Francesco d’Assisi
Nato ad Assisi nel 1182 e ivi morto nel 1226, san Francesco viene dantescamente citato da M. in binomio con san Domenico – ma insieme a san Girolamo nell’Esortazione alla penitenza – in Istorie fiorentine I xx 12, in modo piuttosto conciso, e più estesamente in Discorsi III i, dove è chiamato a dare esemplificazione storica di una specifica legge che governa la fisiologia dei «corpi misti», civili o religiosi che siano: ovvero, la necessità che essi siano periodicamente ricondotti a quella condizione originaria che costituì la ragione del loro essersi affermati. «A volere che una sètta o una republica viva lungamente» – recita la rubrica di quel capitolo – «è necessario ritirarla spesso verso il suo principio». «Sètta» tra le «sètte», «corpo misto» tra i «corpi misti», la religione cristiana conferma con le sue vicende tale necessità di un ritorno alle origini:
quanto alle sètte, si vede ancora queste rinnovazioni essere necessarie per lo esemplo della nostra religione; la quale se non fossi stata ritirata verso il suo principio da Santo Francesco e da Santo Domenico sarebbe al tutto spenta. Perché questi, con la povertà e con lo esemplo della vita di Cristo, la ridussono nella mente degli uomini, che già vi era spenta; e furono sì potenti gli ordini loro nuovi che ei sono cagione che la disonestà de’ prelati e de’ capi della religione non la rovinino, vivendo ancora poveramente e avendo tanto credito nelle confessioni, con i popoli, e nelle predicazioni, che ei danno loro a intendere come egli è male dir male del male, e che sia bene vivere sotto la obedienza loro, e se fanno errore lasciargli gastigare a Dio; e così quegli fanno il peggio che possono, perché non temono quella punizione che non veggono e non credono. Ha adunque questa rinnovazione mantenuto, e mantiene, questa religione (Discorsi III i 32-34).
Se quindi la ‘regola’ di cui il capitolo tratta impone di dire che il «ritirare verso i principii» è fonte di ritrovata vitalità per la «sètta» o la «repubblica» in seno alla quale si opera tale «riduzione», allora indubbiamente quanto accadde nel 13° sec. alla «sètta» cristiana, prossima ormai a spegnersi «al tutto», costituisce un’ulteriore e ben significativa conferma dell’assunto. Più che la ‘regola’ e la sua conferma, si direbbe tuttavia che nel caso specifico, con uno di quei trapassi argomentativi e di registri espressivi che gli sono consueti, a M. interessi il risultato a cui mise capo l’operato dei due santi, i quali, con la dubbia virtù della «povertà» e con «lo esemplo della vita di Cristo», crearono «ordini» così potenti da sostenere «prelati» e «capi della religione», la «disonestà» dei quali avrebbe altrimenti condotto presto a definitiva ‘rovina’ quella «sètta». Viene qui istituito un nesso diretto tra «lo esemplo della vita di Cristo», rinnovato da Francesco e da Domenico, e la «disonestà» impunita e vincente dei prelati e dei capi della «nostra religione»: in effetti, M. osserva che Francesco e Domenico agirono bensì nello spirito della loro religione, con lealtà ed efficacia, tant’è che, proprio per questo, possono essere portati a esempio di coloro che effettivamente ritirarono una «sètta» verso i «principii»; eppure, la conseguenza dell’opera loro non è stata altra che l’aver mantenuto e mantenere «la disonestà de’ prelati e de’ capi della religione», sottratti al giudizio dei popoli e rinviati a un giudizio divino nel quale essi stessi «non credono».
È questo forse il giudizio più aspro che nei confronti del cristianesimo si incontra nei Discorsi, poiché non è più questione solamente del cristianesimo come religione, e quindi come organismo storico suscettibile di varia interpretazione e sviluppo, ma in esso vengono chiamati direttamente in causa il suo eroe eponimo e i suoi più puri interpreti, così puri che attraverso di essi, con la massima trasparenza, è l’insegnamento stesso del «legislatore» di quella religione che parla (è questa l’unica volta in cui il nome di Cristo viene fatto esplicitamente in tutta l’opera storico-politica di M.). Figure grandi, dunque, quelle di Francesco e Domenico, ma – nella logica tutta politica di M. – oggettivamente nefaste.
Bibliografia: G. Sasso, Niccolò Machiavelli, 1° vol., Il pensiero politico, Bologna 1993, pp. 617-22; E. Cutinelli-Rendina, Chiesa e religione in Machiavelli, Roma-Pisa 1998, pp. 248-52; G. Sasso, Su un passo di Machiavelli. Discorsi I 12, 10-14, «Annali dell’IISS», 2006-2007, 22, pp. 157-75; A. Gnoli, G. Sasso, I corrotti e gli inetti. Conversazioni su Machiavelli, Milano 2013, p. 61.