Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Per circa un ventennio Francesco Cavalli è l’operista più rappresentato nei teatri veneziani, per i quali, a conferma di un favore di pubblico costante, tra il 1639 e il 1660 compone almeno 24 melodrammi (altri due sono frutto di commissioni provenienti da Milano e Firenze, mentre per altri otto l’attribuzione è dubbia).
Il libretto: tra poesia e drammaturgia
Per buona parte del Seicento anche in una città musicofila come Venezia il principale autore di un dramma per musica, l’unico il cui nome è menzionato nel libretto impresso in occasione di un allestimento, è considerato il librettista, sia egli fine poeta o pedestre verseggiatore.
Del musicista non vi è, tranne rari casi, alcuna menzione ufficiale (motivo per cui, ad esempio, anche l’attribuzione a Claudio Monteverdi delle musiche dell’Incoronazione di Poppea di Gian Francesco Busenello è tutt’altro che certa).
Non va perciò misconosciuta l’importanza del lavoro del poeta nella valutazione del successo di un melodramma. Se le opere di Francesco Cavalli soddisfano costantemente le aspettative del pubblico cui sono rivolte, le ragioni sono da ricercarsi non solo nella qualità musicale delle partiture, ma anche nella qualità drammatica (che della prima è quasi presupposto) dei libretti.
E in particolare degli 11 che Giovanni Faustini, in una collaborazione pressoché esclusiva, gli fornisce nel corso degli anni Quaranta. In quel decennio, infatti, Cavalli e Faustini avviano e portano a termine sia dal punto di vista poetico sia da quello musicale un processo di standardizzazione dell’opera veneziana. (Non è un caso che anche la tragédie lyrique, un tipo operistico distante anni luce da quello veneziano, si definisca nei suoi aspetti caratteristici e duraturi grazie alla collaborazione assidua ed esclusiva tra Lully e Quinault).
Faustini offre a Cavalli prodotti d’uso, libretti forse carenti sotto il punto di vista strettamente poetico, ma efficaci quanto a resa scenica, nei quali sono riproposte di volta in volta le stesse caratteristiche fondamentali.
Il libretto risulta sempre diviso in tre atti, in modo funzionale ai tre momenti in cui un’azione drammatica è scindibile: esposizione, annodamento e scioglimento. I personaggi principali della vicenda, benché l’ambientazione generale sia quella mitologica di tradizione, agiscono sempre come persone reali (le meraviglie macchinistiche, occasionate dalle frequenti scene magiche o soprannaturali, sono riservate a divinità per così dire accessorie). L’opera, il cui motore drammatico è sempre la passione amorosa, comporta sempre un lieto fine nel quale, invariabilmente, le due o tre coppie di amanti attive nel dramma si ricompongono felicemente. Il ricorso a topoi scenici quali travestimenti, “scene di pazzia”, “scene del sonno”, “scene-lamento” è frequentissimo.
Ciò che Faustini e Cavalli intuiscono alla perfezione è che se lo spettacolo è uditivo e visivo a un tempo, il libretto deve funzionare non in quanto opera letteraria, ma in quanto pretesto per eventi musicali e scenici, in quanto giustificazione degli interventi fascinatori del canto e della scenotecnica.
In Faustini il poeta si annulla (e forse Faustini nemmeno è poeta) per lasciar spazio al drammaturgo pratico, all’uomo di mestiere che distribuisce, con grande intuito dei ritmi teatrali, momenti di azione, momenti di contemplazione e riflessione, e momenti di pura spettacolarità.
La fluidità della musica
Alla duttilità drammatica di Faustini corrisponde la flessibilità musicale di Cavalli, che, ove la drammaturgia preveda bruschi scarti nelle situazioni inscenate, assicura un elemento di continuità grazie alla cantabilità ininterrotta della quale pervade le proprie partiture.
Il canto nelle opere di Cavalli è un elemento fluido che senza irrigidirsi nella contrapposizione aria-recitativo, o inquadrarsi nello schema di strutture formali poco flessibili, seduce lo spettatore con la proprietà e l’efficacia di un adattamento libero e continuo (nel ritmo, nella tonalità, nel profilo melodico) alle necessità del momento, ora più lirico ora più declamatorio.
Emblematica è da questo punto di vista la varietà di trattamenti cui Faustini e Cavalli sottopongono, esplorandone le potenzialità espressive, una forma altamente normalizzata come l’aria-lamento, momento di patetismo irrinunciabile nelle sue opere.
Essa può di volta in volta venire variata tanto nella sua dimensione testuale (il lamento del personaggio prende forma di autocommiserazione, di apostrofe o preghiera rivolta al mondo, agli dèi, ai tiranni, agli dèi tiranni), quanto in quella musicale (nel canto, più o meno consonante e coincidente nel fraseggio con il modulo ostinato proposto dal continuo; e nel basso, il cui tetracordo discendente ripetuto incessantemente, è variato nella melodia, ora diatonica ora cromatica, nel ritmo, ora binario ora ternario, nei moduli ritmici, ora semplici ora complessi).
La diffusione delle opere
Va da sé che il ruolo di primo piano rivestito da Cavalli a Venezia (divenuta il cuore pulsante dal quale si irradia in tutt’Italia il melodramma), è riproposto ovunque agiscano compagnie itineranti o si trovino teatri d’opera stabili che ripropongano partiture veneziane.
La diffusione delle opere di Cavalli attraverso un circuito teatrale che via via si fa sempre più ampio e articolato, favorisce la nascita di un gusto operistico relativamente uniforme vigente, senza grandi differenze, in tutta la penisola.
Questo fenomeno è perciò legato non solo allo straordinario successo di opere come l’Egisto o il Giasone, che tra il 1649 e il 1690 è rappresentata in quasi venti città, ma anche alle più ordinarie fortune delle altre opere che compongono il corpus operistico cavalliano: dell’Eritrea, per esempio (cinque riprese tra il 1654 e il 1665), ma anche del Ciro (sette riprese tra il 1654 e il 1678), del Serse (otto riprese tra il 1656 e il 1682), dell’Erismena (tredici riprese tra il 1656 e il 1673), dell’Artemisia (cinque riprese tra il 1658 e il 1665), dello Scipione Affricano (cinque riprese tra il 1666 e il 1673) ecc.
E se nel 1646 era stato per molti versi un caso che il secondo melodramma rappresentato in suolo francese fosse l’Egisto di Cavalli (la regina di Francia Anna d’Austria, prima di autorizzare il costoso allestimento dell’opera di uno sconosciuto musicista, aveva voluto sincerarsene della bontà ascoltandone privatamente un saggio), non è certamente un caso che nel 1659 per festeggiare il matrimonio tra Luigi XIV e l’infanta di Spagna Maria Teresa d’Asburgo (tanto importante per la vita politica francese) Mazzarino decida di mettere in scena l’Ercole amante, un’opera composta su sua esplicita richiesta dal più famoso operista del momento.
Sul finire degli anni Cinquanta anche a Parigi il nome di Cavalli suonava come sinonimo di opera.