizione politica e si colloca nell'ambito del dibattito storico-politico che si sviluppò all'indomani dei moti e che ebbe al suo centro la polemica tra popolari ed aristocratici. I motivi sostenuti dal C., come dagli altri scrittori di parte aristocratica, sono essenzialmente tre: la tradizionale difesa dell'autonomia del Regno; l'identificazione della causa principale della rivolta nella natura fondamentalmente sovversiva della plebe; il grande rilievo dato al contributo militare e personale offerto dal baronaggio per la vittoria della causa regia. Il C. è, tra gli scrittori aristocratici, quello che lascia maggiore spazio all'azione svolta dalla nobiltà feudale nelle province. Allargando a queste ultime il quadro della rivolta, veniva ad assumere particolare rilievo l'aiuto prestato dall'aristocrazia per la repressione dei moti. Essa si presentava, in tal modo, come l'unica forza in grado di opporsi, nelle province, ai ribelli, guadagnando così un titolo politico di estrema importanza, mentre la concreta dimostrazione di forza data in occasione dei moti si presentava come monito per la corona, per il popolo civile e per la nobiltà di "piazza" della capitale. Va rilevato che l'attenzione rivolta dal C. alle province non solo distingue il suo Diario dalle altre cronache o ricostruzioni contemporanee dei fatti del 1647-'48, che privilegiavano la città di Napoli, ma costituisce in un certo senso un'anticipazione della linea interpretativa seguita nei più recenti studi sull'argomento, che hanno messo in luce l'importanza del movimento di rivolta nelle province.
Va, infine, ricordata l'Istoria dell'assedio posto ad Orbetello dal principe Tommaso di Savoia, inedita fino al 1857, quando fu pubblicata a cura di A. Granito a Napoli. Alla narrazione di questo avvenimento, che aveva avuto luogo fuori del Regno di Napoli e del quale egli non era stato testimone, il C. dovette essere indotto dal legame che, esso ebbe con la situazione politica napoletana che ben presto sarebbe sfociata nei moti masanielliani.
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