FRANCESCO da Meleto
Nacque a Bologna nel 1449 dal mercante fiorentino Niccolò di Piero e da una schiava circassa di nome Caterina, poi emancipata.
Il padre, titolare di un'impresa commerciale con sede a Bologna, si era trasferito in questa città almeno dal 1442, mentre lo zio, Bardino di Pietro, si era stabilito per gli stessi motivi a Ferrara; entrambi intrattennero rapporti d'affari con i Medici. F. fu poi legittimato dal padre prima del 1470, "per bolle di papa Pio" (Catasto, 913, c. 810), insieme con la sorella Margherita. Il fallimento del commercio paterno, avvenuto nel 1467, determinò il ritorno a Firenze della famiglia (Niccolò si era nel frattempo sposato con una donna fiorentina, Antonia di Leonardo Baroncelli, da cui aveva avuto altri tre figli).
Presumibilmente fu la morte del padre, avvenuta poco dopo il 1470, e la conseguente decisione della matrigna di tornare con i figli alla casa paterna, a determinare la partenza di F. da Firenze: le sue opere rivelano una regolare istruzione classica, probabilmente ricevuta in ambiente fiorentino; tuttavia di questa formazione ci sfuggono completamente le tappe e i maestri, né si sa se egli abbia mai intrapreso una qualche attività professionale. Di sicuro (lo rivela lui stesso nei suoi scritti) c'è il fatto che egli visse in condizioni economiche estremamente modeste e che il suo sostentamento si basava in gran parte su un piccolo vitalizio in natura - costituito da 20 staia di grano, 13 barili di vino, 50 libbre di carne e 3 staia di marroni l'anno - destinatogli dal padre per testamento e che i fratellastri continuarono a dargli regolarmente almeno fino al 1498.
Nel 1473 si trovava a Costantinopoli insieme col fiorentino Bartolomeo Manetti e in quella città ebbe occasione di frequentare la comunità ebraica e di intraprendere discussioni teologiche con musulmani e soprattutto con ebrei; il risultato di queste disquisizioni fu la convinzione maturata da F. che in tutte le religioni monoteiste fosse ugualmente viva l'attesa di un grande rinnovamento religioso.
Non sappiamo se al momento del suo ritorno a Firenze (di cui si ignorano completamente le circostanze) egli abbia fatto in tempo a vivere di persona l'esperienza della dittatura morale di G. Savonarola; tuttavia, direttamente o indirettamente, venne in contatto con le tesi del frate, alcune delle quali (soprattutto la necessità di una riforma radicale della Chiesa, il prossimo avvento di un papa "angelico", l'approssimarsi dell'Anticristo e l'inevitabile punizione della Cristianità deviante), connesse con l'aspirazione a riforme democratiche del sistema politico, continuarono a esercitare la loro influenza, soprattutto sui ceti popolari, ancora per decenni dopo la morte del Savonarola.
Di questo ambiente F. condivise soprattutto le attese millenaristiche, le speranze di una prossima e completa redenzione dell'umanità e, conseguentemente, della sua riduzione a un unico credo religioso. Avendo studiato approfonditamente le Sacre Scritture e in particolare il Vecchio Testamento, si convinse di aver trovato la chiave per svelarne i misteri e di poter stabilire con precisione l'anno di inizio della nuova era, in cui finalmente l'umanità si sarebbe riunita sotto un'unica guida spirituale. Il risultato di questi studi e di questi calcoli fu esposto nella sua prima opera, il Convivio de' secreti della Scriptura Sancta, compilato per modo di dialogo (s.n.t.).
L'opera - scritta in volgare e divisa in sei parti - è in forma di dialogo fra tre interlocutori: oltre a F., gli amici Bartolomeo Manetti, di cui si dice che era stato suo compagno durante il soggiorno a Costantinopoli, e Francesco Baroncini. Si sarebbe desiderata la presenza di B. Fonzio, in quanto amico e cultore degli stessi studi, ma si dice che egli era trattenuto fuori Firenze, a causa "del suo beneficio".
La data di composizione si ricava da alcuni riferimenti contenuti nel testo: nella parte VI F. riferisce di aver scritto un commento in latino al Salmo 2 ("Quare fremuerunt gentes") su richiesta "del nostro magnifico gonfaloniere" (evidentemente Pier Soderini, gonfaloniere dal 1502 al 1512); inoltre menziona B. Fonzio, morto nel 1513, come ancora vivente: se ne deduce pertanto che l'opera fu completata e anche stampata prima del 1512, sebbene dalla sua lettura si abbia l'impressione che le tesi di F. abbiano goduto di qualche notorietà prima ancora della pubblicazione. L'assunto centrale dell'opera è che il mondo era ormai giunto alla fine di un ciclo, quello dell'umanità divisa tra diversi credi religiosi: nel 1517, in base ai calcoli di F., sarebbe avvenuta la conversione in massa degli ebrei al cristianesimo; le avvisaglie di questa conclusione erano state nel 1484 le grandi persecuzioni degli ebrei in Spagna e Portogallo. Il 1517 avrebbe rappresentato la cerniera con la nuova era, in cui tutti i misteri delle Sacre Scritture sarebbero stati rivelati a opera di un uomo di modesta condizione e poca cultura (come del resto sempre rispondenti a queste caratteristiche erano stati, a detta di F., i profeti del Vecchio Testamento), che avrebbe assunto la guida spirituale dell'umanità.
L'opera ebbe molto successo, soprattutto negli ambienti fiorentini rimasti più legati al ricordo e al culto del Savonarola; tuttavia essa, ancor più che alle tesi del frate, sembra ricollegarsi alla tradizione gioachimita, rivisitata dalla predicazione del fiorentino Pietro Bernardino.
La notorietà del Convivio tuttavia richiamò anche l'attenzione delle autorità religiose, soprattutto di un gruppo di collaboratori di papa Leone X: Vincenzo Quirini, frate camaldolese, che invitò F. a recarsi a Roma e gli fece ottenere un'udienza dal papa; Antonio Zeno, vicario del cardinale protettore dell'Ordine di Camaldoli, che gli prestò il denaro per il viaggio; Francesco Soderini, vescovo di Volterra e fratello dell'ex gonfaloniere di Firenze; P. Bembo, segretario apostolico, che ospitò F. durante il soggiorno romano, durato tre mesi.
F. fu effettivamente ricevuto dal papa nella primavera del 1514, ma niente di preciso ci è dato sapere sull'esito di questo colloquio. F. correda la sua seconda opera, il Quadrivium temporum prophetarum (s.n.t., stampata poco dopo il suo ritorno da Roma) di una dedica al pontefice ("Exordium") e di un commento al Salmo 18 dedicato ad A. Zeno; in quest'ultimo si dice che fu lo Zeno a fornire a F., oltre al denaro per il viaggio, quello necessario per la stampa dell'opera.
F. interpreta l'invito a Roma, l'offerta di ospitalità da parte del Bembo e gli aiuti finanziari dello Zeno come inequivocabili segni della divina provvidenza, tanto più significativi in quanto venivano da personaggi potenti e famosi, appartenenti a un mondo affatto estraneo a quello di Francesco.
In netto contrasto con quanto riferisce F. è la versione di Tommaso Giustiniani, che, a quanto dice egli stesso, fu presente agli incontri romani tra F. e il Quirini; conterraneo e confratello di quest'ultimo, il Giustiniani, in una lettera scritta nel 1515 a Paolo Orlandini, priore del monastero fiorentino di S. Maria degli Angeli, sostiene che il Quirini aveva letto il Convivio durante il suo passaggio da Firenze sul finire dell'anno 1512 e avendovi rinvenuto "molti perversi insegnamenti", aveva invitato F. a Roma per un colloquio. Durante gli incontri romani nella primavera del 1514 F. aveva difeso strenuamente le sue tesi e aveva proclamato che a confermarne la veridicità erano intervenuti anche dei miracoli: egli aveva visto una fiamma divampare al posto del corpo di Cristo su un crocifisso; sosteneva inoltre che Gesù Cristo talvolta parlava con lui. Secondo il Giustiniani, il Quirini aveva invano tentato di persuadere F. che tali visioni erano insidie del demonio e che la stessa diabolica provenienza avevano le tesi che F. propalava. Inoltre il Quirini aveva sollecitato, tramite Zanobi Acciaiuoli, bibliotecario del papa, l'emissione di una diffida del pontefice a F. a pubblicare la sua nuova opera, il Quadrivium. Il Giustiniani non spiega come tale opera potesse essere stata poi stampata, nonostante l'interdetto papale, ma soltanto esorta il destinatario della sua lettera, l'Orlandini, a impegnarsi in una confutazione delle teorie di Francesco.
Essenzialmente l'assunto del Quadrivium non differisce da quello del Convivio; tenendo ferma la previsione della completa conversione degli ebrei al cristianesimo, prevista per il 1517, F. vi aggiunge la profezia della prossima conversione anche dei maomettani, prevista per la metà del quarto decennio del sec. XVI.
Con questa nuova opera scritta in latino, F. si proponeva di portare le sue teorie all'attenzione di ambienti diversi dal ceto artigiano di Firenze, che fino a quel momento aveva costituito la maggioranza del suo pubblico.
Il Quadrivium, come già il Convivio, ebbe una vasta eco: lo stesso clero fiorentino diffondeva dal pulpito le profezie di F., mentre tra il popolo si faceva febbrile l'attesa del loro compimento. Tuttavia, avvicinandosi il fatidico anno 1517, le autorità civili e religiose (queste ultime preoccupate anche dalle prime avvisaglie della tempesta protestante che stava per scatenarsi) cominciarono a temere disordini popolari e turbamento delle coscienze; inoltre le tesi di F. cominciarono a scontrarsi con l'ostilità sempre più decisa dell'ambiente monastico camaldolese, ove, almeno all'inizio, egli aveva potuto contare su diverse amicizie. In particolare l'Orlandini, spinto dal Giustiniani, dedicò le sue energie migliori a confutare la costruzione teorica di Francesco. Scrisse due opere in contrasto con le tesi di F., Contro quelli che pongon termini certi alle prophetie e Contra eos qui se putant plene nosse prophetarum mentem, e poi ancora uno scritto espressamente rivolto contro di lui, la Expugnatio miletana (tutte rimaste manoscritte e confluite nella raccolta Eptaticum, conservata nella Biblioteca nazionale di Firenze, ms. II.I.158).
L'Orlandini affermava di aver esortato più volte F. ad adottare un'interpretazione delle Sacre Scritture conforme a quelle dei padri della Chiesa e delle autorità religiose. F. tuttavia gli aveva sempre opposto il successo ottenuto dalle sue opere presso "molte autorevoli persone di Firenze"; l'Orlandini con i suoi scritti cercava almeno di indurre alla cautela gli estimatori e i seguaci di F., tanto più che, secondo lui, alcune tesi erano patentemente eretiche: soprattutto le profezie del prossimo avvento del "papa angelico" e di quello del "puer parvulus", rivelatore dei misteri delle Sacre Scritture. Tali concetti l'Orlandini ripeté presumibilmente al sinodo diocesano convocato a Firenze nel gennaio 1517 dall'arcivescovo Giulio de' Medici, futuro papa Clemente VII. In realtà, nel testo a stampa dei decreti del sinodo (Statuta Concilii Florentini, pp. 65-71) non viene fatto il nome del delegato che si alzò per stigmatizzare le opere di F., scagliandosi violentemente contro coloro che presumevano di poter interpretare le Scritture senza avere le cognizioni necessarie e, soprattutto, essendo in stato laicale; tuttavia è probabile che il "venerabilis senex" autore della violenta filippica contro F. sia stato proprio l'Orlandini.
Il sinodo, sulla base di queste argomentazioni, emise una completa e severa condanna delle tesi di F., definendole "velenose, empie, nemiche della cattolica verità, erronee, temerarie e presuntuose". Sotto pena di scomunica si ordinava a tutti i possessori dei suoi scritti di consegnarli alle autorità religiose entro otto giorni dalla pubblicazione dei decreti sinodali, perché fossero bruciati, e questo spiega perché essi siano oggi estremamente rari. Sempre con la minaccia della scomunica, il sinodo vietava anche ogni riferimento a F. e alle sue profezie nelle prediche e nei sermoni. Infine si obbligava F. a fare pubblica ritrattazione entro due mesi dalla pubblicazione dei decreti stessi.
I deliberati del sinodo furono convalidati dalle bolle papali del 1° e 17 marzo 1517 e infine pubblicati il 12 apr. 1518. Non si sa se F. si sia conformato alle ingiunzioni; anzi dopo il sinodo del 1517 non si ha più alcuna notizia di lui: presumibilmente, più del rogo dei suoi libri, il mancato avverarsi delle sue profezie fece sì che su di lui si stendesse l'oblio più completo.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Firenze, Catasto, 801, cc. 1223-1226; 913, c. 810; 1003, c. 354; Statuta Concilii Florentini, Florentiae 1564, pp. 70 ss.; S. Bongi, F. da M. un profeta fiorentino a' tempi del Machiavelli, in Arch. stor. ital., s. 5, III (1889), pp. 62-70; G. Schnitzer, Savonarola, II, Milano 1931, pp. 443, 445; L. von Pastor, Storia dei papi, III, Roma 1942, pp. 193 s.; D. Weinstein, Savonarola and Florence, Princeton 1970, pp. 325, 353-357, 361 ss., 368-371; R.C. Trexler, Synodal law in Florence and Fiesole, Città del Vaticano 1971, pp. 77, 133 s.; E. Garin, La cultura filosofica del Rinascimento italiano, Firenze 1979, pp. 215-220; C. Vasoli, Movimenti religiosi e crisi politiche dalla signoria al principato, in Idee, istituzioni, scienza ed arti nella Firenze dei Medici, Firenze 1980, pp. 73 s.