CATTANI, Francesco (François Cathane)
Figlio di un medico, Gaspare da Pescia, appartenente a una famiglia borghese di modeste condizioni economiche, nacque a Lucca all’inizio del sec. XVI. Entrò nella vita politica cittadina come homo novus nel 1534 e vi rimase fino al 1542 risultando eletto cinque volte nel Consiglio generale della Repubblica lucchese. Dedito ad attività pubbliche assistenziali, il 13 apr. 1535 venne ammesso a far parte dell’Opera dell’ospedale degli Incurabili e negli anni seguenti ricoprì varie cariche: priore (1º nov. 1539), camerlengo (1º maggio 1541), consigliere (1º nov. 1542).
Legatosi agli ambienti religiosi degli agostiniani e dei canonici lateranensi che già praticavano la confessione di fede riformata e avevano costituito “una pia chiesa di uomini fedeli”, il C. partecipò – ricoprendo la carica di anziano della Repubblica – all’azione di quei cittadini che (sotto la guida di Vincenzo Castrucci) portò alla liberazione del frate Girolamo da Pluvio, vicario degli eremitani di S. Agostino, incarcerato a istanza del S. Uffizio romano dell’Inquisizione come sospetto di eresia e in attesa di estradizione in territorio pontificio (21 sett. 1542). Con la “riformagione” del 13 ottobre, che faceva seguito all’inchiesta ordinata dal podestà (23 settembre) sulla “conventicola” agostiniana, il C. – che non aveva abbandonato il territorio lucchese – venne escluso per un periodo di dieci anni dalle cariche pubbliche cittadine.
Dopo l’esclusione dal governo e fino al 1555 ci mancano notizie sulla vita privata del Cattani. Ma sulla sua importanza nel contesto della vita religiosa lucchese degli anni Cinquanta ci illumina il racconto della “notabile conversione” di Pietro Fatimelli, un testo di propaganda riformata che circolava nella città e che nel 1572 venne inserito nella Cronaca di Giuseppe Civitali: “Il padre celeste ab aeterno mi haveva eletto suo e non son potuto perire perfino che non mi ha fatto conoscere la sua verità” (Arch. di Stato di Lucca, Biblioteca manoscritti, vol. 38, ff. 600v-611v). Il C. (contrassegnato con le soleiniziali del nome e del cognome) figura come il personaggio laico di maggiore prestigio tra coloro che assistono alla condanna a morte del ribelle, di cui è il principale interlocutore nella “storia” della presa di coscienza dell’elezione alla salvazione. Col favore della “divina gratia” Pietro si rende conto di essere stato “sempre ai servitii di questo falso mondo nelle sue concupiscentie”. La conoscenza dell’elezione alla salvezza (“vocatione”) trasforma la “disperatione” del condannato alla morte terrena in “consolatione” per sé e per gli altri “santi”. E la giustificazione non è fondata sui “nostri meriti” ma sulla nostra fede nel “beneficio” di Cristo mandato dal Padre: “La misericordia di Dio mi ha eletto e la fede mi salva”. Secondo il Berengo il testo è il risultato della collaborazione tra il persistente valdesianesimo dei canonici lateranensi di S. Frediano che ereditavano la lezione di Pietro Martire Vermigli (alcuni brani sono ricalcati su Juan de Valdés, Alfabeto cristiano e le Cento e dieci divine considerazioni) e il calvinismo del C., “ottimo conoscitore delle nuove dottrine” (altri passi sono riconducibili a Iohannes Calvinus, Institutio religionis Christianae, Argentorati 1539).
Nel 1555 il vescovo di Lucca, Alessandro Guidiccioni, conformandosi a un controverso breve di Paolo IV (3 agosto), citò diversi cittadini che “adhuc pertinaciter” versavano “in haeresibus et erroribus” a comparire dinanzi all’Inquisizione. Il C. decise, con gli altri indiziati, di sottrarsi con la fuga alla persecuzione, secondo la parola d’ordine data da Calvino ai suoi fedeli. Fu dunque tra i primi sette riformati lucchesi a emigrare per vivere in territorio elvetico “selon la sainte réformation de l’evangile”.
Il 16 sett. 1555 il C. fu ricevuto a Ginevra e venne iscritto come mercante nel registro degli stranieri che chiedevano il domicilio, insieme con la moglie Francesca e con i due figli Gaspare e Flaminio (le figlie o non vennero registrate o giunsero più tardi).
Il Pascal ha ipotizzato una antica origine mercantile della famiglia (“tradizione secolare”) e una continuità professionale nella diaspora. Il Berengo ha invece trovato che il C. fu del tutto assente dalla vita economica lucchese (negli atti è chiamato “prudens vir” e non “civis et mercator”). Quella di “marchant”, con la quale l’esule viene registrato nel Livre des habitants ginevrini, è dunque da considerare la professione del C. emigrato, probabilmente all’interno dell’impresa commerciale di Paolo Arnolfini, che poteva offrire aiuto ai connazionali meno abbienti mettendo a loro disposizione posti di lavoro nelle sue agenzie collocate nelle principali piazze europee.
Il C. prese la bourgeoisie ginevrina (22 ag. 1560) dopo che la Signoria lucchese, con un bando del 27 sett. 1558 che prendeva atto della condanna emanata dal S. Uffizio romano dell’Inquisizione nei confronti dei primi esuli “declarati et pronunciati haeretici et in urbe romana statuae eorum fuerunt combustae”, aveva proclamato “eretici e ribelli” i capi delle sette famiglie e ordinato la confisca dei loro beni.
Un momento importante nella vita ginevrina del C. è rappresentato dal biennio 1557-58. Tra Calvino e il gruppo degli “eretici” italiani (raccolti intorno alle figure di Gian Paolo Alciati, Giorgio Biandrata, Valentino Gentile) era scoppiata la controversia “de Trinitate” e il 18 maggio 1558 si era giunti alla imposizione di una speciale confessione di fede agli aderenti della Chiesa italiana sospettati di antitrinitarismo. Il C., già in linea con quella che sarà la tradizione lucchese degli emigrati per causa di religione, assunse una posizione chiaramente ortodossa nella difesa dell’ideologia riformata, ma senza cedimenti a una soluzione autoritaria e violenta del conflitto. L'incriminazione come spergiuro, l’andamento del processo, la proposta di pena di morte per il Gentile (che si era pentito di aver firmato la “confessio fidei” calviniana e aveva ripreso la propria libertà di movimento) sembravano riproporre di fronte all’Europa un nuovo caso Serveto, con gravi conseguenze per i “fedeli” rimasti in patria. Il 30 ag. 1558, insieme con l’esule messinese Giulio Cesare Pascali (che aveva reso familiare agli italiani il testo dell’Institutio di Calvino), il C. ottenne un colloquio con il Gentile. Si rese quindi interprete presso i giudici delle gravi condizioni di salute dell’imputato e, con un atto di grande coraggio, prospettò ai magistrati la possibilità di una ritrattazione come risultato di un sincero ravvedimento e onesto allineamento con la Chiesa. L’azione intrapresa dai due italiani per ottenere un atto di perdono e di clemenza dal Consiglio cittadino ebbe un esito positivo e il Gentile fu lasciato libero dopo la pubblica abiura.
Mentre per il Pascali la solidarietà nazionale manifestata nel caso Gentile fu gravida di conseguenze (dovette ricercare a Basilea un nuovo asilo per sfuggire alla persecuzione dei Ginevrini), per il C. non fu pregiudizievole della propria posizione di prestigio all’interno dell’emigrazione lucchese (anche se la sua costante esclusione dagli organi di governo della Chiesa italiana potrebbe ingenerare qualche dubbio). Nel 1562 infatti, assieme a Niccolò Balbani e a Scipione Calandrini, rappresentanti cospicui della seconda ondata migratoria, fece parte di quel gruppo di riformati lucchesi rifugiati a Ginevra che intervenne presso il governo della madrepatria per ottenere la revoca dell’editto (17 ott. 1558) emanato contro i fuorusciti per causa di religione.
Il C. si dedicò anche alla propaganda confessionale traducendo in italiano un’opera di Théodor de Bèze, Confessione della fede christiana, nella quale è confermata la verità e sono rifiutate le superstitioni contrarie, [Ginevra], Fabio Todesco, 1560. All’inizio del testo, compiendo un provocatorio gesto di recupero alla riforma protestante di uno dei più controversi rappresentanti dell’evangelismo italiano, il C. pose il sonetto 34 di Vittoria Colonna, “Già desiai che fosse il mio bel sole” (V. Colonna, Tutte le rime, Venezia 1558, pp. 103 s.).
Secondo il catalogo della collezione guicciardiniana della Biblioteca nazionale di Firenze il C. sarebbe stato anche l’autore di una traduzione italiana di un famoso gruppo di scritti contro i nicodemiti composti da G. Calvino, Del fuggir le superstitioni che ripugnano a la vera e sincera confession de la fede (s. l. 1553). L’attribuzione (non suffragata da alcun documento a nostra conoscenza) è stata messa in dubbio dal Cantimori: alla data della pubblicazione del testo il C. si trovava ancora in Italia e l’eventuale ipotesi di una traduzione fatta a Lucca contraddice allo spirito del Discorso al lettore premesso agli opuscoli calviniani (si tratta della questione della liceità della fuga in terra evangelica). Il Berengo sembra invece più propenso ad accettare l’indicazione guicciardiniana (“probabile traduttore”) e vede proprio in alcune “pieghe” del Discorso il “volto” del C. e il riflesso delle proprie esperienze politiche lucchesi.
Il C. morì a Ginevra prima del 1578, giusta l’indicazione del testamento di Paolo Arnolfini (5 settembre).
Ebbe almeno sei figli. Gaspare si iscrisse nel 1559 alla accademia ginevrina e ottenne la bourgeoisie assieme al padre nel 1560; dopo un incidente occorsogli nel 1577 in occasione di un episodio di violenza tra rifugiati italiani e francesi, chiese alla Signoria il permesso di emigrazione per la Germania e la Francia, dove si pose al servizio di un Bonnecourt (la “riformagione” lucchese che lo condanna come eretico e ribelle è del 28 febbr. 1570). Flaminio sembra che si sia dato alla vita militare, ma di lui non ci resta altra notizia che quella relativa a un imprigionamento nel 1575 per violazione di un contratto. Laura andò sposa a Senofonte Portus (figlio del cretese Francesco che come ellenista aveva insegnato a Ferraia prima di rifugiarsi a Ginevra in quanto protestante) e lo seguì nei suoi trasferimenti per ragioni di commercio: rimasta vedova tra il 1581 e il 1582, con numerosa famiglia a carico, si rivolse inutilmente alla Signoria ginevrina per risolvere la precaria situazione economica in cui versava. Anna, probabilmente figlioccia di Paolo Amolfini, dopo la morte del padre ebbe come curatore Niccolò Balbani e nel 1583 fu condannata dal concistoro per aver fatto una illegale promessa di matrimonio a un certo Jean Belloiseau. Caterina sposò Filippo Rustici, medico di risonanza e traduttore di una Bibbia per gli italiani (Ginevra 1562), che era stato implicato nella controversia tra gli antitrinitari e Calvino e si era adeguato con riluttanza all’ortodossia riformata. Angela andò sposa al filosofo e medico aristotelico Simone Simoni e lo seguì nel trasferimento a Lipsia dopo l’allontanamento dall’accademia ginevrina per sospetto di eterodossia.
Fonti e Bibl.: Le livre des bourgeois de l’ancienne Rép. de Genève, a c. di A.-L. Covelle, Genève 1897, p. 91; Livre des habitants de Genève, a cura di P.-F. Geisendorf, I, Genève 1957, p. 56; B. Beverini, Annalium ab origine Lucensis urbis volumen quartum, Lucae 1832, pp. 345, 403; G. Tommasi, Sommario della storia di Lucca, a cura di C. Minutoli, in Arch. stor. ital., X (1847), pp. 425, 433, 449-450; C. Cantù, Gli eretici d’Italia, II, Torino 1866, pp. 470, 472, 476-478; S. Bongi, Inv. del R. Archivio di Lucca, Lucca 1872-Pescia 1946, I, pp. 354-355; II, p. 115; V, pp. 115-117; Catalogo... della collezione... P. Guicciardini, Firenze 1877, p. 65; J.-B-G. Galiffe, Le refuge ital. de Genève aux XVIe et XVIIe siècles, Genève 1881, p. 153; O. Grosheintz, L’église ital. à Genève au temps de Calvin, Lausanne 1904, p. 111; G. Jalla, Storia della Riforma in Piemonte fino alla morte di Emanuele Filiberto (1515-1580), Firenze 1914, p. 96; F. Tocchini, Note sulla riforma a Lucca dal 1540 al 1565, in Boll. stor. lucchese, VI (1932), pp. 107, 115; B. Croce, G. C. Pascali, in La Critica, XXX (1932), p. 338; A. Pascal, Da Lucca a Ginevra, in Riv. stor. ital., XLIX (1932), pp. 457-458; L (1933), pp. 438-440; LI (1934), pp. 472, 476 s., 485 s., 496, 502; Id., La colonia messinese di Ginevra e il suo poeta Giulio Cesare Paschali, in Bollettino della Società di studi valdesi, LIV (1935), 64, p. 9; D. Cantimori, Eretici italiani del Cinquecento, Firenze 1939, p. 228; D. Cantimori, Spigolature per la storia del nicodemismo italiano, in Ginevra e l’Italia, Firenze 1959, pp. 179-180; B. Nicolini, Ideali e passioni nell’Italia religiosa del Cinquecento, Bologna 1962, p. 28; M. Berengo, Nobili e mercanti nella Lucca del Cinquecento, Torino 1965, pp. 416, 433, 438-439, 442; P. McNair, Pietro Martire Vermigli in Italia, Napoli 1971, pp. 271, 296-297.