DALL'ONGARO, Francesco
Nacque a Mansuè di Oderzo (Treviso) il 19 giugno 1808 da Sante e da Elisabetta Fantin, piccoli dettaglianti originari della zona di Pordenone. Aveva già scritto qualche verso quando, compiuti i primi studi, la famiglia si trasferì a Oderzo e di qui, nel 1820, a Venezia, dove il piccolo D. frequentò il seminario: lo aspettavano i corsi di teologia, ma già allora si intravedeva in lui una esuberanza giovanile difficile da tenere a freno. Se ne ebbero segni premonitori al seminario di Padova, dove era entrato nel 1828 e presso il quale studiò per tre anni; ma una reazione clamorosa il D. la fece registrare dopo, intanto rifiutando inizialmente le funzioni di parroco di campagna per svolgere un ruolo che lo appagava di più, quello del predicatore robusto e capace di trascinare le folle, quindi sottraendosi sempre di più agli obblighi e alle limitazioni imposte dal sacerdozio: se la sua fede era sincera, lo stesso non si può dire della sua vocazione che si scontrava con una vitalità inadatta a comprimere istinti non compatibili con la sua missione.
Quasi trent'anni più tardi il D. avrebbe scritto a E. Quinet che il primo impatto con la Chiesa ufficiale aveva soffocato tutti gli slanci umanitari che si portava dentro: "... e il primo mio grido, il primo appello alla tolleranza e all'amore fu condannato irrevocabilmente!" (A. De Gubernatis, 1875, pp. 26 s.). L'impressione, confortata da parecchi elementi probatori, è che quest'amore non avesse valori esclusivamente evangelici e che il graduale rifiuto della sua missione fosse originato dall'incapacità di dare un addio definitivo a tutti gli aspetti della vita secolare. "Un Dio che amor si nomina, / all'uom che lo somiglia / vietar amor poté?" (ibid., p. 18) era, riferita alla sua condizione di celibe obbligato, l'angosciata domanda di una delle sue prime composizioni; e nella risposta negativa era forse la chiave di quel suo intimo tormento. Da allora la sua speculazione si sarebbe orientata non verso l'ateismo ma verso una religione tutta interiorizzata che faceva a meno del clero, inteso come momento istituzionalizzato del viaggio dell'uomo verso Dio: una religione che successive vicende ideologiche gli avrebbero consentito di far coincidere con il "Dio e Popolo" mazziniano, vero punto di saldatura in lui tra coscienza morale e coscienza politica.
Parallelamente al progredire della crisi religiosa si definivano sempre più nel D. gli interessi per un mondo più libero, quello dell'arte e della letteratura: e mentre ragioni anche materiali lo spingevano ad accettare incarichi di precettore presso famiglie di nobili o di benestanti veneti, non cessava di coltivare quell'inclinazione per la poesia in cui il verso, in principio frivolo e quasi arcadico, fu presto romanticamente adibito a veicolo di sentimenti e passioni ben più profonde, non di rado anticonvenzionali.
A Trieste, dove egli si era stabilito usciva dal 1836 la Favilla, rivista di cultura diretta da G. Orlandini; il D. ne divenne collaboratore e, dal 1838, direttore e comproprietario con P. Valussi. La rivista durò fino al 1846 e il D. vi profuse tutte le energie di una mente che sapeva applicarsi a più generi - la novella, la poesia dialettale, la critica d'arte, le note di costume, il dramma - senza conoscere soste; e fu soprattutto merito suo se la Favilla divenne palestra di idee e culla del risveglio nazionale in una regione aperta a molteplici influssi e se la letteratura poté fare da tramite per esigenze impossibilitate a esprimersi politicamente. Surrogato delle ideologie, la cultura doveva per il D. servire a ridestare quel senso dell'identità nazionale che la dominazione austriaca tendeva a sopire col miraggio del benessere commerciale. Per la verità il poeta non sempre si trovò ai ferri corti con le autorità che rappresentavano l'Austria, e anzi intorno al 1845, essendo governatore lo Stadion, prestò il proprio sostegno a un piano di riforme dell'istruzione elementare che prevedeva un rilancio degli studi di lingua italiana e l'adozione di appositi testi: in quell'occasione il D., che già nel 1841 si era impegnato nella fondazione di un asilo popolare per il quale aveva approntato una raccolta di poesie e che in seguito aveva tenuto una serie di lezioni dantesche, preparò un'antologia in cui scrittori come Tommaseo, Valussi e lui stesso erano largamente rappresentati. Ma la disponibilità delle autorità civili a questa e ad altre iniziative del genere gli parve trovasse un ostacolo nel clero, e ciò non fece che confermarlo nella decisione di torna re allo stato laicale. Sembra che l'ultima sua messa egli la celebrasse a Roma repubblicana nel 1849; dopo di allora non rimpianse mai l'abito talare, ma l'appellativo di prete, datogli con ingenerosa frequenza dai suoi avversari politici, non se lo sarebbe più scrollato di dosso.
Intanto una sensibilità sempre maggiore ai bisogni della gente incideva anche sulla sua concezione poetica, in cui la lirica passava in secondo piano di fronte a composizioni che sapessero interpretare il disagio e in ultimo le sofferenze della popolazione. Nascevano da questa predisposizione un dramma a effetto come Il fornaretto e quegli stornelli e ballate che, ispirandosi alla tradizione popolare, ne mantenevano le facili cadenze cantabili per esprimere motivi patriottici con forza via via più avvertita. Al culmine di una politica di riforme che non riusciva a contenere la spinta verso l'indipendenza il D., in un banchetto offerto all'economista inglese R. Cobden, sosteneva la necessità di una lega doganale come primo passo verso l'unificazione del paese. Espulso perciò da Trieste (1847), si spostò in Toscana e poi a Roma, attratto dalla personalità di Pio IX che a lui, come a tanti altri credenti, pareva potesse compiere il processo di conciliazione tra religione e progresso, Chiesa e società civile. In questi mesi la sua penna instancabile sfornò stornelli e articoli di giornale per sostenere il programma neoguelfa: l'illusione durò poco, il tempo per vedere che nel Lombardo-Veneto la guerra federale stentava e le popolazioni erano lasciate a se stesse, come prese tra due fuochi: gli Austriaci da una parte e il Piemonte monarchico dall'altra. Fu allora che il D. fece suo l'ideale repubblicano.
Dopo aver assistito alla caduta di Udine e Treviso e perso il fratello Antonio all'assedio di Palmanova, passò a Venezia per farsi, nel Circolo italiano, acceso sostenitore dell'autonomia della Repubblica veneta così come in poesia era il cantore di una guerra di sterminio all'odiato nemico austriaco. Ostile all'unione col Piemolite, per combatterla il 14 giugno 1848 fondò con l'attore G. Modena e con G. Vollo un quotidiano, Fatti e parole, che servì da portavoce agli ambienti repubblicani, prima turbati dal decreto di fusione, poi, l'11 agosto, esaltati dal ritorno al potere di Manin e dalla restaurazione della repubblica, ma sempre sorvegliati per la loro polemica antimunicipalistica e per la risolutezza con cui predicavano la guerra; fino a che, dopo un articolo che il 4 ottobre criticava la marina per la scarsa convinzione con cui erano condotte le operazioni nell'Adriatico, il D. fu, per volontà di Manin, allontanato da Venezia, né valse a farcelo tornare un intervento di Tommaseo. Questa disavventura radicalizzò la sua posizione politica e lo spinse a contatti diretti con Garibaldi e Mazzini: delle istanze del primo fu mediatore efficace presso i ministri di Roma, la città in cui arrivò il 30 nov. 1848 e dove dal febbraio del 1849 fu membro della Costituente; il secondo, nominato triuniviro, lo volle direttore del Monitore romano, foglio ufficiale della Repubblica, e quindi lo destinò ad una poco fortunata missione di ristabilimento dell'ordine pubblico ad Ancona.
Dopo la presa di Roma il D. si rifugiò a Lugano e trovò lavoro presso la Tipografia elvetica di Capolago. A contatto con Cattaneo un'ansia di narrare gli eventi appena vissuti lo portò a ripercorrere il passato con spirito di polemista.
Nei due fascicoli dell'Almanacco di Giano, in cui narrava sotto forma di effemeridi i fatti occorsi nel biennio 1848-49, dicendosi certo dell'imminente riscossa repubblicana, e nel volumetto su Venezia l'11 agosto 1848, settimo della serie dei "Documenti della guerra santa d'Italia", dove era denunziata l'azione svolta dai moderati veneziani tra l'aprile e il giugno del '48 per favorire la fusione col Piemonte, e lo stesso Manin era attaccato in modo neanche tanto larvato, il D. profuse quello spirito di requisitoria che, corroborato da ben altro rigore documentario, sarebbe finito nel cattaneano Archivio triennale.
A quest'impresa il D. fu chiamato a collaborare sin dal settembre 1849, ma un anno dopo il contratto fu rescisso per le sue inadempienze, causate forse dall'impossibilità materiale di tener dietro ai tanti obblighi - giornalistici, propagandistici, editoriali - che l'ideale politico e le necessità della vita gli imponevano, particolarmente da quando aveva preso su di sé il mantenimento di una sorella e del nipote rimasto orfano.
Non c'era iniziativa che non lo trovasse disponibile, fosse il prestito nazionale o la stesura di bollettini da inviare nel Lombardo-Veneto, il contrabbando di libri in Piemonte o la pubblicazione, poi rientrata, degli Scritti di Mazzini, la raccolta di materiale documentario o la revisione della Guerra combattuta di Pisacane. In politica la sua azione peccava talora di ingenuità o di sensibilità: allorché nel 1850 il mazzinianesimo cominciò a essere scosso dai dissensi di uomini come Montanelli, Ferrari e Cattaneo, il D. si ostinò a far credere che la concordia regnasse nel partito; più tardi, ai clamori dei giornali francesi replicò sbandierando un unanimismo che certo non serviva alla causa della chiarezza. Fatto oggetto di persecuzioni da parte del governo svizzero, ne ritenne colpevole Cattaneo e i federalisti in genere; questi a loro volta videro in lui l'ispiratore di pubblicazioni diffamatorie come i Misteri repubblicani di P. Perego ed E. Lavelli: la spaccatura che ne derivò aveva tra le sue cause anche la diversa opinione sul futuro dei repubblicani che per il D. più che sulla propaganda scritta doveva puntare sulla preparazione di moti armati nel Lombardo-Veneto e sulla piena attuazione della strategia mazziniana.
La repressione seguita al moto milanese del 6 febbr. 1853, "un fatto - disse poi - al quale fui quasi straniero, ma che, nella disgrazia, mi parrebbe viltà sconfessare" (lettera ad A. Brofferio del 10 febbr. 1853: Roma, Museo centr. d. Risorg., b. 343/4/2), 10 costrinse a nascondersi in una villa di Brofferio sul Verbano e quindi a lasciare la Svizzera. Si stabilì a Bruxelles dove, pur senza interrompere i contatti con Mazzini, lentamente riprese a occuparsi di studi letterari, tornando alle lezioni private, alle conferenze dantesche, alla composizione di drammi e tragedie. Sempre infaticabile, fu però spesso afflitto dalla miseria, da cui non lo liberarono le traduzioni, gli articoli per giornali stranieri o la collaborazione a riviste quali la razionalista Ragione di A. Franchi. Nell'estate del 1857 andò a cercare fortuna a Parigi; ma lo aspettavano altri momenti difficili e, dopo l'attentato Orsini, anche le perquisizioni della polizia. Col tempo la figura di Mazzini si andava per lui dissolvendo per lasciare il posto a quella, più realistica, di Garibaldi; ed è sintomatico che quando, nel febbraio del 1859, una società di affaristi francesi che progettava il taglio di un istmo nel Nicaragui lo incaricò di svolgere pubbliche relazioni in Italia, il D. si recasse a patrocinare l'impresa anche da Cavour che - celiava un vecchio amico, il Modena - interessato alla possibilità d'impiantare nel paese centroamericano una colonia ove deportare i suoi oppositori, "sorridendo al poeta divenuto agente del progresso fisico-mercantile, certamente mormorò in cuor suo: "Tu caro vi anderai dei primi a piantarvi i pinoli"" (G. Modena, Epistolario, p. 343).
Tornato definitivamente in Italia, il D., se pure intimamente ancora legato agli ideali democratici, fu bene attento a non compromettersi e, stabilitosi nell'estate del 1859 a Firenze, ottenne che Ricasoli annullasse un provvedimento d'espulsione già pronto per lui. Dello statista toscano doveva scrivere di lì a poco, con quella di Pio IX, una biografia per una collana di ritratti di contemporanei intrapresa dall'editore Pomba di Torino.
Il Bettino Ricasoli del D. ebbe due edizioni (Torino 1860 e 1861) e l'onore di una versione in inglese; e sembra che Ricasoli si riconoscesse abbastanza nel personaggio aristocratico, inflessibile fino alla durezza e tenacemente unitario, disegnato da un D. che, volutamente dimentico del passato, accomunava in un'unica celebrazione tutti i protagonisti delle lotte appena concluse. Quanto al Pio IX (Torino 1861), l'interpretazione più psicologica che storica che del papa proponeva il D. vedeva in lui l'uomo magari anche ben disposto ma incapace di sottrarsi ai condizionamenti di un'istituzione come il Papato in cui dispotismo e dogmatismo erano le basi del doppio potere su cui poggiava.
L'anticlericalismo più implacabile era in effetti il solo ingrediente degli ultimi interventi d'un certo peso politico del D., come dimostrarono anche due pubblicazioni del 1865, l'una - Il profeta Bileamo e l'asina sua (Firenze) - in dura polemica con C. Cantù, un tempo suo corrispondente e ora candidato clericale alle elezioni; e l'altra - I gesuiti giudicati da sé medesimi - tendente a mettere in luce con la divulgazione di documenti della Compagnia il ritardo di tre secoli da essa imposto al trionfo della ragione. L'ideale della conquista di Roma gli ispirava simpatia per Ricasoli e nello stesso tempo lo teneva collegato, attraverso Garibaldi, allo schieramento democratico: esaltazione di Garibaldi ed esecrazione del Papato erano anche i motivi dominanti delle sue improvvisazioni poetiche.
Nei puntuali contrattacchi lanciati dai cattolici il D. scorse l'origine dei mali che afflissero i suoi ultimi anni di vita. Nominato nel 1861 professore di letteratura drammatica presso un ginnasio fiorentino grazie ai buoni uffici di Ricasoli, vide disertati i suoi corsi e frustrata l'aspirazione di passare all'Istituto di studi superiori, finché C. Correnti; ministro dell'Istruzione nel governo Lanza-Sella, gli fece avere una cattedra nell'università di Napoli; ma il moderato A. Scialoja, succeduto al Correnti, annullò l'incarico e sul finire del 1872 ordinò il ritorno del D. a Firenze.
La morte, sopravvenuta a Napoli il 10 genn. 1873, lo colse mentre si rassegnava a dare corso al trasferimento.
Profondamente pervaso degli ideali risorgimentali e romanticamente e religiosamente teso alla comprensione della realtà popolare ed alla promozione di una letteratura'che con quella si confrontasse, il D. si trova poeta-vate per istinto, per educazione (il seminario e l'ordinazione sacerdotale non essendo passati invano nella sua giovinezza) e per consapevole scelta letteraria (le confessioni più esplicite nella ballata Il poeta e nella premessa ad un volume di poesie pubblicato a Trieste nel 1840, dove indica in Victor Hugo uno dei suoi modelli). Coerentemente con questa impostazione, la letteratura diventa in lui ancilla populi, subordinata alle ragioni e alle necessità di un'impegno politico vissuto con quell'abnegazione che dal De Sanctis in poi tutti gli hanno riconosciuto. Se, senza tener conto di questo, si affronta ex abrupto la lettura di una qualsiasi delle sue opere, si corre il rischio di trovarsi criticamente spiazzati ed impossibilitati a produrre un giudizio che non vada poi a confluire quasi necessariamente nella tradizionale condanna accademica di una vena spesso moralistica nei contenuti e mai originale nelle forme espressive. Ovviamente ciò non vuol dire che in nome della comprensione globale si debba o si possa rinunciare ad un esame lucido e più squisitamente tecnico delle sue opere (esame che la critica sta portando avanti con risultati a prima vista del tutto inaspettati) o che programmi e intenti debbano avere la meglio sul giudizio critico: con il ricorso all'uomo e al patriota, non ci si può illudere di salvare l'artista, si possono però arrivare a comprendere più a fondo le sue ragioni ideali, si può penetrare il suo mondo poetico e comunque chiarire ciò che soprattutto gli stava a cuore.
Le sue novelle (Viola tricolor. Scene familiari del 1846, Novelle vecchie e nuove del 1861), chiaramente ed esplicitamente a tesi, sono fondamentalmente pretesti per esprimere un messaggio che di volta in volta era di documentazione, di denuncia o di commiserazione. E se pure per qualche tempo poterono guadagnargli la simpatia di scrittori interessati alla realtà regionale italiana, ben presto quel magistero si rivelò del tutto sterile: vivente l'autore, la sua lezione non trovò udienza né presso la friulana Caterina Percoto né presso il giovane Verga, ambedue in varia misura seguiti e incoraggiati dal D., ma ambedue allontanatisi dalla sua maniera.
La retorica e certa pesantezza di linguaggio, conseguenti tra l'altro al disinteresse per ogni tentativo di introspezione psicologica (che ha portato il D. a giocare le novelle quasi esclusivamente sul piano dell'impegno sociale), risultano un po' attenuate nella produzione lirica. Ma, forse, si è tentati di precisare subito, più per una certa adesione ai modelli (Byron, Heine e Manzoni soprattutto) che per scelta poetica personale e consapevole.
A differenza di quella novellistica, la produzione lirica esige un discorso criticamente e storicamente più articolato. Accanto a quella giovanile (gli Inni sacri, composti nel seminario veneziano e di chiara ascendenza manzoniana, e le quattro Odi all'amica ideale del 1830), acerba e comunque del tutto di maniera, essa comprende infatti opere più sicure nell'impostazione: Il venerdì santo, le ballate, gli inni e le odi di guerra, gli stornelli. Si tratta di una produzione che è, oltre che copiosa, eterogenea, quasi tendesse a coprire ogni settore della poesia romantica. Tra tutte le opere, gli stornelli fin dal loro apparire sono stati indicati, a vario titolo, come i più riusciti e comunque quelli nei quali meno si avvertono i difetti imputati invece alle altre (specialmente la mancanza di rilievo e una certa innegabile prolissità) e questo soprattutto per la loro aderenza al linguaggio popolare (che ha indotto lo Spinazzola a parlare di "oltranzismo dialettale"). Il più famoso di essi, Il Brigidino, fu musicato da Luigi Gordigiani ed ebbe un'eco europea. Ma ad una lettura più meditata anche il resto della produzione lirica ha rivelato un suo spessore artistico. Nelle ballate, accanto a quelle più aderenti al canone romantico della passionalità viva e dei contrasti violenti (tra le più note Usca e Paolo dal Liuto), e a quelle di argomento storico, che, a detta del De Lollis, sembrano preannunciare certa poesia del Carducci, ce ne sono altre (Poveri fiori, poveri cuori; La perla nelle macerie) nelle quali si può cogliere una capacità di esprimere la realtà popolare del tutto nuova rispetto alla produzione coeva e che, per certi aspetti, è anticipatrice della maniera naturafistica (Baldacci).
Se però nella maggior parte delle sue opere si nota il poeta (e, di volta in volta, il novelliere o il drammaturgo) indulgere o adagiarsi più di quanto avremmo desiderato nei modi della tradizione (romantica e non), questo non deve meravigliare più di tanto. Anzi, l'adesione a quei linguaggi, se non fosse dovuta soprattutto ad una mediocrità globale dell'artista, diremmo che è voluta, quasi programmatica, essendogli estranea ogni cura di ricerca formale. Non è dei resto senza conseguenze il fatto che la maggior parte della produzione letteraria del D. sia una produzione "militante", legata al mondo dei giornalismo e a quello dell'insegnamento: due mondi non proprio deputati alla messa in opera di più o meno sofisticate sperimentazioni linguistiche.
La produzione teatrale del D. si potrebbe dividere in due momenti ideali, quello precedente e quello successivo all'assegnazione della cattedra di letteratura drammatica, la prima istituita in Italia. E in realtà è solo dopo quella data (1861) che nel suo teatro i generi cominciano ad alternarsi e l'ispirazione non è più così compattamente limitata ai motivi risorgimentali o comunque a quelli desunti dall'attualità sociopolitica. Al folto gruppo dei drammi storici (I Dalmati - dramma noto qnche coll'altro titolo di Danae -, Il fornaretto, Guglielmo Tell, L'ultimo barone, Bianca Capello) si affiancano le commedie (L'acqua alta, L'eredità di un pazzo, Luna nuova), i rifacimenti da Menandro e da Plauto (Fasma, Il tesoro) e le traduzioni (la Cicuta di Augier, il Galileo di Ponsard e, con gli esiti migliori, la Fedra di Racine), opere tutte chiaramente riconducibili a quel recupero teorico della tradizione classica greca e latina e di quella francese moderna richiesto dalle nuove responsabilità accademiche. In margine all'attività teatrale va pure ricordata la sua attività di autore di libretti d'opera (al proposito basti riportare due titoli: L'amante di richiamo del 1846 per Federico Ricci) e Petrarca alla corte d'amore (per la stagione 1858-59, per Giulio Roberti). Al di là comunque del successo arriso al Fornaretto (dapprima soprattutto per le sue tesi antinobiliari), nessuna delle opere teatrali del D. è sopravvissuta all'autore.
Quanto al D. saggista, i suoi studi ci servono più per seguirlo nei diversi interessi e delineare così il suo orizzonte culturale che per il loro effettivo valore critico. Quelli su Dante spesso sono solo un pretesto per parlare dell'arte in generale e della situazione dell'Italia (non va dimenticato che la maggior parte delle conferenze dantesche sono state tenute in Belgio tra il 1852 e il 1855), mentre le dodici conferenze sull'arte tenute a Milano dal 1869 al 1871 trattano del contributo che l'arte può dare all'unità, civile più che politico-amministrativa, della nazione. Negli stessi studi sul teatro, lasciato da parte il discorso tecnico, il D. va alla ricerca di quei modelli (non mancano riflessioni sul teatro indiano) in grado di dare nuovi impulsi ideali alla drammaturgia italiana contemporanea.
Opere: Della vasta produzione letteraria del D. vanno ricordate le liriche: Odi quattro all'amica ideale, Venezia 1830; Il venerdì santo. Scena della vita di Lord Byron, Venezia 1837; La memoria, Venezia-Trieste 11844-451; Canti popolari (1845-49), Capolago 1849; Alghe della laguna, Venezia 1866; Fantasie drammatiche e liriche, Firenze 1866; Stornelli, poemetti e poesie. Biografia e note, a cura di N. Schileo, Treviso 1912; leopere teatrali: Ilfornaretto, Torino 1846; I Dalmati o Danae, Torino 1846; L'ultimo barone, Milano 1856; Bianca Capello, Torino 1860; Fasma, commedia di Menandro interpretata da F. Dall'Ongaro preceduta da un cenno storico-critico sulla commedia greca dopo Aristofane, Milano 1863; La resurrezione di Marco Cralievic, Firenze 1863; Il tesoro, Napoli 1864; L'acqua alta, schizzo comico, Venezia 1867; Guglielmo Tell (1857), Milano 1876,e, tra i libretti d'opera, L'amante di richiamo, Torino 1846; Il convito di, Baldassarre, Napoli 1878;le raccolte delle novelle: Viola tricolor. Scene familiari, Padova 1846; Novelle vecchie e nuove, Firenze 1861; Racconti, Firenze 1890, e, tra i testi saggistici, Perché il poema di Dante sia il più moderno di tutti? Introduzione al corso di conferenze sull'Inferno di Dante, Torino 1860; Bellezza drammatica della Divina Commedia, in Dante e il suo secolo, Firenze 1865, II, pp. 841-59; Scritti d'arte, ed. post., Milano-Napoli 1873. Senza esito il tentativo di raccogliere tutte le opere poetiche (Poesie, Trieste 1840-41, ma non si andò al di là del secondo volume e non senza frequenti imprecisioni filologiche) e quello di pubblicare un volume di Opere scelte (Milano 1859, che in realtà riunisce insieme le copie invendute del Fornaretto, dei Dalmati e del Venerdì santo editi separatamente a Torino nel 1846).
G. Pulce
Fonti e Bibl.: A parte le lettere del D. o a lui dirette, edite in A. De Gubernatis, F. D. e il suo epistolario scelto. Ricordi e spogli, Roma 1875 (preceduto da un'eccellente biografia), molti sono gli autografi - scritti letterari, documenti, lettere - sparsi in vari archivi e biblioteche. Premesso che per le collocazioni si rinvia ai relativi inventari e cataloghi, i fondi più cospicui sono i seguenti: Milano, Arch. dell'Istituto G. G. Feltrinelli, Carte Macchi; Arch. di Stato di Roma, Carte Pianciani;Bibl. Apost. Vaticana, Fondo Villari, Racc. Ferrajoli Visconti e Racc. Patetta-Scrittori;Forli, Bibl. A. Saffi, Raccolta Piancastelli; Livorno, Bibl. Labronica, Autografoteca Bastogi;Pisa, Arch. della Domus mazziniana; Roma, Museo centr. del Risorgimento. Lettere dei D. in: T. Massarani, C. Correnti nella vita e nelle opere, Firenze 1907, pp. 556-63, 565 ss.; A. Ottolini, L. Carrer-F. Dall'Ongaro Lettere e versi ined., Venezia 1916; M. Zorić, Lett. di F. D., A. Gazzoletti e C. Betteloni a F. Carrara, in Studia Rom. et Ang. Zagabr., VIII (1963), pp. 199-226. Per l'ampiezza dei suoi rapporti con tutti i democratici ital. è facile trovare lettere al D. e notizie su di lui in molte raccolte documentarie. Qui si segnalano le maggiori, cominciando con gli epistolari: E. Del Cerro, Fra le quinte della storia, Torino 1903, pp. 179-246; Ediz. naz. degli scritti di G. Mazzini (per la consultazione si vedano gli Indici, ad nomen); C . Pisacane, Epistolario, a cura di A. Romano, Milano-Roma 1973, ad Ind.; C. Cattanco, Epistolario, a cura di R. Caddeo, L-IV, Firenze 1949-1956, ad Ind.;G. Modena, Epistolario, a cura di T. Grandi. Roma 1955, ad Ind.; G. Garibaldi, Epistolario, II, 1848-1849, a cura di L. Sandri, Roma 1978, ad Indicem. Diari, mem. e raccolte di dispacci: N. Tommasco, Diario intimo, a cura di R. Ciampini, Torino 1938, ad Ind.; Id., Venezia negli anni 1848 e 1849. Memorie stor. ined.…, a cura di P. Prunas-G. Gambarin, I-II, Firenze 1931-1950, ad Ind.; La Repubblica venera nel 1848-49, I-II, Milano 1949-1954, ad Ind.;G. Asproni, Diario polit. 1855-1876, a cura di C. Sole-T. Orrù, Milano 1976-1980, ad Ind. Come nota F. Della Peruta nella scheda bibliogr. da lui dedicata al D., in Bibliogr. d. età del Risorg. in on. di A. M. Ghisalberti, I,Firenze 1971, p. 272, "Sul Dall'Ongaro politico... mancano buoni lavori recenti". Delle numerose biogr. si ricordano: A. De Gubernatis, Ricordi biografici…, Firenze 1872, pp. 324-36; P. Valussi, F. D., Udine 1875; F. Bosio, Ricordi personali, Milano 1878, pp. 27-56; N. Meneghetti, F. D., Udine 1914; R. Barbiera, Ricordi delle terre dolorose, Milano 1918, pp. 159-98; B. G. Stanganelli, F. D., Napoli 1931. Spunti interpretativi su momenti partic. della vita del D. sono rintracciabili in opere di più vasto respiro. Per l'attività giornalistica: R. Scodro, F. D. direttore di giornali a Trieste, Venezia e Roma, in Giornalismo del Risorg., Torino 1961, pp. 547-77; e in O. Majolo Molinari, La stampa periodica romana dell'Ottocento, I-II, Roma 1963, ad Ind. Sulla missione ad Ancona nel 1849: A. M. Ghisalberti, Orsini minore, Roma 1955, ad Ind. Sulsuo ruolo nel '48 veneziano: P. Ginsborg, D. Manin e la rivol. venez. del 1848-49, Milano 1978, ad Ind. Sull'esilio svizzero e i contrasti coi federalisti: R. Caddeo, La tipogr. elvetica di Capolago, Milano 1931, ad Ind.;Id., Le ediz. di Capolago, Milano 1934, ad Ind.;F. Della Peruta, Idemocratici e la rivoluz. ital. …, Milano 1958, ad Indicem. Sugli anni trascorsi in Belgio: M. Battistini, Esuli ital. in Belgio (1815-1861), Firenze 1968, ad Indicem. Sul D. letterato: R. Barbiera, F. D. Ricordo, Venezia 1873; C. Catanzaro, Cari estinti, Firenze 1873, pp. 47-52; P. G. Molmehti, F. D., in Impress. letter., Venezia 1873, pp. 29-34; G. Mongeri, pref. a F. Dell'Ongaro, Scritti d'arte, cit.; R. Barbiera, Simpatie, Milano 1877, pp. 65-170; W. D. Howelly, pref. a F. Dall'Ongaro, Stornelli polit. e non polit., Milano 1883; A. Boccardi, Della Favilla, giornale triestino (1836-1846), Trieste 1888; C. Cimegotto, Due lettere ined. di F. D., Verona 1900; A. Boccardi, Teatro e vita, Trieste 1905, pp. 241-44; E. I. Minelli, C. Percoto [con lettere del D.], Udine 1907; G. Bustico, C. Percoto e F. D., Domodossola 1910; G. Mazzoni, L'Ottocento, Milano 1910 (si cita dalla 9ª rist. della 2ª ed., 1973), 1, pp. 602 s., 638 s.; II, pp. 186 s., 264; F. De Sanctis, Commemor. di F. D., in La Critica, X (1912), pp. 151 ss.; N. Schileo, Stornelli, poemetti..., cit.; L. Neretti, Fatti e personaggi dei Risorg. naz. illustrati dalla vita e da alcuni degli stornelli politici di F. D., in Divagazioni, Firenze 1915, pp. 5-38; R. Barbiera, I poeti ital. del sec. XIX, II, Milano 1916, pp. 721-36; M. Trabaudi Foscarini, F. D. Note di critica letteraria, Firenze 1924; C. 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G. Monsagrati-G. Pulce