DATINI, Francesco
Figlio di Marco e di una Vermiglia, nacque a Prato probabilmente nel 1335. Fu il fondatore di un grande sistema di aziende il cui archivio ci è pervenuto praticamente integro; depositato presso la Sezione di Archivio di Stato di Prato, esso consta di 140.000 lettere, di oltre 500 registri e libri di conto e di migliaia di altri documenti.
Ben poco si sa della famiglia del D.: intorno al 1218 si conosce, da una confinanza di una proprietà nei pressi di Prato, un Accompagnato di Buonfigliolo, da cui un Toscanello, poi un Datino e infine Marco, padre del mercante pratese. Tutto fa presumere che all'inizio del Trecento la famiglia fosse da tempo radicata in Prato e che non avesse una grande fortuna, se Marco di Datino poté mettere insieme una modesta ricchezza esercitando la professione non di oste, come è stato scritto, ma di macellaio, o, come si diceva, "tavernaio".
Marco di Datino morì nel 1348, a causa della peste; nello stesso anno scomparvero anche la madre del D. e due suoi fratelli, mentre sopravvisse un fratello minore, Stefano.
I due fratelli furono affidati alla tutela di un loro parente, il pratese Piero di Giunta Dei Rosso, e furono accolti nella casa di Piera di Pratese Boschetti, cui il D. rimase affettuosamente legato.
Già nel 1349 il D. iniziò a lavorare a Firenze, successivamente in due botteghe, e a Firenze trovò probabilmente la persona, a noi sconosciuta, che gli offrì di trasferirsi ad Avignone, allora sede del Papato. Il D. non si lasciò sfuggire l'occasione e intraprese il viaggio, nel 1350, con un capitale di 150 fiorini, ricavati dalla vendita di un pezzo di terra dell'eredità paterna.
Non si possiedono notizie sui primi anni della sua attività nella città provenzale, ma è presumibile che il D. abbia lavorato come garzone e fattore di qualche mercante fiorentino ed abbia al contempo investito il suo peculio e quanto altro, in merci o in denaro, gli poteva essere inviato da Prato dal tutore o da amici e conoscenti. Nel 1353 fu raggiunto ad Avignone dal fratello Stefano (di cui si perdono le tracce dopo il 1359), dotato di un centinaio di fiorini derivanti dall'eredità paterna. L'anno successivo il D. rientrò a Prato (altri suoi viaggi in patria ci sono noti per il 1359, il 1369 e il 1370) e realizzò 138 fiorini vendendo un secondo pezzo di terra.
Queste scarne informazioni consentono di supporre che il D. stesse gradualmente costituendosi una situazione di indipendenza, di cui abbiamo la prima prova il 13 luglio 1363, quando strinse società con un parente di Piera Boschetti, Niccolò di Bernardo da Prato. Separatosi da Niccolò fra il 1365 e il 1367, il D. si associò al fiorentino Tuccio di Lambertuccio, restando però, come nella prima compagnia, nella posizione di socio subordinato. P, da notare che in questa società operarono due personaggi destinati ad una lunga carriera nel sistema delle aziende del D.: i fiorentini Tieri di Benci, nipote di Tuccio, e Boninsegna di Matteo Boninsegna.
Dal 25 ott. 1367 ha inizio una compagnia, rinnovata fino al 15 marzo 1373, fra il D. ed il fiorentino Toro di Berto di Tieri: ma il D. era qui sostenuto finanziariamente dall'appoggio esterno del vecchio socio Tuccio di Lambertuccio, che, a sua volta, immetteva denari del D. nella compagnia che aveva costituito con un altro mercante.
Nel 1373 il D. si sentì maturo per la costituzione di una compagnia individuale, che si protrasse poi per quasi dieci anni, dotata di un capitale iniziale che è stato calcolato in circa 4.600 fiorini: "con questo organismo si apre il periodo più attraente e significativo dell'attività dei mercante pratese in Provenza... alfine indipendente, servendosi di valente personale, dette subito un grande impulso alle operazioni, con accorgimenti vari, che gli permisero di accrescere straordinariamente le risorse e le possibilità dell'azienda" (Melis, 1962, p. 148). Se si pensa che il D. era ad Avignone da ormai più di vent'anni, non si può non essere colpiti dal gradualismo con cui egli era riuscito a farsi una posizione, di neppur particolare rilievo, viste le somme investite; il D. cioè non trovò la fortuna a portata di mano, ma costruì pazientemente, e senza alcun particolare "colpo" speculativo un'azienda che ancora rientrava nei limiti usuali di tante analoghe compagnie. Sarebbe toccato ora al suo "genio" negli affari il compito di trasformare la modesta società in un grande sistema di aziende.
Non è un caso che proprio in questi anni il D. si sia sentito abbastanza sicuro dei risultati conseguiti da poter pensare anche al matrimonio, cui giunse, più che quarantenne, nel 1376, dopo molte sollecitazioni degli amici, e soprattutto di quella Piera Boschetti che lo aveva accolto dopo la morte dei genitori e che aveva con lui mantenuto da Prato una fitta corrispondenza.
La scelta della sposa cadde sulla fiorentina Margherita di Domenico Bandini, di quasi venticinque anni più giovane, orfana di padre - il Bandini era stato giustiziato per motivi politici a Firenze nel 1360 -, che risiedeva con la famiglia in Avignone.
La riuscita del matrimonio, celebrato con molto sfarzo, fu indubbia, anche se Margherita non diede figli al Datini. I rapporti fra i coniugi, sia per le frequenti assenze del mercante, sia per l'inclinazione a quegli amori ancillari consueti nel suo mondo, furono spesso burrascosi, ma la profonda intesa che li unì emerge a chiare lettere dalla corrispondenza che frequentemente scambiarono e che ci è in larga parte conservata: è sulla base di questi documenti che è stato possibile ricostruire, con notevoli approfondimenti psicologici, un quadro della vita matrimoniale dell'epoca, oltre che un profilo del D. "intimo".
Come in centinaia di altre lettere, e soprattutto in quelle scambiate con il notaio e amico Lapo Mazzei, risaltano qui tutte le contraddizioni, le esitazioni, le ambasce di un uomo fondamentalmente ed esasperatamente preso dal suo lavoro, ma consapevole e rammaricato del tempo sottratto agli affetti familiari, alle amicizie, alla devozione religiosa. La corrispondenza fra Margherita ed il D., ricca di notazioni ispirate al buon senso comune, punteggia gran parte dei 34 anni di una vita matrimoniale nel corso della quale gli episodi salienti (le assenze del D., la tragica successione della morte dei più fedeli collaboratori, i timori per la peste) videro i due sposi sempre affettuosamente legati e solidali, con una forte propensione del D. ad affidare alla moglie, nell'ambito della vita domestica, un ruolo di "padrona" che appare tutt'altro che insignificante. E d'altronde Margherita (che sopravvisse al marito e venne a morte a Firenze nell'anno 1423) condivise fino in fondo questo "senso della famiglia" che il D., nonostante tutto, avvertiva assai forte. Accolse, ad esempio, nella sua casa una figlia naturale, Ginevra, che il D. aveva avuto da una schiava. Tenuta a balia a Montelupo Fiorentino fra il 1394 e il 1395, Ginevra Datini visse poi in famiglia fino al 1407, quando venne data in sposa a Leonardo di ser Tommaso di Giunta.
L'azienda individuale di Avignone, costituita nel 1371 cessò col novembre del 1382, quando il D., anche in conseguenza del ritorno a Roma del papa (1376-77), Si apprestò a rientrare in Italia. Le successe, dal 10 dic. 1382, una compagnia nella quale, accanto al mercante pratese, comparivano come soci Boninsegna di Matteo e Tieri di Benci e, dal 1385, al momento del primo rinnovo, Andrea di Bartolomeo da Siena: si trattava, in tutti e tre i casi, di vecchi fattori del Datini.
La società così costituita, attraverso successivi rinnovi, sarebbe durata fino al 1410, anno della scomparsa del D., perdendo Andrea di Bartolomeo, uscito fin dal 1390, e Boninsegna di Matteo, morto nel 1397, ed acquistando come nuovo socio, dal 1401, un altro ex fattore, Tommaso di ser Giovanni da Vico d'Elsa.
Ormai integrata nel più generale sistema delle aziende datiniane, la compagnia di Avignone, ricca di ramificazioni, francesi, catalane e lombarde in particolare, e aperta a numerose associazioni in partecipazione, offre un cospicuo esempio della continuità e della solidità delle imprese del D.: nei più di 47 anni documentati dell'attività delle aziende di Avignone, oltre ai soci, operarono quasi sessanta "impiegati" di vario livello e di varia origine, fra cui non mancarono i francesi. L'utile annuo dei capitali impiegati dal D. avrebbe oscillato fra il 17 ed il 22% e il frutto complessivo dovrebbe essersi aggirato intorno ai 25.000 fiorini.
Con 33 giorni di viaggio, fra la fine del 1382 e l'inizio del 1383, il D., con tutta la sua "brigata", si trasferì da Avignone a Prato, passando per il Monginevro, Moncalieri, Asti, Milano (dove trascorse il Natale), Cremona, Parma e Bologna. Preceduto dalla fama di grande e ricchissimo mercante, ebbe, nella sostanza, buona accoglienza dai suoi concittadini e stabilì definitivamente in Prato la sua residenza, provvedendo a notevoli acquisti di beni immobili e ad una vivace opera di costruzioni edilizie.
Anche se il D. si avvicinava orinai alla cinquantina, Prato era destinata ad essere tutt'altro che un "buen retiro": col ritorno in patria prende infatti l'avvio tutta una serie di nuove società che finiranno per costituire il vero e proprio celebre "sistema" delle aziende Datini. Tre furono le sedi delle "ragioni" aperte al rientro: Pisa, fin dall'8 genn. 1383. C poco dopo Firenze e Prato.
Nella costituzione di questi fondaci il D. seguì la medesima procedura: "distaccava sul luogo un proprio collaboratore, che dava inizio alle operazioni, appoggiandosi ad una compagnia corrispondente; in un secondo momento costituiva l'azienda, affidandola a quello stesso collaboratore... oppure ad un fattore che traeva dalla compagnia sopraddetta, ed i quali portava, grado a grado, alla funzione di direttori, associandoseli, a conclusione" (Melis, 1962, p. 173).
Lo stesso D., tuttavia, si muoveva spesso da Prato e da Firenze, le sedi presso le quali normalmente abitava: così fu a Pisa per parecchi mesi nel 1384 e nuovamente nel 1386 (è del 6 apr. 1386 una sua lettera in cui dichiarava di fare una "vita da chani" per il molto lavoro). Sempre seguita molto da vicino dal "principale", la "ragione" pisana fu rinnovata nell'agosto del 1386 e proseguì poi per sei anni, conoscendo un notevolissimo incremento, manifestato anche dal continuo accrescersi dei collaboratori (di ben ventotto persone fu complessivamente l'organico di tutte le compagnie pisane). La società di Pisa venne rinnovata in seguito il 1° luglio 1392, il 10 ag. 1395, il 16 nov. 1396, il 24 nov. 1397, il 15 ag. 1399 e il 25 luglio 1400. "Quest'ultima data è posteriore di quattro giorni alla morte di Manno d'Albizo, una delle non poche vittime illustri della pestilenza, nel gruppo datiniano. La scomparsa di colui sul quale si imperniava la compagnia significò lo scioglimento della medesima ... Sappiamo che il D. rimase tanto turbato e desolato per la simultanea perdita di tanti validissimi collaboratori, da desistere da qualsiasi proposito di reintegrazione dei vuoti" (ibid., p. 179). Peraltro le sorti di Pisa, assediata da Firenze, contribuivano a spingerlo verso questa decisione.
Poco più tardi di quella di Pisa, forse nello stesso gennaio 1383, venne aperta la "ragione" di Firenze, anch'essa personalmente seguita dal Datini. Il secondo esercizio cominciò nell'anno 1386 con una sede propria della società "in Porta Rossa"; esso cessò nel maggio del 1388, quando la sede fu portata in Por S. Maria - alla cui arte omonima il D. era iscritto.
Iniziò a questo punto la serie delle imprese fiorentine in forma collettiva, sette delle quali (fino al 1404) furono caratterizzate dalla partecipazione, in qualità di socio, di Stoldo di Lorenzo, il maggiore collaboratore del mercante pratese, e le ultime cinque dalla partecipazione di Luca del Sera. "Presso la compagnia fiorentina si vennero man mano accentrando le funzioni generali del sistema... ed, anzi... nel 1392 essa iniziava la partecipazione in due nuove aziende del sistema, a Genova, allora nata, e a Pisa" (ibid., p. 199). Nel 1396, poi, la società fiorentina dava vita ad un'altra compagnia, quella di Catalogna.
Agevolmente superata la crisi apertasi nel 1404 con la brusca radiazione di Stoldo di Lorenzo, la compagnia fiorentina, che, nei suoi circa 28 anni di vita, avrebbe assorbito il lavoro di quarantatré persone, conobbe, fra il 1405 e il 1410, utili annui di oltre il 15 Agli anni fra il 1388 e il 1410 risale anche un'associazione in partecipazione del D. "in proprio" con Domenico di Cambio "in traficho di veli e di drappi di seta e in ogn'altra chosa volesse trafichare" (ibid., p. 210), che consentì di conseguire altri cospicui utili.
Accanto alle attività prettamente mercantili il D. volle dedicarsi anche a quelle bancarie, nonostante le molte esitazioni di alcuni suoi collaboratori che, a conoscenza del progetto, gli esternavano il timore che potesse perdere "il nome del magiore merchatante di Firenze" per acquistare quello di "chaorsino", di usuraio (ibid., p. 213). Il capitale di costituzione del banco, aperto a Firenze "in Merchato nuovo", in associazione con un giovane pratese, Bartolomeo di Francesco Cambioni, il 13 nov. 1398, fu di 5.000 fiorini, conferiti per i 4/5 dal D. e per 1/5 dal socio. Anche a causa della prematura morte di quest'ultimo, avvenuta l'8 ag. 1400, il banco venne però chiuso il 25 marzo 1401.
L'importanza di Genova nell'ambito dei traffici datiniani convinse il grande mercante pratese ad aprirvi, il 10 genn. 1392, un fondaco che continuava le attività di una compagnia fiorentina di cui facevano parte Andrea di Bonanno di ser Benizo e Luca del Sera; essi divennero soci del nuovo organismo accanto al socio maggiore, rappresentato dalla compagnia Datini di Firenze.
Nella storia della ditta di Genova "si distinguono sei compagnie, fino al 14 giugno 1400, e la fase di liquidazione, terminata il 31 dic. 1401" (ibid., p. 228). Dieci furono le persone impiegate a Genova e il rendimento annuo - escludendo un'associazione in partecipazione per la produzione di panni - dovette aggirarsi intorno al 1500.
Dopo l'apertura del fondaco di Genova il sistema Datini si indirizzò verso la Catalogna. Furono stabiliti fondaci a Barcellona e a Valenza prima come filiazioni di quello di Genova, poi dal 1396 - resi autonomi e unificati in un solo organismo articolato in tre sedi (oltre a Barcellona e a Valenza, anche Maiorca).
Infatti più che di tre distinte compagnie si tratta di un'unica compagnia "divisa", con sede in una casa madre, che fu Valenza, nel primo e settimo periodo, con Barcellona e Maiorca in posizione subalterna, e Barcellona in tutti gli altri periodi, con Valenza e Maiorca in posizione subalterna. Complessivamente nell'azienda "di Catalogna", che operò fino al 1411, vennero impiegate ventisette persone e gli utili avrebbero sfiorato il 25%. L'azienda domestico-patrimoniale, con naturale sede in Prato, dove il D. di norma abitava, presiedeva ovviamente alla gestione delle sue proprietà, ma comportava anche un'attività mercantile e bancaria, con centro in una apposita "bottega" nella città toscana. In essa prestarono servizio, fra il 1383 e il 7410, almeno venti persone (escludendo i lavoranti ed i famigli addetti strettamente alla casa), che furono comunque quasi tutte attive per il D. in altri settori.
Scarse sono le informazioni sulla gestione dell'azienda pratese, anche a causa della difficoltà di ricostruire distinte contabilità per interventi che andavano dalla muratura, dal restauro di edifici e dalla cura dei beni agricoli alle vere e proprie operazioni mercantili. Si può però ricordare che il D. assunse anche l'appalto del dazio delle carni e di quello del vino.
La sede di Prato è da menzionare soprattutto per un'altra iniziativa del D. destinata, sia pur indirettamente, ad essere meno caduca dei pur impressionante sistema di aziende mercantili che egli aveva diffuso fra la Spagna e l'Italia: l'industria laniera.
La compagnia dell'arte della lana di Prato si aprì nell'agosto del 1384fra il D., Piero di Giunta Del Rosso e Francesco di Matteo Bellandi, tutti pratesi. Il Del Rosso era il vero e proprio "lanaiolo", mentre al D. spettava fondamentalmente l'approvvigionamento della lana. Nel 1392venne costituita la "Francesco di Marco e compagni, lanaioli", di cui fu anima Niccolò di Piero di Giunta Dei Rosso, affiancato da un artigiano di grandi capacità, Matteo di Andrea Bellandi. Nel 1395essa venne rinnovata e vi entrò come socio d'opera un terzo Dei Rosso, Agnolo di Niccolò di Piero di Giunta, scomparso già nell'anno 1399.
Di questa compagnia è rimasta una documentazione minuziosa e completa che ha consentito al Melis di ricostruire il "suggestivo congegno medievale" dell'opificio laniero "in ogni cellula più minuta e dispersa, distinguendo l'organismo, in tutti i suoi elementi, dal complesso operativo che ne è promanato" (1962, p. 495;cfr. pure pp. 495-634).L'utile finale della compagnia, di 600fiorini, non appare straordinariamente elevato, ma è importante sottolineare, da un lato, che nell'insieme del sistema delle aziende Datini la possibilità di smerciare manufatti di propria produzione consentiva di accrescere altri utili, dall'altro che, in termini generali, il conferimento di capitali ad un'attività industriale contribuiva all'innalzamento del tono della vita economica del centro m cui il D. operava a livello mercantile e bancario.
Questo spirito d'iniziativa del D. - che pare spesso alimentato, ben più che dalla sete di guadagno, dal gusto della sperimentazione, del rischio calcolato, dell'"avventura", intesa nel senso della continua ricerca di nuovi campi in cui misurare le proprie capacità e il proprio ingegno (ed è qui il D. veramente "moderno") - condusse alla creazione di un'altra impresa industriale, la compagnia dell'arte della tinta, anch'essa con sede in Prato.
È a Niccolò di Piero di Giunta Del Rosso che il D. si affidò per la realizzazione del progetto, offrendo al socio il "gagliardo coefficiente del capitale monetario, e più ancora... quello della possibilità di approvvigionamento di qualsiasi materia, così come di accrescimento della produzione" (ibid., p. 293). Aperta nel 1395, la compagnia scomparve nel luglio del 1400 con la morte del Del Rosso, dopo aver svolto una grande mole di lavoro per i lanaioli fiorentini, oltre che, naturalmente, per quelli pratesi.
L'anno 1400 segna uno spartiacque decisivo per la vita e per le attività dei D. Il suo trust - scrive ancora il Melis (1962, p. 295) "raggiunse la sua espansione massima - in quanto al numero, e con esso la varietà, delle aziende componenti - il13 nov. 1398, con la fondazione della Compagnia del Banco; ma ebbe breve durata: giacché la morte di Agnolo di Niccolò, avvenuta il 12 apr. 1399, trasse seco, al principio dell'anno successivo, la cessazione della compagnia dell'arte della lana, seguita, entro lo spazio di pochi mesi, dallo spegnimento di altre quattro combinazioni -quelle di Genova, di Pisa, della Tinta e del Banco - per la perdita dei rispettivi compagni-direttori... . L'assortimento di questo sistema era... pieno: ogni genere di attività veniva disimpegnato da organismi aziendali di qualsiasi struttura -integrati da molteplici associazioni in partecipazione - stabiliti in due regioni italiane e in due Stati forestieri. Da quando (13 luglio 1363) la documentazione permette di seguire il mercante pratese nel campo della sua normale applicazione, si sono adoperate al suo fianco 172 persone...". Per ciò che concerne gli utili dell'attività datiniana essi superarono il 20%. "al lordo della remunerazione dei dirigenti principali, ossia i soci parzialmente o esclusivamente d'opera" (ibid., p. 324); e si può calcolare che "degli utili totali del sistema, Francesco ha fatto suo il 65,69%" (ibid., p. 327), accumulando quasi 100.000 fiorini nel giro di meno di cinquant'anni.
È più o meno questa la cifra di cui il D. lasciò erede l'istituzione pratese del Ceppo dei poveri di Cristo, che alla sua morte si trovò titolare delle quote di partecipazione nelle aziende superstiti, oltre che dei beni immobili del Datini. Ma anche se il nome dei D. non scomparve immediatamente (la compagnia fiorentina si intitolò ad esempio "L'aseguizione di Francesco di Marco e compagni"), la sua grande creazione mercantile, non paragonabile a quella dei Bardi e dei Peruzzi, ma certamente molto più imponente della media delle ditte dei suo tempo, si spense con lui, perché egli non aveva assunto "soltanto la funzione del socio capitalista", ma aveva conservato "la posizione di elemento dirigente, del vero e proprio padrone" (Luzzatto, p. 43); aveva realmente "saputo portare al più alto livello i due attributi fondamentali del capitale e della energia umana" (Melis, 1962, p. 335).
Dalla data del rientro a Prato, nel 1383, al 1410, la biografia del D. conosce ben pochi episodi di rilievo al di fuori dell'attività mercantile. A Prato si sistemò in una casa di sua proprietà "in sul canto del Porcellatico" che, acquistata nel 1354 dal tutore Piero di Giunta Del Rosso, era stata successivamente restaurata.
Cittadino pratese e per censo eleggibile alle massime cariche, fu tratto gonfaloniere nel dicembre del 1386 e tentò invano di sottrarsi all'impegno dell'ufficio nascondendosi per sei giorni a Firenze. Non è questa la sola circostanza in cui il D. manifestò il suo fastidio e la sua indifferenza per l'attività pubblica e per la politica in generale. Possiamo ad esempio ricordare quanto scriveva agli amici di Prato nel 1376 da Avignone annunciando il suo matrimonio: la sposa era figlia di Domenico Bandini "al quale fu tagliata la testa a Firenze già fa più tempo, che fu incolpato che volea dare Firenze a non so che Signore" (Bensa, p. 27): si trattava del papa, ma il D. non sembra avere alcuna curiosità di indagare sull'episodio.
Nella sua qualità di maggior "contribuente" pratese toccarono al D. oneri ed onori di ospitalità, come per Francesco Gonzaga nel 1392, per l'oratore veneto Leonardo Dandolo nel 1397 e, nel 1410, per Luigi II d'Angiò, che concesse al D. di inserire il giglio di Francia nel suo stemma. Ma a parte questi solenni momenti, il rapporto col "pubblico" del D. si ridusse per lo più al confronto con il fisco, di cui ebbe assai spesso a lamentarsi. Nel 1394, sperando in un miglior trattamento, chiese ed ottenne la cittadina a fiorentina.
Il D. rimase così pertinacemente chiuso nel suo guscio di mercante, ed anche di proprietario. Grandi cure dedicò infatti all'acquisto e alla organizzazione del suo ingente patrimonio immobiliare. Al momento della morte esso consisteva di "73 unità, delle quali 27 site in Prato e 46 nei dintorni. Esattamente, in Prato il D. era proprietario di 25 case... e di due fondaci; nel contado di 35 pezzi... di terra a colture arboree ed erbacee, 7 boschi, la villa del Palco, una casa da lavoratori, una casa e una torre a Filettole" (Melis, 1962 pp. 71 s.). Il valore di questi beni superava i 10.000 fiorini, a cui ne vanno aggiunti forse altri 2.000 per le proprietà fiorentine.
Non mancò al D. il gusto di costruire, di restaurare, di ornare di opere d'arte le sue case; d'altronde, fin dai primi anni della sua attività avignonese, egli era stato molto attento al mercato degli oggetti artistici, talora prodotti di serie, ma talora anche pezzi unici. E accanto alle opere d'arte trattò i manoscritti, fungendo da tramite importante per la stessa diffusione della cultura umanistica. Certo nessun aspetto della vita del mondo a lui contemporaneo poté restargli estraneo: basti pensare che sul suo desco mercantile giungevano lettere da ogni angolo del Mediterraneo e dell'Europa, e lettere ricche non di sole notizie di affari. Di qui le non poche sollecitazioni verso una varietà di interessi, che finivano tuttavia poi sempre per scivolare in secondo piano, assorbiti dall'urgere delle preoccupazioni di lavoro.
Oltre ai continui spostamenti fra Prato e Firenze, e talora Pisa, caratterizzano la vita del D., nell'ultimo decennio del Trecento e nel primo del Quattrocento, quelli fra la sua casa di Prato e la villa del Palco, fuori città. Il D. non è mai fermo, e, nonostante l'età, appare sempre in fuga, anche davanti alla morte: nel 1390-91 riparò a Pistoia per evitare la peste, e nel giugno del 1400, di fronte all'avanzare della nuova epidemia a Firenze e nel suo contado, decise di trasferirsi a Bologna, dove la peste già si era esaurita. Nella città emiliana, dove era giunto con tutta la sua famiglia, il D. rimase fino al settembre del 1401, trovando assai gradevole il soggiorno.
Gli ultimi nove anni di vita del D. rivelano, già forse attraverso l'evidente restringersi delle sue attività mercantili, un certo ripiegamento su se stesso ed una maggiore propensione a riflettere sui temi religiosi. L'amicizia stretta con il notaio pratese Lapo Mazzei e le sollecitazioni del beato Giovanni Dominici e di altri religiosi, ebbero certamente un decisivo influsso sul D., che tuttavia, ancora nel 1399, quando partecipò al pellegrinaggio dei Bianchi, appare tanto poco coinvolto dalla devozione da stendere un ricordo dal quale emergerebbe "addirittura l'immagine di una pacifica scampagnata" (Ginzburg, p. 623).
Negli anni successivi si colgono nelle lettere del D. tracce evidenti di una adesione non formale alle pratiche religiose, anche se permane una diffidenza di fondo nei confronti di una Chiesa e di una gerarchia, oltretutto sconvolte dallo scisma, di cui aveva troppo ben conosciuto gli aspetti meno spirituali.
Superata una malattia nel 1403, subite varie traversie giudiziarie, colpito dal "tradimento" di Stoldo di Lorenzo, sposata la figlia naturale Ginevra nel 1407, il D. faceva un primo testamento il 27 giugno 1410, lasciando erede per la metà l'Opera del Ceppo di Prato e per l'altra metà l'Ospedale di S. Maria Nuova di Firenze. Ma il 31 luglio modificò il testamento, destinando la quasi totalità dei suoi beni ad una istituenda fondazione c he avrebbe dovuto intitolarsi Ceppo dei poveri di Francesco di Marco, da gestirsi dal Comune di Prato e non dall'autorità ecclesiastica.
Il 16 ag. 1410 il D. venne a morte in Prato e le sue esequie furono celebrate con grande solennità.
La destinazione ai poveri della fortuna accumulata in oltre sessant'anni di ininterrotto impegno mercantesco può esser forse letta nella chiave di un estremo atto contabile; volto a regolare il rapporto con l'al di là, ma se si pensa, ad esempio, al tragico succedersi delle pesti che, dalla morte del padre a quella di moltissimi dei suoi collaboratori, hanno segnato la quotidiana esistenza del D., l'ipotesi di un'intima, profonda conversione appare tutt'altro che improponibile.
Al di là di ogni polemica, più o meno moralistica, sull'"uomo" D. e sulla sua "rappresentatività" dei periodo di transizione fra Medioevo da un lato e Rinascimento ed Età moderna dall'altro, occorre sottolineare che, comunque, attraverso la biografia del grande mercante pratese, possiamo avvicinarci soltanto ad una sezione particolare della società italiana del Tre e Quattrocento.
Sia perché originario di una città, come Prato, ormai integrata nello Stato regionale dominato da Firenze, sia perché di modeste origini, sia, forse, infine, perché privo di discendenza maschile, mancano completamente al D. due dimensioni tipiche dei mercante medievale italiano: quella della "famiglia", nel senso del grande raggruppamento agnatizio, formidabile negli affari come nelle relazioni sociali, e quella, alla prima strettamente collegata, "politica".
Si è detto che il D. o tanto a Prato quanto a Firenze dimostrò chiaramente di non avere alcun interesse per gli uffici pubblici, né mai prese parte alle continue lotte dei partiti cittadini" (Origo, pp. 36 s.): qualsiasi giudizio si voglia dare sul livello delle lotte politiche contemporanee, questa constatazione non può trasformarsi in un elogio dei D.; è solo la prova che egli fu un isolato, un grande isolato.
Non fu "cortigiano" ad Avignone, non fu engagé nelle pur accesissime lotte degli ultimi decenni del Trecento e dei primi anni del Quattrocento. Il suo potere economico non si trasferì mai, neppure indirettamente, sul terreno politico. L'orizzonte culturale del D. non fu mediocre; egli fu tutt'altro che sordo, ad esempio, alle espressioni artistiche, al dramma religioso della sua epoca, al problema della miseria e del dolore di masse costrette al limite della sussistenza. Ma, e per carenza di tradizione familiare e per inclinazione, non vesti i panni del "cittadino", a riprova, in fondo, dell'assenza di qualsiasi automatismo nel rapporto fra ricchezza e potere politico nella società italiana dei basso Medioevo.
"Nel nome di Dio e del guadagno": questa è realmente la formula che racchiude l'esperienza datiniana: il "nome" del "Comune", mito e sostanza dell'impegno di tanti altri mercanti toscani, dal Duecento al Cinquecento, non è fra quelli invocati dal Datini.
In verità egli non fu certo il solo a circoscrivere al privato, per così dire, l'ambito del suo impegno e, se si pensa alla sua posizione di self made man, se si riflette sui tanti capostipiti di grandi dinastie politico-mercantesche, anch'essi rimasti chiusi nelle loro attività di lavoro, appare ingiusto pretendere che il D. sia stato diverso da quello che fu: un modello di spirito imprenditoriale destinato a incidere sulla vita politica e sociale del suo tempo non direttamente, ma attraverso l'esempio dato a quei mille operatori economici che con il loro paziente ed ostinato lavoro ordirono la trama di ricchezza e di cultura professionale su cui si fondò la civiltà toscana dei Rinascimento.
Fonti e Bibl.: Le sterminate possibilità di indagine offerte dall'Archivio Datini in ogni campo della ricerca storica hanno favorito il fiorire di una bibliografia datiniana che spesso va ben oltre la delineazione della biografia del mercante pratese. Ci limitiamo pertanto a segnalare le opere di maggior rilievo - attraverso le quali sarà agevole risalire a tutti gli altri contributi - e quelle più recenti. C. Guasti, Lettere di un notaro [Ser Lapo Mazzei] ad un mercante [F. D.] del sec. XIV, con altre lettere e documenti, I-II, Firenze 1880; I. Del Lungo, F. di Marco Datini, mercante e benefattore, Prato 1897; G. Livi, Dall'Archivio di F. D. mercante pratese .... Firenze 1910; S. Nicastro, L'Archivio di F. D. in Prato, Rocca San Casciano 1914; G. Corsani, I fondaci e i banchi di un mercante Pratese del Trecento. Contributo alla storia della ragioneria e del commercio, Prato 1922; R. Brun, Quelques italiens d'Avignon au XIVe siècle, I, Les archives de D. à Prato, in Mélanges d'archéol. et d'hist., XL (1923), pp. 103-13; Id., A Fourteenth Century merchant of Italy: F. D. of Prato, in Journ. of Econ. and Business History, II (1930), pp. 450-66; Id., Annales avignonnaises de 1382à 1410 extraites des Archives de D., in Mémoires de l'Institut histor. de Provence, XII-XV (1935-1938), passim; R. Piattoli, In una casa borghese del sec. XIV, in Arch. stor. pratese, VI (1926), pp. 112-23; Id., Codicillo al testamento di Marco Daini, ibid., VII (1927), pp. 20 ss.; Id., Miscellanea di cose pratesi: un documento datiniano intorno alla processione dei Bianchi, ibid., X (1931), pp. 30-34; Id., L'origine dei fondaci datiniani di Pisa e di Genova in rapporto agli avvenim. politici, Prato 1930; Id., Un mercante del Trecento e gli artisti del tempo suo, Firenze 1930; E. Bensa, F. di Marco da Prato. Notizie e documenti sulla mercatura ital. del sec. XIV, Milano 1928; G. Luzzatto, Piccolie grandi mercanti nelle città italiane del Rinascimento, in In onore e ricordo di G. Prato. Saggi di storia e teoria economica, Torino 1931, pp. 27-49; Mostra internaz. d. Archivio Datini, Prato 1955; A. Sapori, Studi di st. econ., I,Milano 1955, passim; P.Fiorelli, Briciole dalla mensa di F. D., in Arch. stor. Pratese, XXXII (1956), pp. 25-31; I. Origo, The Merchant of Prato, F. di Marco D., London 1957 (tr. it., Milano 1958 e 1979: le citazioni sono tratte da quest'ultima edizione); I. Imberciadori, Proprietà terriera di F. D. e Parziaria mezzadrile nel '400, in Economia e storia, V1958), pp. 254-72; N. Bemporad, Il restauro del Palazzo Datini a Prato, Prato 1958; G. Bandini, Lettere datiniane Pervenute dalla Sardegna, in Annali della Facoltà di economia e commercio d. univers. di Cagliari, I (1959-60), pp. 193-211; F. Melis, A proposito di un nuovo volume sul "Mercante di Prato", in Economia e storia, VI 1959), pp. 737-63; Id., Aspetti della vita economica medievale (Studi nell'Archivio Datini di Prato), Siena 1962 (è questa l'opera fondamentale sul D. mercante); Id., Il problema D. Una necessaria messa a punto, in Nuova Rivista stor., L (1966), pp. 682-709; C. Ciano, La "Pratica di mercatura" datiniana (sec. XIV), Milano 1964; A. Stussi, Sette lettere mercantili fabrianesi (1400-1403), in L'Italia dialettale, XXX (1967), pp. 118-37; B. Cole, The interior decoration of the Palazzo Datini in Prato, in Mitteil. des Kunsthistor. Instituts in Florenz, XIII (1967-68), pp. 61-821 Comptes du sel [Libro di ragione e conto di salle] de F. di Marco D. pour sa compagnie d'Avignon, 1376-1379, a cura di Ch. Viflain-Gourdossi, Paris 1969; M. R. Thielemans, Les sources de l'hist. écon. de la Belgique aux Archives Datini à Prato (fin XIVe début XVè siècle), in Archives et Bibliothèques de Belgique. XLII (1971), 1-2, pp., 241-65; L. Curti, Antichi testi sicit. in volgare, in Studi mediolatini e volgari, XX (1972), pp. 49-139; G. Miccoli, La storia religiosa, in Storia d'Italia, II,1,Torino 1974, pp. 839, 856 s., 860, 876 (per la devozione del Datini; con rimandi bibl.); V. Rosati, Le lettere di Margherita Datini a F. di Marco, in Archivio storico pratese, L (1974), pp. 3-93; LII (1976), 1, pp. 251-52; 2, pp. 83-202; F. Melis, Origini e sviluppi delle assicurazioni in Italia (secc. XIV-XVI), I, Le fonti, Roma 1975, ad Ind.; F. Gies-J. Gies, Women in the Middle Ages, New York 1978, ad Indices; G. Pampaloni, Prato nella Rep. fiorentina, in Storia di Prato, II, Prato 1980, pp. 3-218; B. Dini, Una pratica di mercatura in formazione (1394-1395), Firenze 1980; R. C. Treler, Public Life in Renaissance Florence, New York-London 1980, pp. 131-58; A. Esch, Ober den Zusammenhang von Kunst und Wirtschaft in der italienischen Renaissance. Ein Forschungsbericht, in Zeitschrift für histor. Forschung, VIII (1981), pp. 196 s.