CRISPI, Francesco
Uomo di stato, nato a Ribera (Girgenti) il 4 ottobre 1818 da Tommaso e da Giuseppina Genova, morto a Napoli l'11 agosto 1901. Compiuti i primi studî nel seminario greco-albanese di Palermo, si laureò in giurisprudenza (1837). L'anno dopo sposò Rosa D'Angelo che morì nel 1840. Intanto, sin dal 1839 il C. aveva cominciato la sua carriera giornalistica, fondando e dirigendo il giornale L'Oreteo, che visse tre anni. Nel 1844 il C. si presentò al concorso per la magistratura, riuscendo primo. Ma l'ufficio e la carriera di magistrato richiedevano l'osservanza di una disciplina, a cui non si sentiva di sottostare, sicché ben presto, essendo venuto fuori un decreto ministeriale, col quale gli "alunni di giurisprudenza" erano ammessi, senz'altro esame, ad esercitare la professione di avvocato presso la Gran corte civile di Napoli, chiese ed ottenne l'iscrizione nell'albo relativo. Trasferitosi così nella capitale del regno, il C. esercitò l'avvocatura con successo. Intanto egli si occupava attivamente di Politica. Per il tramite di Giovanni Raffaele, entrò a far parte del Comitato che si adoperava a strappare al Borbone una costituzione, e anzi rappresentò in esso l'anello di congiunzione tra Napoletani e Siciliani e più volte si recò nell'isola per stringere accordi e preparare la rivoluzione.
Quando Palermo insorse (12 gennaio 1848), entrò nel governo provvisorio, occupandosi dell'organizzazione delle forze armate. Poco dopo (27 gennaio), fondò il giornale L'Apostolato. Eletto deputato alla Camera dei comuni per il collegio di Ribera, votò per la decadenza del Borbone e poi per l'elezione del duca di Genova a re di Sicilia. Sostenne inoltre che si convocasse una Costituente italiana, in cui fosse rappresentata l'isola natia. Questa avrebbe dovuto, a parer suo, conservare l'autonomia in una salda unione federale della patria intera. Si oppose risolutamente al ritorno del Borbone, e lo dimostrò animando il popolo di Palermo alla resistenza contro le truppe del Filangieri, e allontanandosi dalla patria appena vide che ogni sforzo per conservare la libertà era inutile.
Trascorse i primi quattro anni d'esilio nel Piemonte. Buona parte della sua attività fu spesa in ricerche storiche: all'Archivio del Cattaneo diede un prezioso materiale documentario intorno ai moti siciliani del 1848; per il Pantheon dei martiri della libertà italiana scrisse la biografia di Francesco Paolo Di Blasi; si accinse a curare la ristampa della Storia del diritto pubblico di Rosario Gregorio e raccolse dati per arricchirla, ma non portò a compimento il lavoro, allo stesso modo di altri studî, che intendeva fare sul dispotismo italiano dal 1847 in poi e sull'industria, il commercio e la navigazione in Italia dai tempi più antichi al 1852, dei quali si conservano quasi unicamente i titoli, e soltanto un frammento, se si deve considerare come una parte di una delle monografie ricordate lo scritto sull'Ordinamemo politico delle Due Sicilie, che consegnò all'Annuario del Maestri nel 1853. Riguardano diverso argomento che non la storia due saggi, che appartengono anche a questo periodo, sulle Istituzioni comunali, che il C. voleva consolidate, e sul Comune in Piemonte, a cui intendeva si restituisse l'autonomia. Ma il governo piemontese seguiva ben altre direttive in materia d'amministrazione locale, e negò all'esule la carica di segretario comunale a Verolengo, per la quale aveva fatto domanda, come già gli aveva rifiutato una cattedra nelle università. Durante il tempo in cui fu a Torino, il C. fu anche giornalista; partecipò alla redazione della Concordia del Valerio e del Progresso del Correnti.
In mezzo alle sofferenze dell'esilio seguiva con vigile attenzione le vicende siciliane, e sebbene non traesse conforto a sperare grandi cose dal "deplorabile stato in cui è la patria nostra", tuttavia, d'accordo con altri emigrati, si studiava di preparare gli animi per il giorno "in cui l'Europa entrerà in una nuova crisi e nuovi mezzi ci si offriranno per cogliere il nemico" (Crispi, Lettere dall'esilio, Roma 1918, pp. 3-4). Dopo il moto del 6 febbraio 1853 a Milano, il governo del Piemonte espulse gli esuli italiani di tendenze repubblicane e fra gli altri il C. (7 marzo 1853), che protestò pubblicamente contro il provvedimento. Si recò allora a Malta, dove continuò a scrivere per i giornali e a compiere lavori letterarî e ricerche storiche. Da queste derivò lo scritto Dei diritti della corona d'Inghilterra sulla Chiesa di Malta. Frattanto si teneva in corrispondenza con Rosalino Pilo e col Mazzini e cospirava d'accordo coi Comitati dell'emigrazione sicula, dei quali non divideva però la fiducia nei tentativi che frequentemente si organizzavano per fare insorgere la Sicilia. Anche a Malta fondò un giornale, La Staffetta. A un tratto gli giunse il secondo ordine d'espulsione. Nei quindici giorni di tempo concessigli per partire sposò, non regolarmente, la savoiarda Rosalia Montmasson, che l'aveva seguito a Malta, e che gli fu compagna fedele per lunghi anni.
Il 13 gennaio 1855 il C. era a Londra. Colà conobbe il Mazzini di persona. Esistevano sempre in fondo allo spirito del C. le vecchie tendenze autonomistiche di rivoluzionario siciliano, ma ormai era disposto a sacrificarle all'unità.
Senza occupazione fissa il C. fu per breve tempo all'Office franco-italien del Carini (1856). Nel 1857, mentre era a Parigi, gli morì il padre, che di tanto in tanto lo sovveniva con qualche aiuto pecuniario. Nella capitale della Francia trovò modo di trascorrere i suoi giorni con una certa tranquillità, fino a quando la reazione, succeduta all'attentato Orsini, lo costrinse di nuovo ad andare ramingo per l'Europa (1858). Tornò allora a Londra, indi nel Portogallo, infine di nuovo a Londra. Era il gennaio 1859; si approssimava la crisi.
Sin dal 1852, scrivendo al Carini, il C. si era dimostrato poco fiducioso in una guerra tra la Francia napoleonica e le altre dinastie europee: essa potrà giovare - diceva - a qualche stato della penisola, non alla restaurazione della grande patria italiana (Lettere, pp. 37-38). Pertanto nel '59 non accolse con molto favore l'intervento di Napoleone III e firmò col Mazzini la dichiarazione di astensione dalla guerra regia. Sennonché ben presto, facendo prevalere sulle ideologie teoriche le sue tendenze realistiche, pensava di partire per la Sicilia e di organizzarvi un movimento nazionale, capace d'imporsi al momento decisivo "quando re e imperatore si appaghino di un assetto territoriale, che non ci accordi l'unità" (ivi, p. 127). Vi andò nel luglio e dal 26 di quel mese al 30 agosto peregrinò per l'isola travestito, col nome di Manuel Pareda, negoziante, promettendo aiuti, qualora il moto scoppiasse. Si stabilì che Palermo sarebbe insorta il 4 ottobre. Tornato a Londra e avendo saputo che l'inizio del movimento era stato differito al 12 ottobre, ripartì con nome e connotati diversi (Tobia Glivaie). L'11 era a Messina pronto al cimento, ma, consigliato di non fermarsi perché la polizia sospettava un moto nell'isola che d'altra parte si era dovuto rinviare a un momento più propizio, proseguì per la Grecia. Da Atene, ripreso il suo vero nome, tentò di scendere a Malta, ma, respinto, attraverso la Spagna tornò in Italia, e da Genova si diresse a Modena.
Ivi il 9 dicembre 1859 propose al Farini di condurre in Sicilia i volontarî, che Garibaldi aveva ai suoi ordini. Avuta risposta che bisognava interpellare prima il governo di Torino, il C. corse colà per parlare col Rattazzi, il quale non osò dare il consenso alla spedizione e neppure l'osò il Cavour, che nel frattempo era succeduto al Rattazzi. Allora il C., insieme con Rosalino Pilo, iniziò i preparativi della spedizione in Sicilia.
Il Pilo salpò per primo. Il C., dopo avere inviato sua moglie in Sicilia, perché avvertisse gli amici dei pericoli che minacciavano il precursore, rimase ad allestire il grosso della spedizione. Scoppiato il moto della Gancia, s'adoperò energicamente per vincere le esitazioni di Garibaldi e indurlo a partire. Con fede indomita, superando le difficoltà che si opponevano da ogni parte dal governo come dal condottiero designato, e giungendo a tenere celate le notizie poco confortanti che pervenivano dalla Sicilia, il C. riuscì a far salpare i Mille da Quarto. Nell'organizzazione del corpo di spedizione fu nominato sottocapo di Stato maggiore, ma presto si dimise dal grado e, pur intervenendo, per la conoscenza che aveva dei luoghi dell'azione, nelle deliberazioni che Garibaldi prendeva volta per volta circa l'itinerario della spedizione, assunse la veste di "uffiziale alla immediazione" del condottiero, uffiziale - s'intende - per gli affari civili, e poi si chiamò segretario di stato della Dittatura (17 maggio 1860). In realta fu l'organizzatore dei paesi liberati. A tutto pensò: ad amministrare il nuovo stato, a mantenere l'ordine, a procurare danaro e quant'altro occorreva alla spedizione, e particolarmente a mettere in efficienza le forze locali, una squadra delle quali capitanò all'assalto di Palermo. Pur avendo accettato con lealtà la bandiera monarchica sotto la quale la spedizione era stata organizzata, il C. si oppose però all'annessione immediata e incondizionata al Piemonte: voleva che l'annessione fosse subordinata alla completa unificazione della penisola. Il Precursore, giornale da lui fondato ai primi di luglio, rispecchia le idee del C. contro gli autonomisti siciliani e i moderati piemontesi.
Il modo come si effettuarono i plebisciti e le annessioni lasciò uno strascico di risentimenti e di odî, che il 1° gennaio 1861 si conchiusero a Palermo in un episodio clamoroso nel tentato arresto del C., ordinato dal La Farina. Essendosi presentati i carabinieri al domicilio dell'ex-ministro di Garibaldi, questo si rifiutò di aprire la porta e dalla finestra chiamò in sua difesa la Guardia Nazionale. Poté così porsi in salvo, mentre il La Farina si dimetteva da consigliere della Luogotenenza.
Nelle elezioni di quello stesso anno, il C. ebbe il mandato dagli elettori di Castelvetrano; i Siciliani gli dovettero però dare i mezzi per poter risiedere in Torino e adempiere ai suoi doveri di deputato. Alla Camera sedette a sinistra e fu oppositore del Cavour e poi del Ricasoli, ma non volle mai aderire a manifestazioni che potessero danneggiare il consolidamento delle libertà conquistate, sicché nelle lettere dirette agli amici in quel periodo fu spesso obbligato a giustificare il suo atteggiamento, che appariva non consentaneo ad un uomo appartenente alla sinistra. Verso il Rattazzi si tenne in benevola attesa. I tentativi del partito d'azione nel 1862 non lo trovarono consenziente. E quando dolorosamente si giunse alla guerra civile, egli, che non vi aveva partecipato (non andò in Sicilia, sebbene fosse insistentemente invitato), si adoperò a temperarne le tristi conseguenze. In tutto ciò è già racchiuso in germe il distacco definitivo dal Mazzini, proclamato dal C. il 18 marzo 1865. Dopo che fu apertamente passato alla monarchia, il Ricasoli e il Rattazzi gli offrirono un portafoglio nei rispettivi gabinetti, ma egli non volle romperla completamente con la sinistra, e rifiutò. Anzi, quando Garibaldi ritentò la marcia su Roma, il C. si adoperò a creare un'agitazione per spingere il governo ad intervenire nello stato pontificio e aiutarvi l'insurrezione, già iniziata.
Contro il Menabrea il C. fu all'opposizione e condusse furenti campagne nel Parlamento e nella Riforma, che fu il suo quinto giornale. Criticò la legge delle guarentigie, e si oppose al Minghetti quando, infierendo il brigantaggio, propose leggi eccezionali per la Sicilia. Caduta la destra assunse la presidenza della Camera. Nel 1877 intraprese un viaggio all'estero, il vero scopo del quale era di gettare le basi di un'alleanza con la Germania. Fu a Parigi, a Gastein, ove s'incontrò col Bismarck, e a Berlino; ottenne di stipulare un accordo soltanto contro la Francia. Fu anche a Londra e a Vienna, dove la sua idea di ottenere compensi al confine orientale italiano qualora l'Austria uscisse ingrandita dalla guerra russo-turca, ebbe tiepida accoglienza. Tornato in Italia, dichiarò che occorreva armarsi per essere rispettati.
Il 29 dicembre 1877 fu nominato ministro dell'Interno e fece subito la sua prova nel conclave che seguì alla morte di Pio IX. Avendo allora appreso che i cardinali pensavano di riunirsi fuori di Roma per l'elezione del nuovo pontefice, fece sapere ai membri più avveduti del Sacro Collegio, che, se il capo della Cristianità fosse stato eletto fuori, non sarebbe entrato nella città. Sennonché il 7 marzo 1878, in seguito alle accuse di bigamia rivoltegli, ispiratore il Nicotera, per il matrimonio celebrato il 27 gennaio di quell'anno con la Barbagallo (vivente ancora la Montmasson), dovette dimettersi. Le sue dimissioni provocarono quelle dell'intero gabinetto. L'Italia si trovò mal rappresentata nel congresso di Berlino. Gli accordi col Bismarck non ebbero l'effetto che avrebbero potuto avere, se il personaggio, che primo li aveva negoziati, si fosse trovato al posto di comando. Occorse più tardi piegarsi al volere di Vienna per concludere la Triplice.
Contro il Cairoli il C. fu all'opposizione in vista degl'interessi italiani. Ma, poiché il suo atteggiamento fu interpretato come ostacolo alla regolare azione governativa e fonte di discordia, si dimise da deputato (14 giugno 1880). La Camera non accettò le dimissioni. Ritiratosi il Cairoli dopo l'accomodamento di Tunisi (14 maggio 1881), il C. fu designato a succedergli, ma i capi della sinistra, gelosi e timorosi di lui, lo tennero lontano dal potere. Nel luglio 1882 tornò a Berlino senza missione ufficiale, ma con la raccomandazione, datagli dal Mancini, di raccogliere notizie e impressioni utili al paese. Andò pure a Londra.
Durante il gabinetto Depretis fu all'opposizione, e vi durò fino a quando accettò di entrarvi come ministro dell'Interno (4 aprile 1887). Poco dopo, essendo morto il presidente del Consiglio (29 luglio), gli successe nell'alta carica, e, conservando il portafoglio dell'interno assunse altresì la direzione della politica estera. Durante il suo primo ministero (1887-91), l'Italia ottenne una più stretta amicizia con la Germania, il protettorato sul sultanato di Obbia (8 febbraio 1889), il trattato di Uccialli (2 maggio 1889) e la conseguente formazione della Colonia Eritrea (1° gennaio 1890), il riordinamento della giustizia amministrativa (31 marzo 1889), la legge sulle opere pie (1890). Si ebbe invece un peggioramento di rapporti con la Francia, di cui furono conseguenze la rottura delle trattative commerciali e le fortificazioni di Biserta.
Il 31 gennaio 1891 il C., in seguito al voto contrario della Camera, sí ritirò dal governo. Lo riassunse il 15 dicembre 1893, e quella volta tenne solo, oltre la presidenza, il portafoglio dell'interno. Rivolse allora la maggior parte della sua attività a combattere il movimento anarchico, che minacciava di travolgere tutto nel caos. Ristabilito l'ordine, risollevato il morale del paese e restaurata la finanza (non senza pericolo della vita, perché l'anarchico Paolo Lega, recatosi da Lugo a Roma, gli tirò un colpo di rivoltella il 16 giugno 1894), avrebbe potuto specialmente rivolgere le sue cure alla situazione internazionale, che naturalmente aveva risentito delle condizioni interne dell'Italia, quando venne la "questione morale".
Che il C. con qualche suo atto poco controllato offrisse il fianco ai nemici, che lo attaccavano nella condotta privata, è da ammettere; ma non v'è dubbio che le accuse furono esagerate da chi aveva interesse di liberarsi di lui e di sottrarre il governo alle sue mani energiche. Il tentativo fu sventato con lo scioglimento della Camera (15 dicembre 1894), che fu riconvocata cinque mesi dopo. Alla riapertura del Parlamento, il C. si presentò con una trionfale rielezione in sette collegi; e la "questione morale" fu messa da parie.
Anche in quest'ultimo periodo il C. non trascurò di occuparsi direttamente della politica estera, campo da lui sempre prediletto per la sua attività. Trattative furono iniziate per sistemare i rapporti con la Francia riguardo a Tunisi e per rivedere a nostro favore il trattato della Triplice; ma purtroppo furono interrotte dalla caduta del ministero.
Un'altra parte notevole della sua attenzione rivolse il C. alla Colonia Eritrea. Egli non approvò in principio l'impresa di Massaua: gli pareva che per essa l'Italia distraesse la propria attenzione dal Mediterraneo. Ma una volta compiuta la conquista, affermò che si doveva trarne partito e invertire a vantaggio del paese ciò che malamente era stato fatto. Salito al potere dopo Dogali, sebbene avesse il carico degli affari interni, volse l'attenzione alle questioni di politica estera, il che gli fu dato di fare anche a causa della malattia, che assalì il presidente del Consiglio del tempo (1887). Quando poi prese il posto del Depretis, essendo fallito il tentativo di mediazione inglese presso il Negus, mandò in Africa la spedizione San Marzano. Ristabilita la situazione e intavolate trattative con Menelik, re dello Scioa, furono ampliati i territorî occupati dall'Italia e si venne alla firma del trattato di Uccialli e della convenzione addizionale stabilita a Napoli il 1° ottobre con ras Maconnen, e poi alla istituzione della Colonia Eritrea, che comprendeva già Asmara.
Quando il C. tornò al potere nel 1893, trovò la situazione aggravata per le sopravvenute diffidenze di Menelik: diede quindi ordine al governatore Baratieri di tenersi sulla difensiva. Invece, il generale procedette innanzi. Vennero la presa di Cassala (17 luglio 1894), le vittorie di Coatit e di Senafè (gennaio 1895). Il governo ne fu lieto e offrì rinforzi, che furono inviati nella misura richiesta. Quando poi il Baratieri occupò Adua, il C., preoccupandosi delle spese alle quali si sarebbe andati incontro, gli ordinò di arrestarsi e richiamò gli ultimi battaglioni. Avendo però il generale insistito nelle sue richieste, anche queste furono soddisfatte (luglio 1895). Sennonché lo sviluppo delle operazioni e la minaccia incombente da parte di Menelik, richiesero l'ausilio di nuove forze. Si fa colpa al Baratieri di non averle domandate a tempo e nella misura necessaria. Il governo decise di spedirle dopo il fatto di Amba Alagi (7 dicembre 1895), nei limiti delle esigenze della semplice difensiva. Seguirono Adua e la caduta del ministero C. (marzo 1896).
Ritiratosi dal potere, visse in una posizione economica che rasentava la miseria, e in condizioni di salute non buone per una grave malattia d'occhi. Ma sia pure vedendosi fatto segno all'ira dei suoi avversarî, non disperò delle sorti della patria, e, scrivendo al re Umberto il 28 dicembre 1899, così si esprimeva: "Il secolo che si spegne diede alla vostra dinastia il Regno d'Italia: quello che comincia darà potenza e grandezza" (Carteggi politici, p. 542). E a Vittorio Emanuele III, il 21 dicembre 1900, pochi mesi dopo che era salito al trono: "L'unità della patria nostra, conquistata dalla dinastia di Savoia e dal popolo italiano, sarà completata nel secolo nuovo col benessere e con la grandezza, cui la Nazione ha il diritto di aspirare. Sarà gloria del regno di V. M. il raggiungere la meta da tutta Italia desiderata" (ivi, p. 456).
Opere: Scritti e discorsi politici (1849-90), Torino I890; Il Mille, 2ª ed., Milano 1927; Politica estera, Milano 1912; Questioni imernazionali, Milano 1913; La prima guerra d'Africa, Milano 1914; Politica interna, Milano 1924; Carteggi politici inediti (1860-1900), Roma 1912; Lettere dall'esili0 (1860-1860), Roma 1918; Ultimi scritti e discorsi extraparlamentori (1891-1901), Roma 1913; Pensieri e profezie, Roma 1920; Discorsi elettorali, Roma 1887; Discorsi parlamentari, voll. 3, Roma 1915.
Bibl.: G. Castellini, Crispi, 2ª ed., Firenze 1924; A. C. Jemolo, Crispi, Firenze 1922; G. Salvemini, La politica estera di F. C., Roma 1919 (ostile al C.); G. Pipitone-Federico, L'anima di F. C. Carteggio intimo sulla politica del Risorgimento italiano, Palermo 1910; A. Billot, La France et l'Italie. Histoire des années troubles: 1881-1899, Parigi 1905, voll. 2; T. Palamenghi-Crispi, L'Italia coloniale e F. C., Milano 1928; B. Croce, Storia d'Italia dal 1871 al 1915, Bari 1928; G. Volpe, L'Italia in cammino, Milano 1928; id., Crispi, Venezia 1928; F. Ercole, F. C., in Politica, 1930. Per l'anno di nascita, che generalmente si crede sia il 1819, Panormus, marzo-aprile 1920.