D'AMBRA, Francesco
Nacque a Firenze il 29 luglio 1499 da Giovanni e Costanza da Filicaia. La sua famiglia fu nobile e molti dei suoi membri coprirono onorevoli cariche pubbliche.
Poco si sa della giovinezza del D'Ambra. Nel 1527 fu dichiarato abile al Consiglio grande e, essendo immatricolato nell'arte del cambio, potè partecipare alla vita politica del tempo e ricoprire cariche pubbliche. Frattanto si era sposato con Ginevra di Niccolò Biffoli dalla quale nel 1538 ebbe il figlio Vincenzo.
Questi si matricolò nell'arte della seta di Por Santa Maria il 6 febr. 1555; sposò Ginevra del Nente; entrò a far parte del Collegio il 16 marzo 1563 e fu podestà di Campi (1588), di Caprese (1600 e 1608) e di Montevarchi (1605). Parecchi membri della famiglia D'Ambra appaiono matricolati in altre delle arti maggiori. Il De Benedetti (p. 6) cita, senza specificare la pagina, una nota del fiorentino codice Marucelliano A. CXLV: "G.B. di Vincenzo di Francesco D'Ambra si matricolò per l'arte della Lana l'anno 1616, e per avanti si era matricolato per l'istessa arte Fabio di Vincenzo di Francesco D'Ambra l'anno 1608". Ma la vocazione della famiglia per l'arte della lana era più antica; già nel 1494 vi si trovava iscritto Bartolomeo di ser Francesco di Domenico D'Ambra.
Il De Benedetti, che pubblica l'albero genealogico della famiglia D'Ambra, nota anche che diverse famiglie imparentate con casa D'Ambra, come i Gondi e i Pepi, ebbero un posto notevole nella storia dei traffici fiorentini.
Il D. fu amico di Cattani di Diacceto filosofo platonico seguace di Marsilio Ficino. Il Gabotto poneva il D. fra i fondatori, nel 1540, dell'Accademia degli Umidi, poi Fiorentina, insieme ad A. F. Grazzini. Il De Benedetti, sulla scorta degli Annali dell'Acc. Fiorentina già degli Umidi, I, ms. della Biblioteca Marucelliana di Firenze (non riporta però la segnatura di detto manoscritto) ha precisato invece che il D. fu ammesso a far parte dell'Accademia nel 1541. Comunque, se non fu proprio il fondatore, fu tra i primi a farne parte. La sua partecipazione alla vita dell'Accademia consisteva principalmente - come quella di altri membri - nel tenere conferenze e lezioni sui maggiori poeti toscani. Oggetto delle lezioni dei D. era di preferenza il commento dei sonetti petrarcheschi. Nel 1543 fu eletto consigliere del console dell'Accademia. Nel 1544 venne messa in scena la sua prima commedia, Il furto, il cuiinsolito titolo aveva suscitato un certo scandalo. La commedia era stata composta a istanza di Antonio del Giocondo, amico dell'autore, e fu rappresentata per la prima volta nella sala dell'Accademia Fiorentina, detta sala del papa, l'8 nov. 1544. Alcuni giorni dopo il duca Cosimo de' Medici, informato del successo, espresse il desiderio di assistere a una nuova rappresentazione di essa. La prima edizione del Furto apparve postuma, a Firenze, nel 1560, con prefazione di Frosino Lapini.
Ecco in breve la trama: il vecchio medico Cornelio, avendo perso durante il sacco di Roma la moglie e la figlioletta, ed il figlio Valerio in un naufragio, desidera risposarsi con la giovinetta Camilla. Ma la fanciulla ama, riamata, Mario il quale le propone di fuggire con lui per evitare a sua volta le nozze con la vedova di Valerio. A questa si interseca un'altra storia d'amore fra Gismorido Castrucci e Aurelia, che era stata strappata dai corsari al padre Guicciardo Gualandi e si trovava nelle mani di Rinuccio Corso. Per ottenere la fanciulla Gismondo Castrucci finge di essere il vero padre di lei e promette a Rinuccio come ricompensa centocinquanta scudi in tanti drappi trafugati al fratello. Da qui il titolo della commedia che si scioglie dopo diverse peripezie col riconoscirnento finale. Camilla infatti, la fanciulla che Cornelio voleva sposare, risulterà sua figlia, riscattata dai Lanzi da un gentiluomo. Ma anche il figlio Valerio, creduto annegato, salterà fuori all'improvviso, permettendo così i due matrimoni tra Mario e Camilla e Gismondo e Aurelia. Nel prologo del Furto, oltre a difendere la propria opera dalle eventuali accuse, il D. attaccava i preti, "la qual gente di che sorte sia lo sa tutto il mondo", colpevoli della corruzione di Roma. Forse per questo il Gabotto ha potuto chiamarlo spirito ribelle al suo tempo (fasc. 1, n.n.).
Il successo avuto come commediografo favorì l'ascesa del D. alle cariche maggiori dell'Accademia: consigliere, censore, membro della balia, console.
Forse nell'ottenere quest'ultima carica non gli era mancato l'appoggio di Cosimo I, al quale, tra la fine del 1547 e l'inizio del 1548, aveva dedicato la sua seconda commedia, i Bernardi, dove non lesinava lodi al principe "che fa ragione a ognuno", al principe "giusto" per eccellenza. La prima edizione dei Bernardi. (Firenze 1564), reca una lettera dedicatoria di F. Lapini a C. Saracini. Per stabilire la data di composizione della commedia il De Benedetti si è basato sul prologo da cui si può dedurre che venne composta tre anni dopo il Furto.
Mentre il Furto è in prosa, i Bernardi sono scritti in versi sdruccioli. Per chiarire questa differenza, De Benedetti riporta la lettera dedicatoria della commedia a Cosimo de' Medici, che egli potè reperire nel ms. Magliabechiano VIII, 29, della Bibl. naz. di Firenze: forse si tratta dell'esemplare inviato dal D. a Cosimo, in cui lo stesso autore motiva la sua scelta: "Et quantunque dalla maggior parte de' moderni compositori di comedie nella nostra lingua si usi la prosa come più conveniente a' familiari ragionamenti che in quella si ricercano, che il verso, io non di meno ho giudicato non essere fuor di proposito usare il verso, et ciò si è fatto da me per ciò che ragionevole cosa pare, essendo la Comedia un poema et tutti quanti li poemi ricercando al iudicio universale de' dotti il verso ..." (De Benedetti, pp. 31 s.). Notevole inoltre nella lettera l'insistenza con cui il D. parla dei benefici ricevuti da Cosimo e gli offre la commedia come espressione della propria gratitudine.
Molto complicata è la trama dei Bernardi poichè, oltre alla sostituzione dei vari Bernardi, si intrecciano alla vicenda diversi innamoramenti. La commedia infatti si conclude, oltre che con i dovuti riconoscimenti, con quattro matrimoni. In breve, Giulio Fortuna, fuggito dalla Sicilia in seguito a una rissa, ripara prima a Genova, presso il suo amico Bernardo Spinola e poi a Firenze come familiare di Fazio Ricoveri assumendo il nome dell'amico genovese. L'intreccio attraverso la complicanza delle vicende dimostra una certa originalità d'invenzione, all'interno naturalmente dei modelli latini. Ma più che ai Menaechmi di Plauto, i Bernardi sono stati avvicinati ai Suppositi. Anche nella commedia dell'Ariosto l'idea principale è lo scambio di nome tra due persone con tutti gli equivoci che ne possono seguire. Se si confronta la scena quinta dell'atto quarto dei Suppositi con la scena nona dell'atto quarto dei Bernardi si vedrà che le somiglianze non si limitano alla trama, in quanto le due scene sono strutturalmente identiche. In questo caso il modello di un autore moderno è stato più rilevante di quello antico.
Il 14 giugno 1548 il D. fu chiamato a far parte del Collegio. Il 22 nov. 1551 l 'Accademia lo elesse riformatore della lingua toscana in una commissione di cinque membri che comprendeva il Varchi e il Giambullari. Purtroppo gli annali dell'Accademia si fermano al 1552 e gli ultimi anni di vita del D. si possono ricostruire solo tramite congetture. Il D. morì infatti a Roma, ma non si sa quando vi si fosse trasferito nè per quale ragione.
Il De Benedetti pone tra il 1550 e il 1555 la composizione della Cofartaria. Infatti l'azione della commedia si svolge nel 1549-50, mentre nel 1555 viene pubblicato un sonetto del Varchi dedicato al D. che accenna all'interruzione dell'attività drammatica del D. (De Benedetti, p. 13). La commedia venne recitata soltanto dopo la morte dell'autore il 25 dic. 1565, in occasione delle nozze di Francesco de' Medici con Giovanna d'Austria. L'anno seguente si ebbe la prima edizione della Cofanaria a Firenze per i figli di L. Torrentino e C. Pettinari. Anche la Cofanaria è in versi sdruccioli. Il titolo le deriva da due cofani che avranno una parte rilevante nell'azione scenica e da una lunga tradizione cha va dalla Cistellaria di Plauto alla Cassaria di Ariosto. La trama non si discosta molto da quella del Furto: Bartolo desidera dare in moglie al proprio figlio Ippolito la giovane Laura, creduta vedova di Claudio Fidamanti e figlia del vecchio Ilario. Ippolito, che ama Marietta e non Laura, cerca di evitare il matrimonio. Finalmente si viene a sapere che Claudio non è morto e quindi Laura non è più vedova, mentre Marietta risulta essere figlia dello stesso Ilario.
Il D., come molti commediografi del '500 - si pensi al Bibbiena - ha insistito molto sulla "novità" delle sue commedie. Nel prologo dei Bernardi affermava che la commedia non sarebbe uguale a quelle di Terenzio o di altri autori latini, "ma tal qual producono i tempi nostri, che non sendo simili a quelli antichi, non è anche un miracolo se non son simili gli uomini e le favole da lor composte s. Bisogna tuttavia tener presente che, per i commediografi cinquecenteschi, l'esaltazione della commedia "nuova" non significava abbandonare i moduli e i temi delle commedie plautine e terenziane, ma calarli nella realtà contemporanea. Lo stesso ricorso ad avvenimenti contemporanei come il sacco di Roma nel Furto (V, 14) o il continuo riferimento a fanciulle rapite dai Turchi, spesso è stimolato, mutatis mutandis, dall'esempio delle palliate, in cui le agnizioni risolutive venivano determinate dalle complicate vicende dei personaggi attinte dalla storia contemporanea. Anche per quanto riguarda la funzione del prologo il D. vuol prendere le distanze dalla tradizione e nei Bernardi scrive un prologo dichiarandosi "contro" il prologo, vale a dire contro l'esposizione dell'argomento. La spiegazione della trama viene da lui affidata all'azione dialogata, ma lo spunto era già di Terenzio. I tipi della sua commedia sono quelli della commedia latina: servi astuti che si divertono alle spalle di vecchi innamorati di fanciulle, sicofanti, ma figurano anche personaggi attinti alla realtà del tempo come il negromante o il medico. Sicchè non si può consentire col Sanesi nell'affermare che le sue commedie "si allontanano considerevolmente dagli esemplari latini" (La commedia, p. 286). È vero altresì - come aggiungeva lo stesso Sanesi - che in esse l'intreccio è molto più complicato e che anche il teatro e la letteratura drammatica contemporanei offrivano modelli da imitare. Così la scena della Cofanaria in cui Ippolito si nasconde in un baule per farsi portare a casa della fanciulla amata, ma poi finisce nelle mani dei birri, corrisponde all'analoga scena della Calandria del Bibbiena. La comicità delle sue commedie scaturisce spesso dagli equivoci, dai quiproquo, procedimento molto sfruttato nel teatro dei '500.
Il D. scrisse anche una Storia dei suoi tempi, che non ci è pervenuta, e intraprese la traduzione delle Storie del Sabellico. Entrambe le opere furono interrotte dalla morte, avvenuta a Roma alla fine del 1558. La traduzione dell'opera latina, conservata ms. all'inizio del sec. XVIII da G. B. e da V. D'Ambra, oggi è perduta.
Le sue opere furono edite in Teatro comico fiorentino, V, Firenze 1750 (ciascuna commedia ha un suo speciale frontespizio e una speciale numerazione) e in Teatro classico italiano, Trieste 1858; il Furto è edito in Commedie del Cinquecento, a cura di A. Borlenghi, Milano 1959, II, pp. 9-115; i Bernardi, in Commedie del Cinquecento, a cura di I. Sanesi, Bari 1912, II, pp. 295-441.
Fonti e Bibl.: Notizie biografiche si possono trarre dalle prefazioni di Frosino Lapini alle edizioni del Furto, Firenze, Giunti, 1560 e dei Bernardi, ibid. 1564; lo studio più approfondito sulla vita del D. è quello di E. De Benedetti, Lavita e le opere di F. D., Firenze 1889; si limita allo studio dei personaggi delle commedie del D. F. Gabotto, D. e le sue commedie, in La Letteratura, II (1887), 1-8, pp. n. n. Cfr. inoltre S. Salvini, Fasti consolari dell'Accademia fiorentina, Firenze 1717, p. 83; L. Allacci, Drammaturgia. Venezia 1755, pp. 144, 203, 851, 860; G. Fontanini, Biblioteca dell'eloquenza ital., Parma 1803, I, pp. 394, 426; J. L. Klein, Geschichte des Dramas, Leipzig 1866-68, IV, pp. 707 s.; M. Apollonio, Storia del teatro italiano, Firenze 1940, pp. 141 s.; I. Sanesi, La commedia, I, Milano 1944, pp. 285 ss.; A. Ronconi, Prologhi "plautini" eProloghi "terenziani" nella commedia italiana del500, in Il teatro classico italiano nel 500, Atti delConvegno dell'Acc. naz. dei Lincei, in Problemiattuali di scienza e di cultura, n. 138, Roma 1971, pp. 198-201; Il luogo teatrale a Firenze (cat. della mostra), Firenze 1975, pp. 23 ss.; L. Zorzi, Il teatro e la città. Saggi sulla scena italiana, Torino 1977, pp. 88, 91, 101, 201, 204, 209; Enc. d. Spett., IV,col. 35.