Francesco d’Assisi
A Francesco d’Assisi (1181 o 1182 - 1226), fondatore dell’Ordine dei Minori, santo, e protagonista di un rinnovamento spirituale fondamentale nella storia della cristianità, le fonti attribuiscono numerosi testi, tutti in latino. In latino sono anche i due soli autografi pervenuti: la chartula pergamenacea conservata nella Basilica di Assisi, che contiene su un lato le Laudes Dei altissimi e sull’altro la Benedictio fratri Leoni, e l’Epistola fratri Leoni, esposta nel Duomo di Spoleto.
Appare dunque ancor più significativa la decisione di Francesco di usare il volgare per le Laudes creaturarum o Canticum fratris solis, la sola opera di sicura attribuzione nella nuova lingua se, per le ragioni esterne e le caratteristiche tecnico-stilistiche e linguistiche invocate da Baldelli (1983b), si ritiene apocrifa la ‘prosa’ ritmica Audite poverelle dal Signore vocate (di altro avviso Menichetti 1979; Brambilla Ageno 1980). L’adozione del volgare, meditata, legata a quella funzione magico-sacrale della parola, orale e scritta, tanto cara a Francesco, è motivata sia dall’esigenza di dire qualcosa di fondamentale in un momento cruciale della sua esistenza terrena (Baldelli 1987: 40) sia dalla consapevolezza che il volgare, appena screziato da una tenue coloritura locale, ha raggiunto la stessa dignità del latino.
Il Cantico, inno di lode e ringraziamento a Dio per l’utilità e lo splendore del creato, inclusi i patimenti e la stessa morte, per l’alta ispirazione e i risultati d’arte attinti, è considerato il primo documento della nostra tradizione poetica. Per il testo, all’ediz. Branca (1950), a cui aderisce Brambilla Ageno (1959), fondata su una valutazione dei vari codici, si contrappone quella di Casella (1943-1950), basata sul ms. 338 della Biblioteca Comunale di Assisi (oggi alla Biblioteca del Sacro Convento), da cui dipenderebbero gli altri testimoni. All’autorevolezza di questo più antico latore della tradizione (terzo quarto del Duecento, se non addirittura degli anni Cinquanta; Pellegrini 2002: 302-311), si attiene anche Contini (1960: I, 29-34 e 794-795).
La lingua del Cantico è segnata dall’elevata presenza di ➔ latinismi, come si conviene a un testo che tanto deve alla tradizione salmistica e scritturale. Sono grafie etimologiche, per es., le h- iniziali in herba, homo, honore, humile, humilitate, le scrizioni ‹ct› per l’occlusiva dentale sorda t intensa tra vocali o debole dopo consonante (fructi, nocte, con anche l’anetimologico tucte, e sanctissime) e ‹cti›, ‹ti› intervocalici per l’affricata alveolare sorda z (benedictione, pretiose, pretiosa, rengratiate, significatione, spetialmente, con conguaglio tra -cj- e -tj- già del lat. mediev., tribulatione).
Di tradizione volgare, italiana e transalpina (Baldelli 1983a: 576), è invece l’uso di ‹k› per l’occlusiva velare sorda nelle voci più distanti dal latino (ka, ke, konfano e skappare), contro l’uso di ‹c› in parole latineggianti o che trovano riscontro nel latino (casta, clarite, coloriti, corporale, creature, cum e con, focu, incoronati, iocundo, peccata e seconda). Inadeguata, ma in accordo con i più antichi documenti in volgare, la resa di l palatale in nol «non gli (a loro)» e serviateli (con clitico in funzione di dativo); innovativo infine anche il digramma ‹cq› (altrimenti sempre ‹q›) per rappresentare il rafforzamento fonosintattico (➔ fonetica sintattica) in a.cquelli.
A livello fonetico sono ancora vincolate al latino le forme monottongate bon, focu, homo e pò, peraltro congruenti con l’esito locale (➔ umbro-marchigiani, dialetti). Il dittongo manca anche in celu. Di ragione etimologica anche il vocalismo tonico di dignu, multo, iocundo, secunda e quello atono di nubilo, sustenta, -amento, tribulatione e voluntati, la conservazione del dittongo in laude e laudato, quella dei nessi di consonante iniziale + l in clarite e flori e di -dj- tra vocali in radiante e inoltre di aqua (mera grafia), matre e delle forme non apocopate infirmitate, humilitate e voluntati.
Alla componente latineggiante si riconducono le moderate venature locali, tipiche dell’➔italia mediana, testimoni dell’originaria patina assisana del Cantico. In assenza del fenomeno più caratterizzante (la metafonesi) promossa da -i finale, per cui flori, noi, quelli e non fluri, nui, quilli), il tratto fonetico rilevante, di cui non residuano però che pochi relitti nei testi trecenteschi per la forte pressione del volgare di Perugia, è la conservazione di -u finale, solo da lat. -u(m): Altissimu (ma poi Altissimo), nullu, dignu, ellu, bellu (ma anche bello), celu, focu e nullu; in tutto 8 casi, di cui 6 solo nei primi 11 versi, contro la ventina di occorrenze di -o, che rendono plausibile il sospetto di un intervento livellatore del copista su un antigrafo più ricco di -u.
Dipendono dal fondo locale anche le rare tracce di preferenza per e protonica (ma sempre i in Signore e nei latinismi Altissimu, -o, infirmitate, nubilo e addirittura sirano) in de, rengratiate e se (sostenuta in tutti e tre i casi dal lat.) e in ennallumini (altrimenti in e incoronati), nonché l’unico esempio di conservazione di -ar- (trovarà). Sono inoltre tratti municipali ben marcati l’esito dj- > j- in iorno, la conservazione di j- in iocundo, l’assenza di palatalizzazione nella forma onne e l’➔epitesi di -ne in ène.
Circa la morfologia, a parte il plurale neutrale in -a di genere femminile (peccata), la forma forte dell’articolo determinativo, sempre dopo parola terminante per r (tranne lo quale, ma a inizio di verso), le preposizioni articolate scisse (tranne ale univerbata nel ms. 338) tutte con l scempia davanti a iniziale consonantica (da la, ne le), riconducono all’area mediana e meridionale sia la congiunzione ka «perché» (lat. quia), che rende il quoniam delle formule evangeliche delle beatitudini, sia le terze plurali del presente so e sostengo, sia lo scempiamento antitoscano in confano e nei futuri morrano, sirano e sosterrano, sia infine l’imperativo serviateli (pure etimologicamente mutuato dal congiuntivo presente esortativo, come del resto l’antico sie), che regge il dativo «nella forma che in quest’area e in quel tempo era assolutamente normale» (Baldelli 1983a: 574).
A lungo considerato componimento schiettamente istintivo e perciò improvvisato, anche per la sua natura di testo dettato (e forse cantato) ai compagni più vicini, il Cantico è invece opera studiata e ad alto coefficiente di elaborazione letteraria, come mostrano contenuto e veste formale. Il primo palesa una non banale conoscenza dei Salmi, soprattutto quelli finali (CXLVIII-CL), e del Canticum trium puerorum (Dan. III, 51-74), nonché della tradizione scritturale e di altri modelli liturgici ricorrenti negli scritti latini di Francesco. Insistiti e amplificati dall’anafora i richiami alla formula biblica della lode a Dio, modificata tuttavia nel passivo-ottativo indeterminato Laudato si(e), che sul piano dottrinario richiamerebbe il passivo definito teologico dei Vangeli allo scopo di «porre in primo piano l’azione di Dio» a cui solo spetta di pronunciare la lode di sé stesso che merita, essendone indegno ogni essere umano vivente (Pozzi 1992: 3-16).
Nonostante le numerose discussioni, si è ormai pressoché concordi su autenticità, originalità rispetto alle fonti, epoca (ultimi due anni di vita) e luogo di composizione (San Damiano in Assisi), nonché su costituzione del testo e sua ripartizione in lasse (questioni riassunte in Pozzi 1992: 4-6). Assai controverso anche il problema della presunta mancanza di ispirazione unitaria, per l’asimmetria tra le lodi creaturali del 1224 (vv. 1-22), dopo la cosiddetta certificatio della sua salvezza eterna, la lassa del perdono (vv. 23-26) e quella della morte (vv. 27-31) che, secondo la Compilatio Assisiensis e lo Speculum perfectionis, sarebbero state composte rispettivamente nel 1225, per la riappacificazione tra podestà e vescovo di Assisi operata da Francesco, e nell’imminenza della sua morte (1226). Si è tuttavia ormai propensi a ritenere che ciò sia frutto di quella tipica mentalità ‘fiorettistica’ delle fonti francescane più tarde, che tendono a riportare a tre distinti momenti della vita del santo la pur palese divergenza strutturale, con conseguente spostamento della tensione lirica dal piano cosmico a quello della vita morale.
A questa erronea convinzione si collega anche l’estenuante discussione sul valore di compagnia o strumentale ovvero, come propone Casella (1943-1950) e accoglie Contini (1960), di «così come», da assegnare alla preposizione cum e con e soprattutto su quello d’agente «da» (lode resa dalle creature), localistico-mediale «in, attraverso (le creature)», ovvero causale-prolettico o semplicemente causale (lode a Dio in quanto creatore) – come pare oggi preferibile – da attribuire alla preposizione per.
Il Cantico è prosa ritmica assonanzata (anche ó con ù), sporadicamente rimata, destinata al canto probabilmente gregoriano (anche se la notazione musicale sillabica non è stata trascritta nelle tre linee lasciate in bianco nel ms. 338), che si arricchisce dell’ornamento retorico del cursus. Come nelle sequenze liturgiche, si articola in versetti di tipo biblico di estensione varia, in combinazione per lo più binaria (7) o ternaria (3); eccedono tale misura le lasse di frate sole e della morte corporale.
La sintassi è paratattica e apparentemente ripetitiva, incardinata sul giustapporsi di proposizioni principali connesse a relative e causali e ricalca da vicino i modelli di ispirazione. Il Cantico mostra anche vari elementi retorico-compositivi che ne nobilitano il dettato e mostrano la complessità dell’impalcatura. Oltre all’andamento anaforico (dalla terza alla nona lassa, ripreso ancora nell’undicesima), si va dalle dittologie sinonimiche (sustenta et governa), anche con membri di diverso significato (infirmitate et tribulatione), alla trilogia in chiave naturalistica (diversi fructi con coloriti flori et herba) e alle allitterazioni di sora nostra matre terra e sora nostra morte corporale; dalla paronomasia di utile et humile, alla rima a contatto di ellu è bellu e alla quasi-rima di noi per lui (ma il ms. 338 legge loi), al polittoto morte - morrano - mortali - morte e a varie simmetrie omofoniche (Pozzi 1992: 20-21).
Altri elementi misurano invece la distanza che separa il Cantico dalle fonti sottese: accumuli di due, tre e finanche quattro aggettivi riferiti non più a Dio creatore soltanto ma alle sue creature, per di più arricchiti da indicazioni sostantivali e verbali, e introduzione degli epiteti frate e sora in nome di quel sentimento di fratellanza che unisce l’uomo alle creature in quanto figli tutti dello stesso Padre.
Le due componenti del latinismo e del localismo sono infine accertabili anche nel lessico. A fronte di un’espressio-ne pronominale con soggetto indeterminato come nullu homo, di voci come aere, clarite «splendenti», nubilo «cielo nuvolo-so», il testo contiene anche significativi dialettismi lessicali (➔ dialettismi). In primo luogo il controverso skappare «uscire (fuori), uscir di casa», che tanta e autorevole critica ha considerato un errore ‘separativo’ del ms. 338, ma che in realtà è forma diatopicamente marcata, assai diffusa nei dialetti di area italiana mediana e centrale, antichi e moderni, dall’Umbria alle Marche centro-settentrionali, dalla Toscana orientale al Lazio settentrionale, che «per un verso dimostra il valore assolutamente preminente del codice Assisano, per l’altro prova il carattere locale del sistema linguistico del Cantico» (Baldelli 1983a: 574). Anche mentovare «nominare», se può certamente essere ricondotto all’antico francese mentevoir / mentovoir (o mentoivre), da tanto tempo si era acclimatato nei volgari di area umbro-toscana che di certo Francesco lo adottò «con perfetta coscienza di servirsi di un termine appunto volgare» (Baldelli 1983a: 575). A entrambi si devono aggiungere per compiutezza messor, di area mediana, riconducibile al lat. meus seniore(m) (nominativo + accusativo), e l’altrettanto dialettale ennallumini, che, lungi dall’essere un francesismo (enluminer), è variante di allumini con doppio prefisso in- (con valore intensivo e comune rafforzamento consonantico) + ad-.
Baldelli, Ignazio (1983a), Il Cantico: problemi di lingua e di stile, in Id., Medioevo volgare da Montecassino all’Umbria, Bari, Adriatica, pp. 565-589 (già in Francesco d’Assisi e il francescanesimo dal 1216 al 1226. Atti del IV convegno internazionale della Società internazionale di studi francescani (Assisi 1977), Assisi, Tip. Porziuncola, 1977, pp. 79-99).
Baldelli, Ignazio (1983b), Sull’apocrifo francescano “Audite poverelle dal Signore vocate”, in Id., Medioevo volgare da Montecassino all’Umbria, Bari, Adriatica, pp. 613-635.
Baldelli, Ignazio (1987), La letteratura dell’Italia mediana dalle origini al XIII secolo, in Letteratura italiana. Storia e geografia, diretta da A. Asor Rosa, Torino, Einaudi, 3 voll., vol. 1° (L’età medievale), pp. 27-63.
Brambilla Ageno, Franca (1959), Osservazioni sulla struttura e la lingua del “Cantico di Frate Sole”, «Lettere italiane» 11, pp. 397-410.
Brambilla Ageno, Franca (1980), Proposte al testo della ‘prosa’ volgare di San Francesco, «Studi e problemi di critica testuale» 20, pp. 5-8.
Branca, Vittore (1950), Il “Cantico di Frate Sole”. Studio delle fonti e testo critico, Firenze, Olschki.
Casella, Mario (1943-1950), Il “Cantico delle Creature”. Testo critico e fondamenti di pensiero, «Studi medievali» nuova s., 16, pp. 102-134.
Contini, Gianfranco (a cura di) (1960), Poeti del Duecento, Milano - Napoli, Ricciardi, 2 voll.
Menichetti, Aldo (1979), Una ‘prosa’ volgare di San Francesco, «Studi e problemi di critica testuale» 19, pp. 5-10.
Pellegrini, Luigi (2002), La raccolta di testi francescani del Codice assisano 338. Un manoscritto composito e miscellaneo, in Revirescunt chartae. Codices, documenta, textus. Miscellanea in honorem fr. Caesaris Cenci, a cura di A. Cacciotti & P. Sella, Roma, Pontificium Athenaeum Antonianum, Edizioni Antonianum, pp. 289-340.
Pozzi, Giovanni (1992), Il “Cantico di Frate Sole” di san Francesco, in Letteratura italiana. Le opere, diretta da A. Asor Rosa, Torino, Einaudi, 4 voll., vol. 1° (Dalle origini al Cinquecento), pp. 3-26.