CAPPELLO, Francesco
Patrizio veneziano, nacque probabilmente intorno al 1460 da Cristoforo di Francesco e da Regina di Lorenzo Loredan. Ben poco sappiamo della sua giovinezza e degli inizi della carriera politica che lo condusse nell'ultimo intenso ventennio della sua vita a ricoprire importanti uffici di governo e numerosi incarichi diplomatici. Il Sanuto (XVI, col. 154) ricorda la "molta familiarità", sin dalla gioventù, con Bernardo Massimo detto umanisticamente Democrito Romano; questa amicizia e l'educazione letteraria che il C. fece impartire ai figli, in specie Bernardo, il poeta caro al Bembo, e Carlo, allievo del Musuro, possono essere indizi se non di profonda cultura, almeno di vivo interessee di non occasionale frequentazione dei circoli umanistici veneziani. Del resto il Senato soleva scegliere i propri ambasciatori tra patrizi maturatisi nell'esperienza dei lunghi viaggi e soggiorni commerciali all'estero, o, in mancanza di questa, dotati di superiore cultura. È presumibile che questa qualità potesse quanto meno vantare il C. quando il 7 febbr. 1492 fu eletto ambasciatore straordinario in Francia assieme a Zaccaria Contarini.
Il motivo ufficiale della legazione era quello di porgere i rallegramenti della Repubblica a Carlo VIII per il suo matrimonio con Anna di Bretagna e il conseguente acquisto di quel ducato, ma in realtà il Senato mirava a conservare i buoni rapporti con la Francia e sondare le intenzioni del re, che già andava preparando diplomaticamente l'impresa di Napoli.
Partiti il 7 maggio, i due oratori sostarono alle corti sforzesca e sabauda e giunsero il 26 giugno a Parigi, dove furono ricevuti da Carlo VIII in solenne udienza e investiti della dignità cavalleresca, benché - come afferma il collega nella sua relazione - il C. già avesse ricevuto l'Ordine della milizia dall'imperatore: particolare che lascia supporre una sua precedente missione in Germania. Nell'ottobre successivo gli ambasciatori erano di ritorno a Venezia.
Entrata più tardi la Repubblica nella lega antifrancese, il C. fu inviato nel 1495 alla corte di Spagna assieme a Marino Zorzi (che però ritornò in patria nel gennaio del 1496). Qui fu attivo nel secondare la cooperazione veneto-spagnola nella guerra contro la Francia e per la riconquista del Regno di Napoli da parte degli Aragonesi, e si adoperò nelle trattative per includere il re d'Inghilterra nell'alleanza antifrancese.
Il 17 nov. 1496 il C., sostituito da Giacomo Contarini, cominciava il lungo, avventuroso viaggio di ritorno, che da Burgos lo portava a Barcellona e Valenza e di lì, imbarcatosi sulle galee veneziane del viaggio di Barberia, a Tunisi e infine a Venezia, dove approdava il 17 maggio 1497. Recava con sé i singolari doni esotici dei sovrani spagnoli alla Signoria: variopinti pappagalli e un principe negro delle isole Canarie in carne ed ossa, incapace ancora di farsi intendere, ma già bell'e battezzato, che il governo veneziano farà educare a proprie spese a Padova.
Dopo alcuni mesi il C. assunse la carica di podestà e capitano di Capodistria, cui era stato eletto ("licet assa' jovene fusse" notava il Sanuto) mentre ancora risiedeva in Spagna. Ritornato a Venezia il 13 nov. 1498, l'anno seguente fu provveditore sopra la Sanità, e il 26 nov. 1499 fu nominato provveditore di Rimini, per desiderio di Pandolfo Malatesta che lo aveva espressamente indicato, a garantire la difesa della città contro la minaccia di Cesare Borgia.
Raggiunta senza indugio Rimini, il C. vi rimase soltanto alcuni mesi, informando nei suoi dispacci il governo veneto delle imprese del Valentino. Ma già il 6 giugno del 1500 l'oratore del Malatesta a Venezia chiedeva, non si sa perché, il richiamo del provveditore; nel mese di luglio poi, moriva a Rimini la prima moglie del C., Elena Priuli di Piero, che aveva sposato nel 1483, ed egli stesso insisteva per poter tornare a Venezia, tanto più riconoscendo ormai del tutto inutile la sua presenza. E il 29 luglio si congedava dal popolo riminese esortandolo a restare fedele alla Serenissima.
L'8 sett. 1501 il Senato elesse due ambasciatori straordinari a Luigi XII (nelle persone di Domenico Trevisan e Girolamo Donà) ed un terzo, che fu appunto il C., destinato a rimanere alla corte francese come ambasciatore ordinario. Mentre i tre erano ancora per via, il Senato decise d'inviare subito il C. in Inghilterra affinché ne sollecitasse l'aiuto nella guerra contro i Turchi. Fu una missione difficile e infruttuosa, in cui egli con incaute iniziative personali (cercando di dissuadere Enrico VII dall'inviare una somma di denaro promessa al papa, aveva parlato con scarso rispetto di Alessandro VI e dell'imperatore) si attirò anche un durissimo rimprovero del Senato. Dopo pochi mesi, constatato che la sua permanenza inInghilterra era non solo dispendiosa e inutile, ma poteva allarmare l'alleato francese che proprio allora aveva ritirato il proprio ambasciatore a Londra, il Senato il 30 maggio 1502 deliberò che il C. si congedasse dal re e, anziché raggiungere la corte di Francia cui era stato originariamente destinato, ritornasse in patria: effetto forse questo del malumore che il suo comportamento aveva lasciato nella maggioranza dei senatori. Così, partito dall'Inghilterra in luglio, rimise piede a Venezia il 20 sett. 1502.
Una nuova missione diplomatica gli venne affidata il 18 marzo 1504 dal Senato, che lo chiamava a succedere ad Alvise Mocenigo presso Massimiliano re dei Romani, in un momento particolarmente delicato per la Repubblica, ai cui danni si andavano annodando le fila d'una serrata trama diplomatica tra la Francia, l'Impero e il papa Giulio II, sdegnato contro i Veneziani per il loro ostinato rifiuto di restituirgli le terre di Romagna.
I numerosi dispacci del C. (il primo è datato da Brunico il 30 maggio 1904) riflettono l'ansiosa attenzione con cui l'ambasciatore seguiva tali maneggi, cercando di difendere le ragioni della Serenissima e di convincere Massimiliano a conservare i buoni rapporti con Venezia. Ma la volontà di cogliere l'occasione per strappare alla Repubblica i territori della Terraferma sui quali vantava antichi diritti, doveva condurre l'imperatore al trattato segreto di Blois, siglato il 22 sett. 1504 e riconfermato poi nell'aprile successivo. Il C. poté informarne il Senato, sia pure in termini approssimativi, fin dal novembre-dicembre del 1504. Venezia fu quindi in grado di intraprendere le opportune contromisure diplomatiche, ed il patto antiveneto rimase inoperante non solo per lo scarso interesse francese e le reciproche diffidenze degli alleati, ma anche perché la Repubblica ebbe la accortezza di restituire tempestivamente al papa una parte delle terre usurpate.
Ancora un anno il C. rimase alla corte imperiale, agente attivissimo dell'azione diplomatica tesa a spezzare il grave isolamento della Serenissima, che già presentava tutti gli elementi essenziali del quadro politico internazionale in cui maturerà di lì a pochi anni la lega di Cambrai. Alla fine del novembre 1505 il C. fu sostituito da Pietro Pasqualago e ritornò a Venezia, dove il 15 dicembre espose la relazione al Senato.
Il 18 genn. 1506 fu eletto podestà di Ravenna, che resse dal luglio di quell'anno all'ottobre del 1507. Doveva aver dato buona prova in questo governatorato di confine, retto proprio durante l'energica campagna di Giulio II contro i Bentivoglio, gravida di minacce anche verso il dominio veneto in Romagna, se il Senato lo scelse il 9 maggio 1508 per governare la città di Trieste, appena strappata a Massimiliano dopo un'accanita resistenza degli abitanti. Fu un'esperienza dura e drammatica, che il C. affrontò con spietata energia, reprimendo due congiure e continui atti di ostilità alla Serenissima, invisa a una larga parte dei Triestini, e specialmente ai nobili.
Numerosi cittadini furono inviati al confino a Venezia; ad uno reo di occultare alcune armi fu tagliata una mano; fece impiccare un altro colpevole di avergli rivolto parole di minaccia; tutti sottopose a drastiche contribuzioni per pagare il riscatto di 15.000 ducati al quale i Triestini s'erano impegnati per evitare il sacco della città. "Can arrabbiato" lo chiamò il poeta triestino Giusto Giraldi, "che tutto il suo apiacer e suo solazio / era facendo de Tergestin stracio" (cit. in Tamaro, II, p. 18, dal ms. inedito).
Formatasi la lega antiveneziana di Cambrai, altre gravi preoccupazioni venivano ad aggiungersi a quelle del provveditore, i cui dispacci nella primavera del 1509 son quasi interamente dedicati alle informazioni sui preparativi militari degli Imperiali. Dopo la disfatta di Agnadello (14 maggio), abbozzando una manovra intesa a placare e dividere le potenze coalizzate, Venezia decise di restituire Trieste a Massimiliano, ordinando tempestivamente al C. di porre al sicuro le artiglierie e le munizioni, che giunsero infatti all'arsenale di Venezia il 28 maggio. Ma per mettere in salvo il provveditore, tanto odiato dai Triestini che non volevano lasciarselo sfuggire di mano nonostante la pacifica restituzione della città ai rappresentanti imperiali, fu necessario mandare due galee, dalle quali fu ricondotto a Venezia il 6 giugno.
Nuovi pericolosi compiti attendevano l'energico patrizio, che, avendo al tempo della legazione in Germania conosciuto ed ospitato Leonardo Trissino, fuoruscito vicentino ora capitano imperiale e governatore di Padova, ottenuto un salvacondotto per mezzo di certi frati, si recò segretamente nella vicina città di Terraferma per abboccarsi con lui, non si sa bene se per ottenere che i Veneziani potessero riscuotere le entrate delle loro vaste possessioni situate nel Padovano (missione secondo il Sanuto coronata da successo), oppure - come sostengono con minore attendibilità Luigi Da Porto e Pietro Bembo - nel vano tentativo di convincere il Trissino a passare al servizio della Repubblica. Fatto sta che riconosciuto sulla strada del ritorno veniva arrestato dai Padovani e ricondotto nella città, dove sarebbe stato condannato a morte senza l'energico intervento del governo veneziano e dello stesso Trissino. Fu quindi rilasciato e poté ritornare a Venezia il 22 giugno, riportando preziose informazioni sulla situazione di Padova e sull'esiguità del suo presidio, che assai probabilmente furono utili per preparare il colpo di mano col quale il 17 luglio i Veneziani riconquistarono la città.
Il 10 agosto il C. venne eletto provveditore generale in Friuli in luogo di Zuan Paolo Gradenigo, malato. Ma, partito subito per il campo, cadde a sua volta ammalato e dovette ritornare a Venezia il 19 settembre, dopo essere stato sostituito da Alvise Dolfin. Il 16 genn. 1510 il C. propose in Senato, offrendosi di persona, d'inviare un ambasciatore al re d'Inghilterra per sollecitare la sua alleanza contro la Francia. La proposta fu subito accettata, ma il C. per il momento non fu fatto partire.
Diversi episodi in quegli anni di estremo pericolo per Venezia stanno a testimoniare il suo fervido patriottismo, che si manifestava mediante un'azione assidua e generosa, con una dedizione senza riserve. Discutendosi il 13agosto in Senato sull'invio di denari al campo, "andò in renga, exclamando si mandasse danari, et chi ha dagi, e lui darà la veste, che non ha danari..." (Sanuto, XI, col. 111). In ottobre, poiché il marchese di Mantova, nominato capitano generale dai Veneziani, rinviava pretestuosamente la propria partenza, il C., essendo come afferma il Bembo, suo "domestico e famigliare", non badando ai disagi e ai pericoli del viaggio, si offrì di andare da lui per cercare di vincerne le esitazioni.
In questa inutile missione il C. toccò anche Bologna, dove ebbe un colloquio col papa, ora divenuto animatore della lega antifrancese, e ritornò il 2 dicembre a Venezia per riferire al Senato che il Gonzaga appariva ormai chiaramente allineato con la Francia. Nei mesi seguenti intervenne spesso nelle discussioni del Senato; nel dicembre 1511era membro della giunta del Consiglio dei dieci.
Finalmente il 9 maggio 1512 il Senato decideva la partenza del C. per l'ambasciata d'Inghilterra, cui era stato designato due anni prima. Il 22 maggio, ottenuto il salvacondotto dall'imperatore, il C. si metteva in viaggio per la via del Cadore e del Brennero. Ma era destino che non rivedesse l'Inghilterra. Il viaggio, particolarmente avventuroso e drammatico, attraverso una Germania travagliata dalla guerra, dall'anarchia e dalla pestilenza, osteggiato dall'imperatore, doveva costargli indirettamente la vita.
Il C. cominciò col perdere numerosi cavalli in una rovinosa caduta che travolse la cavalcata al passaggio d'un valico alpino. Nei pressi di Ulm, per sfuggire alle bande di due feudatari che volevano svaligiarlo, dovette occultarsi in una fitta foresta e poi far smarrire le tracce entrando nelle acque d'un fiume con i carri e i cavalli, a prezzo di perdere una parte del bagaglio. A Ulm dovette sostare in attesa di nuovi salvacondotti dai principi e feudatari locali, impegnati in una guerra civile che rendeva assai malsicure le strade. Ma quando finalmente si accingeva a partire fu raggiunto il 10 agosto da un dispaccio dell'imperatore che gli ingiungeva di tornare in Baviera. Era così di fatto prigioniero di Massimiliano, che muoveva contro il governo della Repubblica numerose gravi accuse: che nonostante la tregua Venezia avesse mandato alcuni sicari per avvelenarlo, e compiuto diversi altri atti di manifesta ostilità, mirando in particolare alla spartizione del ducato di Milano. Al C. poi l'imperatore imputava di essersi recato in alcune città franche della Germania per cercare di sobillarle contro l'autorità imperiale, e pretendeva che l'ambasciatore gli consegnasse le istruzioni scritte ricevute dal Senato.
Un mese più tardi il C. poteva finalmente lasciare la Germania, ma soltanto per far ritorno a Venezia a metà settembre, così mal ridotto in salute, che non si riprese più e ne venne a morte - "di cataro" nota il Sanuto - la notte tra il 6 e 7 apr. 1513.
Lasciava quattro figli: Cristoforo e Piero, oltre ai ricordati Carlo e Bernardo, tutti avuti dalla prima moglie, dopo la morte della quale aveva quasi subito sposato, nello stesso 1500, Maria Sanuto di Domenico, vedova di Francesco Valier.
Fonti e Bibl.:La fonte più importante è M. Sanuto, Diarii, Venezia 1879-1902, I-XVI, XXXIX, XLI, ad Ind.; Arch. di Stato di Venezia, M. Barbaro, Arbori de' patritii veneri, II, p. 277; Relaz. di Francia di Zaccaria Contarini anno 1492, in Relazioni degli ambasc. veneti al Senato, a cura di E. Alberi, s. 1, IV, Firenze 1860, pp. 1-26; Relazioni di ambasc. veneti al Senato, a cura di L. Firpo, I, Inghilterra, Torino 1965, p. X; II, Germania, Torino 1970, pp. 5 s.; Calendar of States Papers and Manuscripts relating to English affairs... in the Archives... of Venice, I-II, London 1864-1867, a cura di R. Brown, ad Ind.; I libri commem. della Rep. di Venezia. Regesti, a cura di P. Predelli, VI, Venezia 1903, pp. 11, 13, 86, 101; il registro delle lettere del C. oratore al re dei Romani (1904-1505) è in Bibl. naz. Marciana di Venezia, mss. It., classe VII, 991 (= 9583), Mentre il cod. 990, un tempo erroneamente attribuito pure al C., contiene invece i dispacci di Zaccaria Contarini: questo errore è stato fonte di alcuni equivoci, per es. in G. Occioni-Bonaffons, Intorno alle cagioni della lega di Cambrai. Studio documentato, in Arch. stor. ital., s. 3, IV (1866), 1, pp. 115, 118; e in S. Romanin, Storia documentata di Venezia, V, Venezia 1913, pp. 124 ss.; sulla missione in Germania cfr. anche G. Valentinelli, Regesta documentorum Germaniae historiam illustrantium, in Abhandlungen der K. bayer. Akademie, s. 3, IX (1864), pp. 583-586, 600 s., 611.Altre notizie in P. Bembo, Rerum Venetarum historiae, in Opere, Venezia 1729, I, pp. 145, 182, 223, 240, 257, 288, 291; A.Tamaro, Storia di Trieste II, Roma 1924, pp. 16-22;A. Bonardi, Ipadovani ribelli alla Repubblica di Venezia (1500-1530), in Miscellanea di storia veneta, s. 2, VIII (1902), pp. 357-361;L. Da Porto, Lettere storiche, Firenze 1857, pp. 85-91; L. e G. Amaseo, Diarii udinesi dall'anno 1508 al 1541, Venezia 1884-1885, p. 125; A. Ventura, Nobiltà e popolo nella società veneta del '400 e '500, Bari 1964, p. 212.