CEI, Francesco
Le scarse notizie biografiche di questo rimatore fiorentino si devono alle diligenti ricerche di G. Volpi, il benemerito studioso del Pulci, il quale raccolse da varie fonti edite e inedite di stanze quattrocentesche alcuni dati atti a suggerire una fisionomia abbastanza precisa del Cei. Da un ricordo di famiglia stilato da un nipote del poeta, Galeotto di Giovambattista Cei e tramandato da un manoscritto della Biblioteca nazionale di Firenze (Magl. II, IV, 14), sappiamo che il C. nacque il 26 marzo 1471 da Galeotto di Francesco e da Cornelia di Gregorio Lensi, sua seconda moglie. La medesima fonte ci dà l'indicazione dell'anno di morte, 1505, aggiungendo che il C. non aveva avuto "né donna né figli".
Queste scarne indicazioni si arricchiscono allorché si considerano le cronache riguardanti quel delicato periodo di storia fiorentina che va dall'ingresso in città di Carlo VIII alla morte del Savonarola. In quest'epoca il C. mise la sua verve di improvvisatore al servizio degli arrabbiati o comunque di quanti si opponevano nella maniera più drastica e clamorosa alla politica del Savonarola. Simone Filippi (cfr. Volpi) racconta infatti "che fûr fatti dagli avversari di fra Girolamo molti sonetti e canzoni poco oneste contro di lui e suoi frati, come fece il Travaglino e 'l Ceo", e che tali componimenti ostili non solo al domenicano, ma irriverenti nei confronti della religione e della Chiesa, erano affidati ai fanciulli perché fossero cantati "massime la sera di state". Filippo Nerli (ibid.), dal canto suo, descrivendo lo stato di agitazione in cui viveva Firenze nei momenti di maggiore tensione fra piagnoni e arrabbiati, testimonia "che erano da ogni parte fatti sonetti e appiccati ne' luoghi pubblici cartelli d'infamia contro all'una e all'altra parte" e che "ebbe bando il ribello Francesco Cei per un sonetto".
Questa poesia, che è stata pubblicata per intero dal Volpi e che mostra soprattutto nella chiusa una carica mordente nei confronti della fazione capeggiata dal Savonarola ("O general galuppo, / se ci è nessun fallito o rovinato, / e' s'è con fra Mignatta accompagnato. / O Dio, per qual peccato / consenti tu che Firenze rovini, / a pitizione di quattro cittadini / ambiziosi fini, / ch'àn fatto sottilmente una idolatria / per farsi grandi e turbar questa patria?"), costò probabilmente all'autore il bando dalla città nel periodo in cui, sotto il gonfalonierato di Francesco Valori, la parte piagnona godeva di un particolare prestigio. Lo stesso Volpi ha pubblicato il documento di condanna del C. stilato dagli Otto di guardia e balia e recante la data del 1497.
Tuttavia il C. riuscì ad evitare la condanna, tanto è vero che nel maggio del medesimo anno, il giorno dell'Ascensione, si trovava a Firenze e fu tra i promotori di una serie di ostilità promosse contro il Savonarola nel corso di una predica che questi tenne in S. Maria del Fiore. Il Villari nella Storia diGerolamo Savonarola (II, Firenze 1888, p. 2) afferma che il C. "sollevando la cassa delle limosine l'aveva fatta precipitare a terra, e questo era stato il segnale del disordine". La notizia fornita dal Villari è desunta da una serie di fonti fiorentine (Cambi, Ammirato) che narrano l'evento in termini fra di loro non dissimili. Aveva forse salvato il C. una delle momentanee e non infrequenti parentesi di disgrazia della fazione piagnona: tant'è che l'autore, dopo aver ottenuto la cancellazione del bando nell'aprile del 1498, poté rimanere impunito a Firenze fino al 1501 (egli stesso confessa in diverse poesie di essersi allontanato dalla città natale alla fine dell'amore per Clizia, la donna cantata nelle rime, che durò sette anni; e sappiamo dall'autore che l'innamoramento ebbe inizio nel 1494). Dopo di che si indirizzò probabilmente a Roma, ove lo colse la morte quattro anni più tardi.
Quasi tutto ciò che concerne la vita privata del C. e l'ultimo periodo della sua esistenza lo desumiamo dal suo canzoniere che, sotto il titolo di L'opera del preclarissimo poeta Francesco Cei ciptadino fiorentino in laude di Clitia, vide la luce a Firenze nel 1503, e fu successivamente ristampato, sempre a Firenze, nel 1514, 1519 e 1520. Il Varchi, a testimonianza di questa notevole fortuna dello scrittore fiorentino, confessava: "...non mancano di quegli, i quali pigliano maggior piacere di leggere Apuleio o altri simili autori, che Cicerone, e tengono più bello stile quel del Ceo o del Serafino, che quello del Petrarca o di Dante": giudizio, ovviamente, non del tutto favorevole al C. e ai suoi lettori, ma che pure documenta un interesse non del tutto immotivato che i contemporanei nutrirono per la lirica dello spigliato poeta.
La donna che egli amò e cantò sotto lo pseudonimo classicheggiante di Clizia era in realtà Cassandra di Bartolomeo Bartolini Salimbeni, sposa dal 1500 del ricco mercante fiorentino Carlo di Leonardo Ginori nato nel 1473 e morto nel 1527, l'anno in cui morì anche Cassandra. Stando alla ricostruzione poetica che fa della sua vicenda amorosa nel canzoniere, il C. avrebbe amato Cassandra da nubile e poi avrebbe continuato a nutrire affetto per lei anche dopo le sue nozze, fino al momento in cui egli fu costretto (per motivi che rimangono ignoti, ma che forse non furono estranei alle turbolente vicende politiche della sua esistenza) ad abbandonare Firenze.
Così come è stato descritto dal Volpi sulla scorta dell'edizione del 1519, il canzoniere del C. appare ripartito in novantasette sonetti, otto capitoli, nove canzoni, venti stanze, diciassette strambotti. Non mancano nessuno dei metri prediletti dalla poesia cortigiana del Quattrocento e l'adesione ai canoni di siffatta rimeria appare ancora più evidente quando si considera la notevole semplificazione che il poeta opera nei confronti del complesso schema della canzone petrarchesca.
In comune con gli altri rimatori cortigiani del Quattrocento il C. offre la caratteristica di rifiutare il pretesto lirico per architettare una "storia" individuale, per rappresentare una complessa vicenda psicologica imperniata sui casi d'amore: bensì egli frammenta l'esperienza vissuta descrivendo le circostanze che hanno acceso la sua fantasia e che sono così vive nel ricordo da riuscire a riproporre, liricamente, oggetti e momenti cari (il guanto, il cane, il rosario dell'amata, il dono di alcuni dolci, il colore di un vestito). Non di rado tali descrizioni invadono il campo del volutamente "realistico" e scollacciato: ciò che costituisce un altro tipico aspetto della sintesi (o dell'indifferenza) stilistica propria degli autori quattrocenteschi rispetto alla direzione univoca suggerita da una stretta osservanza del Petrarca.
Naturalmente ciò che costituisce il maggior limite del C. poeta - quanto a coerenza stilistica, a equilibrio di energie espressive nell'ambito dell'intero corpus delle rime - appare anche come il suo maggior titolo di merito, ché affermazioni sincere del tipo: "Se 'l mio amor non ti piace, almen ti piaccia / creder che non sia falso el mio lamento: / chè, quando questa opinion tua sento, / il sangue per le vene mi s'addiaccia", oppure: "Che fai, che pensi, o Clizia? Oh, s'io credessi / ch'un punto sol del giorno a me pensassi, / le lacrime e' suspir, la pena e' passi, / non parrebbe che nulla mi dolessi)" si impongono con una incisività che viene meno in molte e più famose prove liriche di contemporanei.
Questi sparsi motivi "realistici", questi sfoghi personali, questo continuo volgere il dettato verso la descrizione di motivi autobiografici vengono evidenziati dal C. col ricorso ad un tipo di retorica che ha fatto pensare anche a una sorta di concettismo anticipato. In effetti viene profuso a piene mani nel canzoniere del C. tutto il repertorio della sorpresa letteraria: giochi di parole, metafore, parallelismi, e questa esibizione, talvolta fredda e immotivata di espedienti artificiosi, degrada il componimento alla misura dell'enigma, reso più impenetrabile dal linguaggio furbesco, dall'allusione ironica, mediante la quale lo scrittore cerca di ottenere il riso e il consenso di un pubblico prossimo e ristretto, costituito da una allegra brigata di compagni. Per cui anche lo scherno politico, la beffa o la derisione (che costituiscono forse gli elementi più cospicui di questo canzoniere) si colgono sempre con molta fatica e richiedono una lettura attenta e non di rado faticosa. E, di riscontro, finiscono per interessare maggiormente proprio le poesie in cui il sentimento dello scrittore è più scoperto, cioè quelle liriche dove l'intento di sorprendere non riesce del tutto a celare una vena genuina di ispirazione e una sofferenza intima.
Quanto alle fonti di questa poesia, i critici hanno insistito sui motivi che la accomunano all'esperienza lirica del Cariteo, del Tebaldeo e di Serafino Aquilano: tali accostamenti hanno una validità indiscutibile se si pensa proprio all'apparato "preconcettistico" che esibisce il rimatore fiorentino. Ma è poi possibile che un'indagine meno sommaria sulle matrici culturali del canzoniere dia luogo ad altri reperti, disseminati, poniamo, nella zona "comica" dell'esperienza dantesca, nella lingua dei cantari, delle cronache e delle scritture private del Quattrocento volgare fiorentino, da cui lo scrittore attinge con un senso quasi sempre sicuro delle scelte espressive. E c'è infine il problema di una fedeltà molto pronunciata al dettato del Pulci, che si esplica anche nelle prove del gergo usato a fini caricaturali: tutto ciò documenta nel C. un interesse (se non un'applicazione) non comune e non del tutto trascurabile per quei tentativi compiuti dalla koinè fiorentina di pervenire a un impasto linguistico insieme dotto e dialettale, popolaresco e letterario.
Un ultimo, ma non secondario, aspetto del C. è quello che riguarda la sua professione di improvvisatore (il Volpi ha rinvenuto e pubblicato un componimento improvvisato dall'autore e forse da lui stesso musicato in occasione delle nozze fra Giovan Battista de' Nobili e Francesca Salviati). Gran parte della sagacità e della spontaneità espressiva del C. dovette provenire da siffatta consuetudine, che getta infine una luce di gioconda spensieratezza sulla figura del rimatore fiorentino, mentre l'orizzonte politico si oscurava sui destini della città e il costume della generazione medicea diveniva un ricordo ovvero il fondamento di una "restaurazione".
Fonti e Bibl.: P. Villani-E. Casanova, Sceltadi prediche e scritti di fra' Girolamo Savonarola, con nuovi documenti intorno alla sua vita, Firenze 1908, p. 495; B. Varchi, L'Ercolano, I,Milano 1804, p. 31; G. M. Crescimbeni, Commentarialla storia della volgar poesia, II,2, Venezia 1730, p. 170; G. Volpi, Di F. C. poeta fiorentinodell'ultimo Quattrocento, in Note di varia erudiz. e critica letteraria, Firenze 1904, pp. 56-72; M. Ferrara, Commento di un sonetto di F. C., in Pagine critiche, II (1901), pp. 1 ss.; V.Rossi, Il Quattrocento, Milano s. d., ad Indicem; F. Flamini, IlCinquecento, Milano s. d., ad Indicem.