D'ISA, Francesco
Nacque a Capua (Caserta) nel 1572 da famiglia patrizia.
Le notizie biografiche rimaste risultano molto scarse. Nel pubblicare le sue cinque commedie si servì del nome del fratello, Ottavio. In epoca imprecisabile prese gli ordini religiosi e divenne canonico. Nella dedica d'una commedia a Cesare Falco, gentiluomo dell'arciduca Alberto, si firma Gio. Domenico D'Isa (Napoli 1613). Secondo il Napoli Signorelli visse a Roma, ma questo dovrebbe valere solo per l'ultima parte della sua vita. La rinomanza del D. nella Napoli del primo quarto del '600 era pari a quella di G.B. Della Porta nel tardo 1500. Il commediografo A. A. Amabile in un suo prologo lo definiva "la luce dell'arte comica", colui che "con stile molto a' costumi di questa nostra età conforme ha fatto risplendere al mondo questo chiaro esempio di vita, questo lucido specchio di costumi, questa viva immagine di verità, dico la commedia" (C. Jannaco, Il Seicento, pp. 357 s.). Morì a Roma nel 1622 in età non avanzata e fu sepolto nella chiesa di S. Maria del Popolo a spese di un gentiluomo suo concittadino, Vincenzo Frapperio Ratta.
Considerato l'ultimo valido continuatore della commedia cinquecentesca e classicheggiante, il D. riprese le trame delle sue commedie, pubblicate tutte tra il 1610 e il 1630 circa, dal teatro plautino, con implicazioni e amplificazioni romanzesche. Alcune situazioni sceniche risentono talora dell'"improvvisa", non senza tinte caratteristiche secentesche, evidenti nella predilezione di episodi di rapimenti, arresti, tentativi di violenze. Da parte dei contemporanei il D. ebbe anche aspre critiche. Il citato Amabile lo difendeva dalle accuse dei detrattori, che rimproveravano al D. la pedissequa imitazione plautina. Niccolò Amenta, il restauratore del teatro regolare, lo censurava invece sotto il profilo linguistico e stilistico, tanto da mettere in bocca a un innamorato della Giustina (1717) un repertorio tratto dal linguaggio amoroso dei personaggi del D., per evidenziare la retorica stereotipicità. Ma è significativo che lo stesso Amenta subisca l'influenza del D., allorché introduce nelle sue commedie dei napoletani che assumono anche le caratteristiche del capitano fanfarone e millantatore.
La Fortunia, che dovrebbe essere la prima commedia, fu stampata a Napoli nel 1610presso Tarquinio Longo ed ebbe, come tutte le commedie del D., varie ristampe.
Del Colambruoso, il napoletano che compare nella Fortunia, G. C. Cortese, annoverandolo tra i predecessori del suo Micco Passaro, dice "che fu lo spanto de li smargiassune" tanto che "lo mise a na commedia Isa poeta" (lo ricorda Croce in Pulcinella e il personaggio del napoletano in commedia, p. 94). In questa commedia il napoletano non è ancora il miles gloriosus dell'Alvida e della Flaminia, ma presenta una fisionomia composita: oltre alla presunta bravura e alla conoscenza delle regole cavalleresche, vanta la destrezza delle sue mani in operazioni poco nobili di furti e furfanterie. Ordisce anche vari intrighi: nella sua casa, in una scena farsesca e acre, convengono contemporaneamente vari personaggi: il pedante travestito da donna, perché adescato dalla promessa d'una finta servetta da parte del napoletano, il capitano Squarciabandiera innamorato della cortigiana Delia, il vecchio innamorato ridicolo concorrente del figlio nell'amore per la fanciulla Fortunia, secondo un tema di evidente derivazione plautina. La protagonista, Fortunia, della schiera delle donne fedeli che fanno capo a Piccolomini, R. Borghini e alle commedie più serie e patetiche, acconsente a fuggire e imbarcarsi nottetempo con l'amato Alessandro, raccomandando il suo onore fintantoché non sia contratto il matrimonio. Ma l'innamorato respinto organizza un agguato per rapire Fortunia mentre si avvia al porto con Alessandro. La fanciulla riesce a fuggire, ma quando ritrova Alessandro lo crede morto e l'intervento della serva che la trascina via colla forza le impedisce di uccidersi. Ulteriori risvolti avventurosi confermano il marcato gusto della violenza: Alessandro è arrestato da un Roderigo, capitano degli sbirri, per il tentativo di fuga con Fortunia; Rinuccio (l'altro pretendente) viene anch'egli imprigionato, ma per violenza carnale nei confronti di Isabella, in seguito all'inganno d'una serva, per cui si è ritrovato in camera con Isabella credendola Fortunia. Anche in questo caso un abusato espediente di ascendenza decameroniana assume risvolti nuovi, consoni all'epoca. Sulla scia del rilievo dato in Della Porta a uno spunto del Mercator plautino, le donne lamentano con appassionata e polemica vivacità le ingiuste restrizioni connesse alla condizione femminile.
L'Alvida (edita a Napoli nel 1616 da G. Carlerio e un'ultima volta nel 1719, sempre a Napoli, per i tipi del Muzio) ebbe particolare successo sulle scene. Fu recitata nel palazzo del viceré di Napoli, il duca di Alcalá, a spese del conte della Saponara don Giovanni Sanseverino, che interpretò la commedia assieme ad altri nobili napoletani. Una rappresentazione dell'Alvida, curata da Andrea Belvedere a distanza di qualche decennio, fu particolarmente memorabile tanto da essere elogiata da B. Capasso in un sonetto (riportato da R. Zagaria nella Vita e opere di Niccolò Amenta, p. 71).
L'azione della commedia concede più spazio a due servi intriganti dai tratti furfanteschi che anche qui tentano un rapimento della fanciulla. La scelta di Alvida tra i soliti due innamorati è condizionata da ben precise istanze etiche: si risolve a preferire Ortensio anche perché ebbe da lui una promessa di matrimonio, ma non cessa del tutto di amare Lelio. Quest'ultimo, per disperazione si ferisce con la spada sotto gli occhi dell'amata, la quale lo soccorre ma lo lascia per cercare Ortensio. La commedia si dipana tra i consueti indugi romanzeschi che conferiscono qualche tocco da melodramma ai personaggi di Alvida e Lelio. Non manca neanche in questa commedia un capitano, Mongibello, il quale viene ingannato dai servi come in un episodio del Miles gloriosus plautino: si ritrova in camera con una finta gentildonna, la cortigiana Ninetta, ma l'arrivo del presunto marito costringe il capitano alla fuga, convinto per di più che la donna e la serva siano state ferite a colpi di coltello.
Per la Flaminia è necessario segnalare, contro l'edizione viterbese del 1621comunemente ricordata, la stampa napoletana del 1613 presso Tarquinio Longo. Dalla già menzionata dedica del D. a C. Falco si appura che qualche anno prima la Flaminia era stata rappresentata a Capua da "nobilissime persone con lieto universale applauso". Negli ultimi giorni di carnevale del 1613fu recitata alla presenza del viceré, nel palazzo reale di Napoli. Di un allestimento posteriore parla il Croce (I teatri, p. 257) allorché la Flaminia fu messa in scena da alcuni vassalli nel 1633 a Sant'Angelo (Capua), in occasione dell'arrivo da Genova del loro signore, letterato e amante di teatro, Giovanvincenzo Imperiale, che si preoccupò di scrivere il prologo.
Nella Flaminia, fra gli inganni d'una cortigiana e le vicissitudini della protagonista, la figura meno ancorata alla tradizione cinquecentesca è ancora una volta quella di un napoletano, Colandrea, che mostra attitudini e caratteristiche grazianesche. Travestito da medico (sostiene tra l'altro d'aver studiato legge e medicina), impartisce consigli e rimedi; improvvisa gare di poesia col Pedante, sbraitando al solito contro Petrarca e propugnando un istintivo edonismo artistico. Due servitori del capitano Mongibello si comportano alla maniera dei bravi nel tentare un agguato per uccidere Flaminia, che, travestita da uomo, si fa credere un innamorato della cortigiana Doralice, suscitando senza volere la gelosia feroce del capitano.
Controversa la data di pubblicazione del Malmaritato, assegnata al 1633 dall'Allacci e dal Fontanini, al 1616 dal Toppi e dal Quadrio; il luogo di edizione è sempre Napoli.
Pur riprendendo lo schema della Casina plautina fu apprezzata dal Sanesi per le "attitudini artistiche non volgari". È percorsa sin dal prologo da una briosa vena polemica antiuxoria, di cui è interprete l'anziano innamorato, marito in angustie di una irosa madonna Pacifica, colla quale dà vita a duetti infarciti di reciproci e serrati improperi. Il vecchio Sebasto non presenta ad ogni modo le solite connotazioni ridicole ma rivela tratti realistici e non superficiali. Il napoletano Masaniello minaccia duelli col capitano, i quali ovviamente si risolvono con la fuga di entrambi. Masaniello perde momentaneamente le caratteristiche farsesche quando vorrebbe strangolare il villano Tofano e in occasione di un immancabile tentativo di rapire la contesissima Fulvia, salvata dall'intervento di un ritrovato fratello.
Dell'ultima commedia, la Ginevra, composta per essere rappresentata durante la festa di nozze di Giovanni Villani, marchese della Polla, l'Allacci riporta un'edizione napoletana del 1622, mentre quasi tutti gli altri registrano la stampa curata dai Discepolo a Viterbo nel 1630.
Rispetto alle altre commedie la Ginevra risulta meno prolissa, stilisticamente più sorvegliata, ma meno efficace sotto il profilo degli effetti comici. Molto spazio hanno i servi e una meretrice convenzionalmente avida e simulatrice, Simonetta, molto diversa dalla Delia dell'Alvida che nutriva motivati propositi di redenzione. Il pedante Periandro prende anche qui parte attiva nelle vicende mascherandosi da facchino per trasportare una cassa nella quale, a sua insaputa, è rinchiuso il vecchio Calastra, secondo un espediente tipicamente cinquecentesco in atto già nella Calandria del Bibbiena. Calastra, l'anziano babbione nipote del capitano napoletano Colafanfaro, risente della tradizione decameroniana, con ricordi del messer Maco della Cortigiana dell'Aretino.
Una Storia della città di Capua scritta dal D., di cui parla B. Chioccarello (p. 179), probabilmente non venne mai stampata. Due commedie non ancora edite, la Catena e la Pace, sono segnalate nella prima edizione della Drammaturgia dell'Allacci (1666), ma già il Quadrio, riportando la notizia dell'Allacci, sostiene di non essere a conoscenza di queste commedie.
Fonti e Bibl.: L. Allacci, Apes Urbanae sive de viris illustribus, Romae 1633, p. 206; N. Toppi, Biblioteca napol., Napoli 1678, pp. 230, 330, 337; F. S. Quadrio, Della storia e della ragion d'ogni poesia, III, 2, Milano 1744, pp. 98 s.; G. Fontanini, Biblioteca d. eloquenza ital., Venezia 1753, I, p. 378; L. Allacci, Drammaturgia [1666], Venezia 1755, pp. 36, 360, 369, 403, 498, 839; B. Chioccarello, De illustribus scriptoribus..., Napoli 1780, p. 179; P. Napoli Signorelli, Storia crit. dei teatri ant. e mod., Napoli 1789, IV, pp. 154 s.; A. von Reumont, Die Carafa von Maddaloni, Berlin 1851, I, p. 343; V. Forcella, Iscr. delle chiese e d'altri edifici di Roma..., I, Roma 1869, p. 379; B. Croce, Pulcinella e il personaggio del napoletano in commedia, Roma 1899, p. 94; I. Sanesi, La commedia, Milano 1911, pp. 112 s.; R. Zagaria, Vita e opere di N. Amenta, Bari 1913, pp. 64, 71, 76, 91; A. Belloni, Il Seicento, Milano 1929, pp. 281 s.; B. Croce, I teatri di Napoli, Bari 1947, pp. 69, 131 s., 257; C. Jannaco, Il Seicento, Milano 1966, pp. 311 s.; R. Alonge, Struttura e ideologia nel teatro italiano fra '500 e '600, Torino 1978, pp. 81 s.