CRISPO MONCADA, Francesco
Nato a Palermo il 9 maggio 1867 da Pietro Crispo e da Elena Moncada, compì gli studi nella città natale laureandosi in giurisprudenza. Ammesso per concorso nel gennaio 1891 alla carriera amministrativa provinciale del ministero dell'Interno, fu nominato il 16 aprile alunno di prima categoria e destinato alla prefettura di Palermo. Nel 1899 fu trasferito al ministero e assegnato alla direzione generale delle carceri nella divisione fabbricati, lavorazioni e mantenimento. Chiamato nell'agosto 1901 a svolgere funzioni di consigliere nella prefettura di Palermo, vi rimase alcuni anni ricevendo anche una menzione onorevole per i servizi svolti in occasione del terremoto del 1908. Nel marzo 1913 fu trasferito a Ferrara, ove non restò a lungo, poiché nel novembre fu inviato in qualità di commissario regio presso l'amministrazione comunale di Messina. Nell'ottobre dell'anno seguente ricevette analogo incarico presso il comune di Ancona. Il 30 maggio 1915, pochi giorni dopo l'entrata dell'Italia nel conflitto mondiale, il C. venne chiamato in servizio presso il comando supremo, ove rimase fino alla fine del 1917. Nel gennaio 1918 fu nominato segretario generale del patronato Regina Elena per gli orfani del terremoto.
Dopo essere stato inviato, nell'estate 1919, in missione a Torino, il C., nel frattempo divenuto viceprefetto, dall'ottobre di quell'anno fu posto a disposizione dei Commissariato generale civile per la Venezia Giulia, con sede a Trieste, ove lavorò alle dirette dipendenze del commissario A. Mosconi. Il 4 apr. 1920 fu nominato prefetto di Benevento, sede che però non raggiunse perché posto a disposizione dei ministero grazie alle pressioni esercitate da F. Salata, capo dell'Ufficio centrale per le nuove province, su E. Flores, capo di gabinetto di F. S. Nitti, affinché il C. fosse lasciato a Trieste (Arch. centrale dello Stato, Presidenza del Consiglio, Ufficio centrale per le nuove province, b. 3). Dalla città giuliana egli si dovette comunque allontanare nel 1921, allorché fu nominato prefetto di Treviso. Qui il C. rimase poco più di un mese, venendo posto poi nuovamente a disposizione del ministero e, dal novembre, tornò a Trieste come vicecommissario civile, sostituendo sempre più spesso il Mosconi afflitto da problemi di salute. Dopo le dimissioni di questo (agosto 1922), il C. dal 1° novembre fu nominato prefetto della Venezia Giulia, cui erano demandate le competenze del Commissariato generale civile soppresso il 17 ottobre.
Nei venti mesi in cui ricoprì tale incarico, il C. ebbe modo di segnalarsi come funzionario preparato, scrupoloso e poco incline ad appoggiare le violenze dei fascisti, come dimostrò subito fronteggiando con energia la grave situazione determinatasi per la questione fiumana. Nel novembre 1922 avvertiva il ministero di essersi adoperato per impedire la partenza di volontari fascisti per Fiume e un mese dopo prendeva contatti con la marina militare per ostacolare le iniziative dei "fascisti dissidenti".
Obiettivo costante della sua azione fu quello di evitare l'acuirsi dei contrasti tra lo squadrismo e i fascisti più moderati che erano riusciti ad occupare i posti chiave delle amministrazioni locali. In un rapporto del marzo 1923 egli - richiamando l'attenzione del ministero sulla crisi del fascio locale - esprimeva il timore che si verificassero "gravi incidenti" e chiedeva istruzioni sulle misure da adottare (Arch. centrale dello Stato, Ministero dell'Interno, Gabinetto on. Finzi, Ordinepubblico, 1922-1924, b. 10). Analoghe preoccupazioni formulava a proposito dell'azione del sindacato fascista di Monfalcone nei confronti della direzione dei cantieri navali. Quando venne indetto uno sciopero contro sessantacinque licenziamenti, il C. scrisse al ministero che tale iniziativa, conseguenza di una "deterininazione quanto mai inconsiderata e precipitata", avrebbe soltanto contribuito ad aggravare la situazione dell'ordine pubblico. A tale riguardo egli - ribadendo che la federazione provinciale dei Fasci "si era ben guardata dal preavvisare l'autorità politica", unica responsabile dell'ordine pubblico nella provincia - suggeriva di indurre i sindacati fascisti a "contenersi nella risoluzione delle questioni economiche e del conflitto fra capitale e lavoro" (Ibid., Prefettura della Venezia Giulia, Gabinetto, n. 054-1709, 23 marzo 1923).
La fama di funzionario capace e non particolarmente legato al fascismo fu, con molta probabilità, all'origine della sua chiamata da parte di Mussolini alla, direzione generale di Pubblica Sicurezza, in concomitanza con le aspre critiche che investirono il governo dopo il delitto Matteotti. Il Consiglio dei ministri" del 16 giugno 1924 decise un radicale mutamento ai vertici del ministero dell'Interno: Mussolini lasciò l'incarico di ministro in favore di L. Federzoni, De Bono fu sostituito dal C., e lo stesso questore di Roma, C. Bertini, fu costretto a lasciare il suo posto. Questo ampio avvicendamento tendeva a restringere le dimensioni della crisi, riconducendola ad aspetti prevalentemente tecnici, come sosteneva il Popolo d'Italia del 17 giugno 1924, secondo cui essa era limitata alla "funzionalità degli organi di polizia", di modo che la direzione della Pubblica Sicurezza era "logicamente" passata ad un alto funzionario dell'amministrazione, a un "tecnico di polizia e di reggimento interno".
La nomina dei C. era comunque giunta piuttosto inattesa: ancora il 17 giugno Il Popolo e La Tribuna scrivevano che il De Bono sarebbe stato rimpiazzato dal generale R. Graziani o da E. Palmieri. Lo stesso C., in un'intervista al Popolo del 19 giugno, si mostrava sorpreso, dichiarando che l'incarico gli era giunto inaspettato, e affermava che nel nuovo ufficio avrebbe improntato tutta la sua attività al "rispetto assoluto della legge". Cinquantasettenne, "gentiluomo di vecchio stampo" (Leto, p. 17), "funzionario all'anticay piuttosto moderato" (Bartoli, p. 123), ritenuto vicino ai nazionalisti, il C. arrivava dopo una più che trentennale carriera in un posto cardine dell'amministrazione statale in un momento in cui il fascismo sembrava vacillare.
Nei primi giorni dopo il suo insediamento il C. dovette affrontare il problema delle manifestazioni popolari di protesta per l'assassinio di Matteotti. Al riguardo egli fu molto cauto, sia nei confronti dei manifestanti, sia nei confronti del governo: in un appunto a Mussolini del 20 giugno minimizzò la portata della protesta, affermando che le condizioni dell'ordine pubblico si erano mantenute "generalmente normali".
Il problema fondamentale era quello di restituire al ministero dell'Interno la papacità di controllare la situazione in periferia. Emblematiche di tale indirizzo sono alcune circolari telegrafiche ai prefetti in materia di ordine pubblico, nelle quali si ribadiva che occorreva conformarsi "al principio fondamentale" secondo cui la repressione dei reati competeva soltanto alle autorità dello Stato e si raccomandava ai prefetti di rinnovare una ferma ed efficace azione persuasiva presso i dirigenti dei Fasci locali affinché venisse ripristinata la normalità (Arch. centrale dello Stato, Ministero dell'Interno, Direzione Generale di P. s., Divisione AA. GG. e riservati [1925], b. 85). Lo stesso ministro dell'Interno, rievocando quegli anni, avrebbe affermato che suo obiettivo principale era stato quello di combattere l'influenza dei vari "ras" locali nelle diverse province e di ridare prestigio e autorevolezza ai prefetti (L. Federzoni, Memorie, in L'Indipendente, 11 giugno 1946). Il Federzoni, affiancato dal suo capo di gabinetto G. Gasperini (poi divenuto pftsidente della Corte dei conti), e il C., coadiuvato dal vice capo della polizia E. Ramaccini, anche lui funzionario di carriera, costituirono ai vertici del Viminale (nonostante la presenza di Dino Grandi, inviato da Mussolini - secondo Federzoni - con compiti di controllo) un gruppo che attuò una linea assai prudente scontrandosi perciò in breve tempo con la volontà di Mussolini tesa, una volta superata la crisi seguita al delitto Matteotti, a trasformare il suo governo in regime.
La defenestrazione del C. maturò in questo clima, anche se fu agevolata dall'occasione di due attentati contro il capo dei governo fascista. Il primo avvenne il 7 apr. 1926 ad opera di un'anziana signora inglese, Violet Gibson, che sparò a Mussolini mentre questi usciva da una cerimonia in Campidoglio, colpendolo di striscio al naso.
Per difendersi dalle accuse di inefficienza mosse dai fascisti all'apparato di polizia, il Federzoni - in una lettera a Mussolini del 16 aprile - offrì le proprie dimissioni e propose la sostituzione dei C. con altro funzionario "gradito ai fascisti" come Bocchini o Mori; ma nel contempo difendeva il proprio collaboratore: "Non posso dimenticare che egli fu il grande prefetto della seconda redenzione di Trieste e che, chiamato a Roma in un'ora oscura, seppe ricostituire, con un ardimento e una dedizione di sé insuperabili, un organismo in isfacelo morale e tecnico quale era la Direzione generale della P. S., il giorno in cui egli ne accettò il carico. Conosco i grandi servigi che egli ha reso al regime, dando costante esempio di purissimo patriottismo e di ammirevole equilibrio, anche quando l'intrigo degli incoscienti e la calunnia dei malvagi cercarono di attraversare la sua opera e di negarne la benemerenza".
Accantonata da Mussolini per il momento ogni idea di mutamento ai vertici dei Viminale, il C. diresse personalmente le- indagini sull'attentato; su segnalazione di agenti del partito fascista, si segui la pista di una fantomatica setta irlandese di cui faceva parte il fratello della Gibson. L'incarico di condurre l'inchiesta fu affidato poi dal C. a un giovane funzionario, G. Leto, che giunse alla conclusione che la tesi del complotto politico non aveva alcun fondamento.
L'episodio che segnò definitivamente le sorti del C. fu l'attentato compiuto l'11 sett. 1926 dall'anarchico Gino Lucetti, il quale, mentre Mussolini transitava in automobile per Porta Pia, lanciò una bomba che mancò il bersaglio. Stavolta le reazioni dei fascisti furono più violente; il fatto che l'attentatore provenisse dalla Francia diede loro il pretesto per azioni contro le rappresentanze francesi in Italia. Nei due giorni convulsi che precedettero la sua rimozione, il C. si affannò a raccomandare ai prefetti e al questore di Roma il rafforzamento della vigilanza presso i consolati e l'ambasciata di Francia.
Da allora il C. - che nel frattempo era stato nominato consigliere di Stato (31 ott. 1925) e successivamente prefetto di prima classe (26 giugno 1926) - ritornò nell'ombra. 1 suoi rapporti con il governo - nonostante lasua nomina a senatore (22 dic. 1928) - non dovettero essere molto buoni, al punto che informazioni di polizia riferivano di sue critiche alla progettata spedizione contro l'Etiopia e all'operato delle autorità della Venezia Giulia. Al Senato non operò con assiduità: dalla sua nomina fino al 1940 fu membro ordinario della commissione permanente di istruzione dell'Alta Corte di giustizia (di cui era presidente M. D'Amelio) e, successivamente, membro della commissione Lavori Pubblici e Comunicazioni. Nel Consiglio di Stato fece parte della prima sezione, nella quale vi erano, tra gli altri, il suo successore Bocchini, A. Giannini, M. Castelli e il suo vecchio superiore a Trieste, Mosconi, svolgendo un'azione abbastanza limitata, costituita soprattutto da arbitrati in controversie. Poco prima dei suo collocamento a riposo, disposto per anzianità il 3 maggio 1937 con il riconoscimento del titolo onorifico di presidente di sezione dei Consiglio di Stato, il C. era stato nominato vicepresidente della sezione speciale per i tributi degli enti locali della commissione centrale per le imposte direttedel ministero delle Finanze. Di tale sezione egli divenne presidente negli anni successivi.
Nel dopoguerra l'isolamento del C. dalla vita pubblica si accentuò ancor più. L'unico incarico che conservò fu quello, risalente al 1939, di consigliere d'amministrazione della società di navigazione Tripcovich con sede a Trieste.
Il C. morì a Roma il 19 luglio 1952.
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