D'OVIDIO, Francesco
Nacque da Pasquale e da Francesca Scaroina il 5 dic. 1849 a Campobasso, da dove la famiglia si trasferì nove anni dopo a Napoli. Qui compì gli studi secondari nel regio liceo-ginnasio "Vittorio Emanuele", avendo come maestio D. Denicotti che lo avviò alla passione per le lettere classiche. Ottenuta la licenza liceale, nell'autunno del 1866 vinse il concorso per l'ammissione presso la Scuola normale di Pisa dove fu allievo, tra gli altri, di A. D'Ancona e di D. Comparetti. Proprio il Comparetti ne riconobbe ben presto il valore e gli propose di recensire il saggio del noto studioso tedesco E. Böhmer, Ueber Dantes Schrift De vulgari eloquentia (Halle 1867), introdotto in Italia contemporaneamente alla pubblicazione della relazione Dell'unità della lingua e dei mezzi per diffonderla (Firenze 1868) che A. Manzoni aveva scritto per incarico del ministro E. Broglio. Il D. si impegnò con entusiasmo nella trattazione filologica della tematica riscuotendo un giudizio lusinghiero di N. Tommaseo. Su questa stessa linea di interessi scelse e sviluppò la tesi di laurea, Sull'origine dell'unica forma flessionale del nome italiano, tesi discussa nel luglio 1870 e pubblicata due anni dopo a Pisa, nella quale il giovane D. entrava con grande perizia e competenza sul terreno delle teorie che in materia di glottologia aveva formulato uno studioso come F. Diez, considerato il fondatore della filologia neolatina. Alla tesi di laurea, lodata da G. Ascoli (Arch. glottol. ital., II [1874] pp. 416-38), seguì la tesi di perfezionamento, Sul trattato De vulgari eloquentia (1874), ivi pubblicata (pp. 59-100), ristampata nel volume XII delle Opere complete: Versificazione romanza. Poetica e poesia medioevale, II, Napoli 1932.
Nel 1873 fu chiamato ad insegnare latino e greco al liceo "Galvani" di Bologna; all'inizio dell'anno successivo, sempre per l'insegnamento di latino e greco, passò al liceo "Parini" di Milano, dove rimase fino al '75. Nel 1876 il ministro R. Bonghi promosse l'istituzione nelle università di cattedre di filologia romanza; al D. fu attribuita nell'università di Napoli la cattedra denominata "storia comparata delle lingue e letterature neo-latine", ruolo che mantenne fino alla morte, affiancato dall'insegnamento, nella stessa università, di grammatica greca e latina che tenne per molti anni, al quale seguì quello di letteratura dantesca e per due anni anche di letteratura italiana. La carriera accademica del D. proseguì senza la minima scossa su questi binari, portandolo a ricoprire incarichi di responsabilità e prestigio come membro dei Consiglio superiore dell'Istruzione pubblica, socio del Circolo filologico di Napoli (di cui fu anche presidente), dell'Accademia dei Lincei, della quale ricoprì la presidenza (1916-20), dopo essere stato vicepresidente della classe di scienze morali (1905-16). Fu anche membro della Società reale di Napoli e dell'Accademia della Crusca. Il 3 dic. 1905 fu nominato senatore, a distanza di pochi mesi dall'analoga nomina conferita al fratello Enrico, insigne matematico. Al Senato mantenne la collocazione politica conservatrice, nel richiamo alla tradizione della Destra storica. che gli era propria, in una prospettiva tuttavia di adesione ad un'area socioculturale piuttosto che ad un preciso indirizzo politico o partitico.
Aveva cominciato ad accusare disturbi gravi alla vista in ancora giovane età (1884), una menomazione che lo portò più tardi alla cecità completa. Morì a Napoli il 24 nov. 1925, pochi mesi dopo essere stato solennemente giubilato nella sua università.
Fin dagli anni degli studi universitari si delinearono con chiarezza i filoni di interesse glottologico, filologico linguistico e critico sui quali il D. dispose gli studi che proseguì con costanza e prolificità per tutta la sua vita accademica.
Sul versante glottologico, inaugurato dal lavoro sviluppato nella tesi di laurea, sono da collocare la Grammatik der italienischen Sprache (in coll. con W. Meyer Lübke, Strassburg 1905; traduzione ital. Grammatica storica della lingua e dei dialetti italiani, Milano 1906); Introduzione agli studi neo-latini. Spagnolo (in coll. con E. Monaci, Napoli 1879); Introduzione agli studi neo-latini. Portoghese (in coll. con E. Monaci, Imola 1881). Strettamente connesse a questo tipo specialistico di studi sono le indagini di carattere filologico-linguistico, di grande rilievo quantitativo e dispiegate su un arco temporale alquanto esteso, con una predilezione facilmente verificabile per Dante e Manzoni, "i due picchi più sublimi della montuosa catena della letteratura nazionale". Sono da citare innanzitutto i tre volumi Versificazione romanza. Poetica e poesia medioevale (voll. XI-XII-XIII delle Opere complete, Napoli 1932), che comprendono gli studi più significativi del D. sul terreno filologico e glottologico già pubblicati in Versificazione e arte poetica medioevale (Milano 1910), Studi romanzi (Roma 1912), Sulla più antica versificazione francese (Roma 1920). Tra i molti scritti qui riportati, sono particolarmente rilevanti quelli sull'origine dei versi, sugli usi metrici nella poesia italiana dei primi secoli, sulla metrica delle Odi barbare di Carducci, a proposito della quale espresse un giudizio negativo registrato dal poeta, che manifestò sempre stima nei suoi confronti, con bonario e lievemente ironico distacco. I saggi più importanti sono ritenuti quelli intitolati rispettivamente Il ritmo cassinese (XIII, pp. 1-145) e Il Contrasto di Cielo Dalcamo (ibid., pp. 169-335).
Sulla stessa linea di interesse si dispongono i contributi raccolti in Varietà filologiche. Scritti di filologia classica e di lingua italiana (Napoli 1874; vol. X delle Opere complete, Napoli 1874) e gli interventi più specificamente di ordine linguistico, a cominciare da La lingua dei Promessi sposi nella prima e nella seconda edizione (Napoli 1880), Le correzioni ai Promessi sposi e la questione della lingua (ibid. 1882), con i quali intervenne nel contrasto che si era sviluppato evidente tra le tesi linguistiche di Manzoni e quelle di G. Ascoli.
La posizione del D. è, coerentemente con il suo carattere intellettuale ed accademico, ispirata a un sostanziale moderatismo tendente a contemperare l'ammirazione profonda che nutriva per Manzoni, comprendente anche le sue teorie linguistiche, con le radicali contestazioni formulate da G. Ascoli sulla base di una indiscussa competenza scientifica e di un impianto critico intellettuale decisamente più moderno di quello manzoniano, su questo terreno. L'operazione mediatrice del D. si concretizza nella ipotesi di adottare come norma il fiorentino, secondo l'indicazione manzoniana, ma corretto dalla lingua della tradizione letteraria: "il fiorentino odierno si dovrà perciò tener sempre come un vivo specchio d'italianità sincera e fresca, e solo non prenderlo a norma quante volte diverga dall'uso letterario, ove questo è saldamente stabilito; e prenderlo come un consigliere spesso prezioso, come un'autorità assoluta, dovunque l'uso letterario ondeggi o manchi del tutto" (cfr. La questione della lingua e Graziadio Ascoli, in Studi manzoniani, in Opere, VIII, Napoli-Caserta 1928, p. 333). Una posizione questa ispirata a quel "pratico buon senso, da ottimo maestro di lingua" che B. Croce gli riconobbe, pure tra le molte e severe riserve che formulò sulla sua metodologia critica e analitica.
L'attitudine del D. all'indagine filologico-linguistica si congiungeva spesso ad analisi di carattere più propriamente critico, ed è precisamente su questo fronte che si addensarono le riserve nei confronti di un abito come il suo, reputato esclusivamente tagliato sui "minuzzoli", di modo che "ogni minuzzolo è adoperato come attaccàgnolo per qualche discettazione" (Croce, p. 308). L'ironia di Croce si applica con particolare attenzione e analiticità ai saggi maggiori del D., per numero e per peso accademico, quelli danteschi e manzoniani, tipici entrambi della sua impostazione scientifica, considerata, da Croce in poi, emblematicamente una sorta di condensato dei limiti e delle caratteristiche negative della scuola storica, nei suoi esponenti meno equilibrati.
Un primo gruppo di saggi danteschi fu raccolto dal D. in Studii sulla Divina Commmedia (Milano-Palermo 1901), che si articola in capitoli dedicati a vari personaggi del poema: Sordello, sul rapporto tra il personaggio storico e il personaggio dantesco; Ugolino, a proposito del quale esamina la questione, di ordine storico sempre, del tradimento; Guido da Montefeltro, e qui si concentra sulla interpretazione corretta del v. 111; Guido Cavalcanti, sulle ragioni del suo "disdegno" nei confronti di Virgilio, ecc. Insieme vi compaiono interventi di carattere storico ed ermeneutico sulle tre fiere, sulla data di composizione della Commedia, sui criteri adottati da Dante per definire il destino delle anime, sull'epistola a Cangrande di cui il D. discute l'autenticità, e molti altri, del genere di questioni che Croce chiamò "d'ovidiane" e non "dantesche" poiché "per farle sorgere, e per far sorgere quelle sole e porle a quel modo, bisogna avere la particolare forma di mente, che è del D'Ovidio" (p. 311).
Un nuovo gruppo di saggi furono raccolti in due volumi con il titolo Nuovi studi danteschi (Milano 1906; ibid. 1907; voll. II, III e IV delle Opere complete, Caserta 1926 e Napoli 1932); il primo raccoglie contributi su Ugolino, Pier delle Vigne, i simoniaci; il secondo è dedicato al Purgatorio, sempre con l'attenzione tipicamente dovidiana alle questioni minute e sottili, nell'intendimento di "trovar cose nuove in una materia trita e ritrita; scegliere, fra tante opinioni, la più giusta; rendere omaggio al vero e a predecessori più o meno disconosciuti; sgombrar il terreno da tradizionali o recenti errori; riconoscere i segni più grandiosi, o i più delicati, d'un'arte così potente e squisita; contemplar da vicino il fulgore d'un intelletto così eccelso; risentire entro di sé i palpiti d'un cuore tanto generoso; pregustare la gioia che ogni parola sull'opera di lui sarà accolta quasi dall'universale interesse che trova pronto chiunque mette il discorso su un grave affare di stato, su un fatto che commuove tutti o che eccita la curiosità e la conversazione di tutti" (Prefaz. a Studii sulla Divina Commedia, Milano-Palermo 1901, p. XIII).
Questo tipo di attenzione e di intenzioni furono stigmatizzate da Croce che del D. fece un ritratto impietoso, mettendo in evidenza la pedanteria, la oziosità, il vacuo sottilizzare di trattazioni che, a suo giudizio, non toccavano neppure lontanamente la natura della poesia dantesca. Apparentato ai letterati vecchia maniera, impegnati esclusivamente sulle "questioni accademiche ... che sono appunto questioni di particolari sciolti dal loro nesso e privati perciò dei loro valore di relazione" (p. 304), il D. degli studi danteschi e manzoniani usciva dalla tagliente requisitoria del Croce come una figura apprezzabile per alcuni, limitati, meriti in materia di lingua e di erudizione, ma allo stesso tempo come un attardato esemplare di una concezione della critica che nel secolo XX veniva reputata non solo inutile, ma certamente dannosa. Pesa naturalmente su questo severissimo giudizio di Croce (ripreso puntualmente da discepoli e continuatori) il carico della battaglia che ancora in quegli anni (il saggio di Croce è del 1909) era aperta tra il fiorire neoidealistico e le concezioni positivistiche, in tutte le manifestazioni filosofiche, letterarie e culturali; una battaglia dunque ancora da vincere e per la quale erano mobilitate tutte le risorse intellettuali e polemiche del nuovo fronte. Tuttavia lo stesso Croce non fu avaro di riconoscimenti nei confronti di altri esponenti della "scuola storica" ben altrimenti valutati, come A. D'Ancona per e s.; e percio va colto nelle pesanti riserve crociane sul lavoro critico e filologico dovidiano un di più che risiede appunto nel fatto di riconoscere nel D. una serie di attitudini tradizionalmente negative del letterato italiano, piuttosto che le caratteristiche precipue di un esponente della "scuola storica".
Sul piano metodologico il D. aveva dovuto, all'esordio della sua attività, fare i conti con la lezione e l'enorme prestigio di F. De Sanctis, del quale fu collega all'università di Napoli; un compito oggettivamente difficile che egli assolse con non poche contraddizioni e reticenze. Per un verso non lesinò mai riconoscimenti di stima e di ammirazione al De Sanctis, diffusi ampiamente nei suoi scritti; per un altro verso affiancò a questi tributi esplicite riserve sul metodo desanctisiano, al quale in sostanza rimproverava scarsa scientificità e scrupolosità di indagine a favore di un estetismo che il D. vedeva troppo poco motivato e sostenuto da ricerche rigorose e puntuali. Alle critiche apertamente formulate sottendono spesso riserve implicite, molto più profonde e radicali, tanto che qualcuno (L. Russo per es.) ha potuto ravvisare un tono di ipocrita velenosità anche negli omaggi resi al genio del De Sanctis.
Fino dalla raccolta dei Saggi critici (Napoli 1878) il D. tentò di definire i termini metodologici del suo lavoro, prendendo innanzitutto le distanze da De Sanctis: "L'ideale della critica intera e perfetta non può essere che questo: che da un lato ogni fatto letterario, appreso o ricercato o scoperto, non resti un fatto bruto, non resti l'apprendimento o l'accertamento materiale di una pura notizia, ma sia inteso e spiegato, e riconosciuto in tutte le sue intime relazioni con lo spirito e con l'animo umano, che insomma il fatto non sia solo saputo, ma capito; e dall'altro lato, che il giudizio estetico, l'osservazione psicologica, il concetto sintetico, abbian la più larga base possibile di fatti e di nozioni positive, risultino non tanto da una cotale intuizione o divinazione, la quale, se può esser felice e dar nel segno, può anche riuscire a meri abbagli, quanto da una meditazione prudente non meno che geniale, che si eserciti sopra una massa di fatti abbondante e piena". Questo ideale equilibrio di prudenza e intuizione, di scrupolosità di ricerca e genialità di "divinazione", fu molto raramente raggiunto nella stagione matura degli studi dovidiani, mentre è ravvisabile nei saggi critici del periodo giovanile.
Molti anni più tardi ribadiva a proposito di critica estetica e critica storicofilologica: "dal canto mio ho esercitato liberamente l'una e l'altra maniera di critica, secondo la piccola misura delle mie forze; e l'ho fatto senza chiederne il permesso a nessuna scuola" (Giornale d'Italia, 27 apr. 1903). In un certo senso aveva ragione in questa autodefinizione, dato che nel quadro che si era delineato nel panorama della critica italiana dopo De Sanctis il metodo e l'operosità dovidiana occupano un posto che solo per alcuni versi è riconducibile pienamente all'interno delle coordinate della "scuola storica". Gli manca, per esservi inserito a pieno, la sensibilità viva per la storia da lui appiattita fino a farla coincidere con la cronologia; gli manca ancora un consistente retroterra sul terreno filosofico e ideologico, sicché la messe di osservazioni spesso acute stenta, quasi sempre, a trovare momenti efficaci di sintesi e di coagulo.
Questi difetti sono tanto più visibili quanto maggiori per statura e complessità sono gli oggetti con cui si misura la sua indagine critim Dunque appaiono evidenti nei saggi danteschi sopra citati, come in quelli successivi, raccolti nel vol. V delle Opere complete con il titolo L'ultimo volume dantesco (Roma 1926), che ripropongono esemplarmente il gusto dovidiano per le "costruzioncelle isolate", una miriade di questioni minori" e minime dalle quali presumeva di poter ricavare elementi utili alla conoscenza e alla comprensione della poesia dantesca. Allo stesso modo. difetti e pregi esemplari dello studioso caratterizzano il blocco di saggi aventi per oggetto l'altro autore prediletto, A. Manzoni. Del 1885 è il primo volume Manzoni e Cervantes (Napoli) in cui è esaminato appunto il rapporto tra i due romanzieri; dell'anno successivo è Discussioni manzoniane (in coll. con L. Sailer, Città di Castello) nel quale il D. riprende, tra l'altro, l'indagine sulle influenze europee e italiane su Manzoni, concentrando l'attenzione su W. Scott e C. Porta; del volume va citato anche l'intervento sul ruolo dei Promessi sposi nei programmi scolastici, ruolo che in quegli anni era oggetto di dibattiti e contrasti d'opinione e sul quale il D. si pronuncia, manifestando quel vivo interesse per la scuola che è testimoniato da molti altri suoi interventi, pubblicati su riviste e giornali o pronunciati in occasioni pubbliche, che furono ripubblicati sparsamente nei suoi libri. Seguì il già citato Le correzioni ai Promessi sposi e la questione della lingua (Napoli 1882; vol. VIII delle Opere complete, Napoli 1933); e infine Nuovi studi manzoniani (Milano 1908; vol. VII delle Opere complete, Caserta 1928) che comprende uno studio di carattere filologico sul rapporto tra la prima e la seconda stesura del romanzo manzoniano, con particolare riferimento all'episodio di Gertrude e alle ragioni manzoniane della soppressione di una parte consistente della narrazione; un capitolo di carattere critico-estetico sull'interpretazione del personaggio Ermengarda, nel quale sviluppa una tesi in aperto dissenso da quella formulata dal De Sanctis; ed alcuni contributi sul pensiero politico e religioso di Manzoni. In questo volume sono pubblicati anche Il determinismo nell'arte e nella critica e L'arte per l'arte, due scritti che manifestano la propensione dovidiana per questioni di ordine teorico-estetico e allo stesso tempo la sua difficoltà ad abbandonare riflessioni e formulazioni dettate dal buon senso intrinseco alla sua natura intellettuale e dominante nel suo lavoro scientifico.
La passione del D. per l'analisi critica sorretta e come sostanziata dalle ragioni dell'indagine filologica e linguistica trovò applicazione anche su altri autori della letteratura italiana.
Al periodo giovanile, da alcuni come Croce reputato il suo momento critico migliore, risale Il carattere, gli amori e le sventure di Torquato Tasso (Milano 1879), nel quale, ridisegnando attorno al poeta e alle sue vicende biografiche il quadro dell'ambiente culturale letterario e ideologico che lo circondava, mirava a definire il carattere della sua poesia in stretta connessione con la sua personafità intellettuale e ideale. Ne derivò un giudizio severo ("il suo animo non era grande, non visse per nessuna grande idea o sentimento, non s'interessò né sofferse pel trionfo di nessun'idea civile, poetica o morale, o scientifica o religiosa", p. 289) che era fondato su una analisi penetrante, anche in senso psicologico, della fisionomia umana e letteraria del Tasso. I saggi su Tasso furono ripubblicati (vol. XI delle Opere complete, Roma 1926) insieme agli scritti dedicati a Petrarca con il titolo Studi sul Petrarca e sul Tasso, dove il versante petrarchesco risulta oggi senza dubbio di valore scarsamente apprezzabile per il prevalere degli aspetti più pedanti del metodo d'indagine dovidiano, che si manifestano in modo nettissimo là dove non venga contemperata la sua attitudine alla analisi degli elementi più minuti con il riferimento a dati e situazioni di più ampio respiro.
Una serie di interventi di genere diverso sono raccolti in Varietà critiche (vol. XII delle Opere complete, Caserta 1929), dove si trovano studi su Leopardi che ripetono lo schema di molti saggi danteschi, svolti come sono sul filo del rapporto tra dati storici ed elementi di poesia in riferimento a figure leopardiane celebri oppure a porzioni della sua biografia. Compaiono nel volume, inoltre, scritti su De Amicis, del quale il D. apprezzava il manzonismo, peraltro non sufficientemente perseguito, dato che mancava a De Amicis, a suo parere, "una fede in un nucleo qualunque di idee e di sentimenti, che gli prema trasfondere negli altri colla parola" (p. 311); un giudizio come si vede modulato su criteri analoghi a quelli che avevano dettato la conclusione a proposito di Tasso. Uno dei contributi più interessanti è probabilmente quello su De Sanctis che offre una ulteriore dimostrazione del legame dovidiano con un metodo e una personalità di cui apprezzava e ammirava esplicitamente la genialità senza però rinunciare a nessuna occasione per mettere in luce quelli che, a suo parere, erano limiti e difetti propri dei critico più che del suo metodo.
Un posto a parte nella produzione dovidiana occupa il volume Rimpianti (Milano-Palermo-Napoli 1903; vol. XIV delle Opere complete, Rimpianti vecchi e nuovi, Caserta 1929-30) che documenta efficacemente l'ispirazione fondamentalmente moderata e conservatrice della sua presenza sociopolitica e accademica.
Sono ritratti di personaggi ai quali si sentiva, per motivi diversi, vicino, come R. Bonghi, S. Spaventa, F. De Sanctis, N. Tommaseo, G. Carducci, ecc., dei quali delinea i tratti significativi in relazione soprattutto alla passata stagione risorgimentale e immediatamente postunitaria, sulla scia appunto del rimpianto per un passato più sostanziato di ragioni ideali del presente. Sono riportati nel volume anche una serie di scritti occasionali, già pubblicati su riviste e giornali, su argomenti diversi di ordine politico, culturale, sociale.
Il D. collaborò infatti a molti periodici; oltre a quelli specialistici, vanno ricordati, tra gli altri, La Perseveranza, il Corriere della sera (sul quale firmò anche con lo pseudonimo "Oscus"), Il Giornale d'Italia, Nuova Antologia, Rassegna italiana. È una ulteriore testimonianza della sua ampiezza di interessi che lo portarono ad essere presente per molti decenni nella vita culturale e politica del giovane Stato italiano, al di là naturalmente della presenza accademica, secondo un costume tipico di quel periodo che assegnava alle non molte figure emergenti sui diversi terreni della vitalità nazionale un ruolo decisamente più ampio delle loro specifiche competenze e professionalità, nella direzione della formazione delle coscienze in termini civili oltre che specificamente culturali.
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