FRANCESCO da Camerino
Vissuto intorno alla seconda metà del XIII secolo, è il più antico rimatore marchigiano il cui nome compaia nei codici. Il manoscritto Vat. lat. 3793 della Bibl. apost. Vaticana gli attribuisce il sonetto "Ki inver l'amore suo pensero asente" al quale risponde un ser Cione notaio con altri due sonetti "Amico, rasgionando umilemente" e "Co lingua dico che lo core sente" da identificare con il notaio fiorentino Cione di Baglione, del quale si hanno notizie a partire dal 1280 e che visse almeno fino al 1310.
Su F. non si hanno notizie biografiche, eccetto la menzione in qualità di testimone in un atto notarile rogato a Bologna il 22 ott. 1285 dal notaio Matteo di Cambio.
Si tratta di un mutuo stipulato da tre canonici, Gentile da Camerino, Bonaccorso de' Lanfranchi, Iacopo Cavalcanti, e da un Angelo Magellario da Roma, probabilmente uno studente. Gentile da Camerino doveva essere un professore, mentre di Iacopo Cavalcanti, parente di Guido, morto prima del 18 luglio 1287, sappiamo che nell'autunno del 1283 era a Bologna, dove studiava diritto canonico, ed è noto per tre sonetti e forse per una ballata composta in tenzone con Guido. Bonaccorso de' Lanfranchi è identificato dal Filippini con Bonaccorso da Pisa, anch'egli rimatore, del quale si hanno notizie a partire dal 1265 e che nel 1283 fu rettore dell'università dei citramontani.
L'atto del 1285 documenta quindi i rapporti di F. con gli ambienti universitari e lo pone in familiarità con rimatori della scuola guinizzelliana.
Il sonetto del manoscritto vaticano conferma questi dati. Incentrato sul tema della perdita di libertà di chi è preso da Amore, "che toglie arbito e volontate", si inserisce nel filone dello stilnovismo lacerato e passionale, il cui massimo rappresentante fu Guido Cavalcanti ma che si riscontra, con minor felicità d'ispirazione, anche in Iacopo Cavalcanti.
Il Filippini avanza l'ipotesi che a F. vada attribuito anche il sonetto "Di piume di paone e d'altre assai" che nel Vat. lat. 3793 è assegnato a Chiaro Davanzati; mentre il Vat. lat. 3214 lo attribuisce a un maestro Francesco e identifica il destinatario del componimento in Bonagiunta Orbicciani. Attraverso la favola esopica della cornacchia che si veste di penne di pavone e poi è spogliata dagli altri uccelli, il sonetto vuole infatti colpire il rimatore lucchese, paragonato alla cornacchia, che si è ammantato dei panni del "Notaio" (Iacopo da Lentini) il quale, se fosse vivo, lo spoglierebbe delle sue penne. L'ipotesi non inverosimile di una genesi bolognese del sonetto come difesa della scuola di Guido Guinizzelli compiuta da uno dei suoi seguaci, fra i quali si annovera anche F., si scontra, in questo caso, col fatto che il sonetto contro Bonagiunta presenta diverse forme siciliane assenti nel sonetto della tenzone con Cione, e frequenti, invece, nelle altre rime ascritte a un Francesco da Firenze presenti sempre nel Vat. lat. 3793. Debole anche l'attribuzione a F. della canzone "Amoroso veder ma commosso" che il Magliabechiano II.III.492 (Firenze, Bibl. nazionale) assegna a un "messer Francesco" (per il Filippini appunto il nostro F.) e il Vat. lat. 3793, invece, a un messer Tomaso da Faenza.
Edizioni: il testo del sonetto "Ki inver l'amore suo…" è edito in Le antiche rime volgari secondo la lezione del codice Vaticano 3793, a cura di A. D'Ancona - D. Comparetti, IV, Bologna 1886, p. 394; nonché in A.F. Masser, Sonetti burleschi e realistici dei primi due secoli, II, Bari 1920, p. 78; e in E. Monaci, Crestomazia italiana dei primi secoli, a cura di F. Arese, Roma-Napoli-Città di Castello 1955, pp. 247 s.
Fonti e Bibl.: G. Crocioni, Le Marche. Letter., arte e storia, Città di Castello 1914, pp. 12 s.; F. Filippini, Un documento sul rimatore F. da C., in Atti e mem. della R. Deput. di storia patria per le Marche, s. 4, I (1924), pp. 75-78.