GUARDI, Francesco de'
Pittore, nato a Venezia il 5 ottobre 1712, morto ivi il 1° gennaio 1793, poco prima del cadere della Serenissima e poco prima dello spegnersi della magnifica fioritura pittorica settecentesca della città lagunare; di cui egli si può considerare il rappresentante ultimo e maggiore nelle vie delle conquiste del colore, e quello che più s'avvicina, precorrendola, all'arte moderna. Nella sua felice pittura concorrono varie tendenze. Figlio di un pittore "da camera" cioè in grande, Domenico, nativo di Mastellina in Val di Sole (Trentino) ma educato a Vienna, egli mantiene qualche elemento tipico del rococò austriaco, tanto legato alla branca trentina e a Verona. D'altra parte, essendo morto il padre nel 1716, troppo presto per poter influire su di lui, attraverso al fratello Giovanni Antonio (1698-1760) egli si trovò in diretto contatto con la pittura più decorativa di Venezia, quella soprattutto di Sebastiano e di Marco Ricci e di Giovan Battista Tiepolo, legato alla famiglia Guardi anche per aver avuto in moglie una sorella di Francesco, Cecilia (1719). Accanto a Giovanni Antonio, la cui fama soverchiò, finché visse, quella del modesto ma tanto più geniale fratello Francesco, egli poté dedicarsi alla pittura in grande, con notevole vantaggio per lo sviluppo delle sue qualità. Lasciando da parte quel gruppo di opere, che si possono considerare di collaborazione fra il ricordato Giovanni Antonio e Francesco, gruppo che si connette alla paletta firmata dal fratello maggiore, con la Morte di San Giuseppe, oggi al Kaiser-Friedric-Museum di Berlino, ma che subito si distingue per un fare meno viscido e manierato (si ricordino di Giovanni Antonio anche le lunette della Sacrestia nella parrocchiale di Vigo Anaunia, una Madonna a S. Francesco di Cavalese, e i disegni dello Stadel-Institut di Francoforte), va segnalata la complessa decorazione dell'organo dell'Angelo Raffaele a Venezia, che ha il vantaggio di essere di due tempi, entrambi datati. Del 1747 sono le portelle ("i laterali dell'organo" dei documenti), con la Speranza e l'Eucaristia, e dietro una marina, oggi nella raccolta Ringling a Sarasota, (U. S. A.), ancora un poco schiumose e sfatte alla maniera del fratello. Bastano i pochi anni che separano queste figure quasi al naturale dai sette pannelli che decorano il frontale della tribuna dell'organo stesso, eseguiti fra il 1750 e il 1753, perché Francesco ci si presenti nella pienezza delle sue conquiste pittoriche. A sorreggere la maniera sfatta fraterna, oltre al genio nativo, ormai preponderante, si nota un salutare nervosismo, derivato, oltre che da un contatto più profondo col Ricci e col Tiepolo, da uno studio evidente e fruttuosissimo dell'arte di Alessandro Magnasco, elemento essenziale in lui al pari che in Giambattista Piranesi, nel secondo momento della sua attività d'incisore. Nel poggiolo di organo dell'Angelo Raffaele, la figura è viva quanto lo sfondo e il paesaggio. È naturale che con questa preparazione complessa F. potesse giungere alle vedute, ai paesaggi di fantasia e ai capricci con una superiorità che solo ebbe fra i moderni Claude Monet. In questo genere, con la serie delle dodici feste, plagiate di sana pianta dalle dodici incisioni di Giambattista Brustolon derivate dal Canaletto (1764), plagio tipico di lui e della sua famiglia, come provano la sua deliziosa paletta di Vigo Anaunia, copiata da un quadro del Solimena, e le scene di Giuseppe Ebreo, già Stucky, tratte dal Manaigo e dal Cignani, per non citare che qualche esempio, egli diede il pretesto di essere considerato discepolo del Canaletto, non solo da autorevoli studiosi moderni come il Simonson, ma anche dagli stessi contemporanei. La sua pittura invece è assolutamente l'opposto di quella del Canaletto; il quale fece delle vedute e dei capricci (che non sono se non delle vedute combinate, come c'insegna un disegno di Darmstadt), non più di una pittura memorativa e quasi scientifica, basata sopra l'uso della camera oscura, da prospettico, cioè, anche se poi dotata d'innegabili grandi qualità coloristiche. Le vedute di F. invece, sintetiche, commosse, subitanee, mancano completamente di scheletro geometrico e si possono piuttosto riconnettere a quelle primizie straordinarie del paesaggio veneto, che Giorgione offrì con la sua Tempesta: dove la prospettiva sembra trascurata, ma dove la sensibilità atmosferica e visiva è veramente eccezionale. Diviene cioè il padre del paesaggio mobile, che è il paesaggio moderno. Queste ammirabili qualità, che gli fecero ricercare la città in tutti i punti più pittoreschi e in tutti i momenti più varî per luce, non lo resero celebre; e si deve certo al bisogno di vivere, s'egli moltiplicò le sue opere, spesso valendosi dell'aiuto del fratello Niccolò, morto nel 1785, e poi del figlio, tanto meno dotato, Giacomo, morto nel 1835. All'Accademia egli non giunse che tardi, nel 1784; in quell'Accademia, dove il fratello Giovan Antonio era stato un dominatore accanto al Tiepolo: e vi fu più sopportato che considerato.
La Serenissima, anche quando gli commise nel 1782 di fare una serie di quattro scene a ricordo della venuta di Pio VI a Venezia, gl'impose di sottostare, per l'esecuzione e per le varianti credute necessarie, all'indirizzo di Pietro Edwards, ispettore alle belle arti.
Dopo le meraviglie del poggiolo dell'Angelo Raffaele, possiamo ritenere che F. G. raggiungesse il vertice della sua arte precorritrice in certi "capricci" (si notino, come i più vistosi, quelli già nel castello di Colloredo in Friuli), in cui egli ritrae, modificandoli con la fantasia vivacissima, certi gruppi di case decrepite, che sembrano sfarsi sotto la carezza della luce, e certi giardini sfarfallati di ombra e di sole, che preludono vivamente il Monticelli e il Fontanesi, e tanto più la pittura del Turner e del Constable. Ma forse il massimo della sua arte si può cogliere in quegli angoli, quasi privi d'interesse illustrativo, come il Rio dei Mendicanti (Bergamo, Accademia) e la Laguna del Museo Poldi-Pezzoli a Milano, dove tutta la melanconica sensibilità dell'artista si rivela attraverso un semplice rapporto di toni, che non ha quasi più bisogno dell'appoggio del soggetto. Per la storia dell'arte, da notare l'entusiasmo soprattutto del Bonington per questo maestro, che Venezia non capì e subito dimenticò. (V. tavv. III e IV e tav. a colori).
Bibl.: G. A. Simonson, Fr. G., Londra 1904; P. Panizza, Fr. G., Trento 1912; G. Damerini, L'arte di Fr. G., Venezia 1912; G. Fiocco, in Rass. d'Arte, 1919, p. 223; id., in Thieme-Becker, Künstler-Lex., XV, Lipsia 1922 (con bibl.); id. Fr. G., Firenze 1923; E. v. Busse-Granand, F. G. u. die Kleinmeister d. venetianischen Rococo, Lipsia 1925; N. Lasareff, Two unknown painting by G., in The Burlington Mag., XLVI (1925), pp. 58-63; G. Fiocco, G. as a figure painter, ibid., XLVI (1925), pp. 224-30; id., Il ridotto e il parlatorio del museo Correr, in Dedalo, VI (1925-26), pagine 538-46; L. Fröhlich Bum, Two drawings by F. G. in the Dresden print-room, in The Burl. Mag., XLIX (1926), pp. 31-32; D. v. Hadeln, Two allegorical figures by F. G., ibid., L (1927), pp. 254-59; G. Fiocco, ibid., maggio 1927; G. Biermann, Eine bisher unbekannte "Piazza von San Marco" des F. G., in Der Cicerone, XX (1928), pagine 557-58; A. Morassi, F. G. as a figure painter, in The Burl. Mag., LV (1929), pp. 293-99; K. Erdmann, Zwei neue Historienbilder v. F. G., in Pantheon, 1929, pagine 506-10; M. Tinti, F. G., Parigi 1930.