Francesco De Sanctis: Opere – Introduzione
Pur senza entrare nel merito delle riserve, che più volte e fondatamente sono state espresse, circa l’attendibilità nei particolari della ricostruzione retrospettiva del suo pensiero quale risulta dal tardo frammento autobiografico, e ammettendo senz’altro una certa tendenza evidentissima a retrodatare le fasi salienti del suo svolgimento culturale e teorico, si può prestar fede nel complesso alla testimonianza del De Sanctis là dove egli riporta agli anni della prima scuola napoletana, soprattutto dal ’42 in poi, il momento determinante di una crisi di dottrine, di metodo e di gusto, e quindi la scoperta e l’avvio di un indirizzo ideale, che doveva nel corso ulteriore della sua attività evolversi bensì con un naturale processo di arricchimento e approfondimento, ma pur sempre in una linea di coerente fedeltà a quei principii e senza gravi scosse e svolte troppo brusche e repentine. Risale infatti a quegli anni di intense letture e meditazioni anzitutto il nucleo più vistoso, e veramente decisivo, delle sue acquisizioni culturali, letterarie storiche e filosofiche; è possibile anzi, attraverso una lettura oculata e prudente dei documenti della sua prima attività didattica, giunti fino a noi in una forma assai imperfetta e doppiamente mediata, distinguere e ordinare con una certa approssimazione le successive stratificazioni di una cultura assimilata con quella larghezza e varietà di interessi mentali e quella prontezza e alacrità di adesione alle mutevoli vicende della vita intellettuale italiana ed europea, che rimarranno fino all’ultimo caratteristiche dello scrittore irpino. Prima, in ordine di tempo e di importanza, sebbene fin qui non abbastanza sottolineata dagli studiosi, la scoperta e la prolungata frequentazione delle fonti settecentesche ed illuministiche, che ebbe parte preponderante nel promuovere l’apertura della sua intelligenza e del suo gusto, l’orientamento fondamentale della sua visione politica, e in particolare la crisi della sua prima educazione grammaticale e rettorica (se è vero che il Cesarotti, con la sua teorica della lingua, e il Beccaria, con le sue riflessioni sullo stile, lo aiutarono prima e più di ogni altro a rompere il rigido schematismo e l’angustia delle tesi puristiche, a ritrovare il senso della libertà e della storicità degli strumenti espressivi e la qualità concreta e funzionale, non formalistica, della letteratura; e che dal Baretti, dal Bettinelli, dal Voltaire egli fu portato primamente a scoprire il concetto, e perfino il linguaggio vivo e polemico, di una critica liberata da ogni residuo accademico e pedantesco). Su questo fondo, non mai rinnegato, di cultura illuministica vengono quasi subito, e senza contrasto, a innestarsi gli apporti delle teoriche romantiche, delle poetiche e della poesia moderna, tedesca e inglese, francese e italiana: Goethe e Schiller e Byron, Manzoni e Leopardi, Hugo; la filosofia kantiana e postkantiana; Sismondi, gli Schlegel, Gioberti; Villemain e Cousin, Guizot e Thierry, contribuiscono via via ad alimentare e stimolare il fervore di una mente che aderisce con estrema alacrità e con intensa partecipazione al progresso in atto delle idee e della sensibilità. È di quegli anni anche la sua prima esperienza della lotta politica, e, in accordo con le tendenze fondamentali della coscienza contemporanea e con le esigenze particolari della rivoluzione nazionale e borghese italiana, l’acquisita nozione del nesso vivente fra l’attività intellettuale e quella pratica, per cui le esperienze del critico e quelle dell’uomo d’azione fin da allora e poi sempre si svolgono non pur parallele, ma strettamente legate e rivolte ad un fine comune. L’allargamento degli orizzonti intellettuali, promosso dalla civiltà romantica europea, è accolto, secondo la linea della migliore cultura italiana, in quanto non contraddice, anzi continua e approfondisce le istanze democratiche e gli intendimenti realistici dell’eredità settecentesca. La critica è già intesa nella sua funzione militante, in quanto scopre, asseconda, interpreta e chiarisce i fermenti e le iniziative spontanee di una concreta esperienza d’arte, con particolare attenzione ai problemi del rinnovamento in senso moderno ed europeo della letteratura nazionale. Manzoni e Leopardi non soltanto costituiscono l’ideale punto di riferimento e il termine conclusivo alle storie, rispettivamente, del genere narrativo e di quello lirico, ma fin da allora forniscono i motivi e gli spunti al costituirsi di una poetica, già chiaramente delineata nel senso dell’esigenza di una verità e modernità inscindibile dei contenuti e delle forme, del realismo e dell’evidenza espressiva. Nelle lezioni napoletane anteriori al ’48 è presente, sia pure in nuce, la linea della futura Storia della letteratura italiana, con i suoi nodi problematici essenziali; e soprattutto è presente la prospettiva largamente storica, e non monografica, dell’indagine; il bisogno di una visione ampia, ma non generica; l’attenzione portata a cogliere la concretezza e l’individualità delle persone e dei testi, proprio attraverso una rigorosa collocazione spaziale e temporale e il riferimento a una determinata situazione culturale e civile, nel quadro cioè di un coerente svolgimento delle strutture sociali, degli istituti e delle ideologie.
Nelle lezioni giovanili, dunque, o meglio nel quadro degli interessi e degli orientamenti mentali che può ricavarsi da una lettura tra le righe di quelle lezioni, è possibile ritrovare ad uno ad uno tutti i lineamenti che concorrono a costituire la personalità del De Sanctis maggiore: il sentimento storico e la vocazione critica, innestati sul fondo di una robusta passione civile e risolti in termini di alta e virile pedagogia; una cultura romanticamente aperta, ma scevra da involuzioni reazionarie, intesa ad inverare sul piano di un concreto progresso le premesse democratiche dell’illuminismo, e pertanto già avviata nel senso di un superamento dialettico dell’antitesi illuministico-romantica, verso un più maturo realismo del costume, dell’ideologia e del gusto; il concetto infine dell’arte come intelligenza poetica del reale, che esclude l’arbitrio della fantasia e ogni forma di estetismo idealistico. Si aggiunga che, all’esercizio iniziato allora dell’esposizione orale e non pedantescamente didattica del proprio pensiero, si possono riportare in germe le caratteristiche e le qualità della scrittura stessa desanctisiana, con le sue tipiche sprezzature, la sua prontezza comunicativa, il suo andamento dialogico e vivacemente drammatico, la sua pittoresca mescolanza di eloquenza aulica e dimessa, di forme letterarie e parlate.
La prigionia e l’esilio, le vicende e gli incontri del soggiorno torinese e di quello zurighese, le nuove esperienze dell’uomo, del patriotta, del giornalista, dell’insegnante, nel decennio fra il ’50 e il ’60, avranno soprattutto il compito di chiarire e maturare questo fondo già costituito di cultura e questo complesso di idee e di sentimenti, elaborando in forme ancora provvisorie, ma già sostanzialmente valide, il grandioso materiale di interpretazioni critiche, e la relativa coscienza teorica e metodologica, che confluiranno nella fase breve ma intensa di relativo raccoglimento e di definitiva sistemazione, fra il ’69 e l’83, con la raccolta dei Saggi critici, delle lezioni sul Petrarca, e la stesura della Storia della letteratura e dello Studio sul Leopardi. È importante rilevare come siffatta maturazione si svolga non già sul piano di una astratta teorizzazione, bensì in un duplice ordine di riflessioni e di esercitazioni concrete e in un assiduo confronto e reciproco conforto delle une con le altre: il che rende ragione bensì della scarsa sistematicità, ma anche della ricchezza di un pensiero sempre calato in una problematica attuale. È possibile sempre ricollegare ogni conquista desanctisiana, di estetica o di metodologia, a un tema preciso della sua indagine critica. Manzoni lo aiuta a definire i termini della sua poetica: l’ideale mediato nel reale, l’analisi come tipo della poesia moderna, che si traduce in forme oggettive e culmina nel genere, attuale per eccellenza, del romanzo. Leopardi, amorosamente interrogato nella sua sostanza difficile e apparentemente contraddittoria, lo guida ad affinare il metodo, liberandosi da ogni criterio aprioristico, per giungere a quel discorso critico storicamente articolato in un nesso continuo di analisi letteraria e di indagini biografiche e psicologiche, che, nel saggio leopardiano appunto intrapreso negli anni estremi e rimasto incompiuto, rappresenterà, se non il risultato più alto, certo la formula più matura sul piano metodico della sua esperienza di lettore e di interprete. Machiavelli e Guicciardini, per la prima volta intesi nel loro significato più autentico e per così dire esemplare, gli forniscono gli schemi essenziali della sua visione storica. Dante soprattutto, proponendogli il problema del rapporto nell’opera artistica fra la struttura e la poesia, gli porge l’appiglio alla critica dell’estetica hegeliana e al chiarimento dei concetti, essenziali per tutta la sua critica futura, di «forma» e di «situazione».
Non è il caso di addentrarsi in questa sede in un’analisi dettagliata di questo processo di maturazione, in cui confluiscono strettamente connesse esigenze di gusto e di metodo, di sentimento e di dottrina; basterà dire che esso si esplica da un Iato, essenzialmente, in una polemica contro il formalismo esteriore, e cioè contro la forma intesa nel senso pedantesco dei retori e dei grammatici (polemica svolta su un piano letterario, ma con evidenti applicazioni anche nel campo della politica, del costume, dell’educazione morale); e dall’altro lato in una critica serrata del concetto hegeliano dell’arte come rappresentazione dell’idea (critica che include la possibilità di un superamento d’ogni concezione idealistica e l’avvio di uno storicismo moderno, liberato da ogni residuo metafisico). Per questa via il De Sanctis giunge già nel ’58 al suo concetto di forma come unità organica, della forma che «non è un’idea, ma una cosa», e cioè la realtà stessa, il vivente, in quanto si configura nella mente dell’artista, realizzandosi in un nuovo organismo, che è esso medesimo momento in sé perfetto e insopprimibile del processo vitale: «ogni contenuto è una totalità, che come idea appartiene alla scienza, come esistere materiale appartiene alla realtà, come forma appartiene all’arte». Questo principio della forma come organismo, come «cosa veduta», implica l’accentuazione di un metodo storicistico, e della totalità della visione storica, comunque essa si specifichi poi nel proprio assunto particolare. Perché, se il poeta «coglie il contenuto come forma», ciò «non vuol dire che... debba sopprimere il resto, cioè a dire quello che ci è di religioso, di politico, di morale, di reale», ma solo «che tutto questo debba comparire come forma»; e pertanto il critico, che ha il compito di definire quel contenuto-forma, deve saperlo a sua volta ricostruire in tutta la sua determinatezza (non come materia sentimentale astratta, ma come sostanza di sentimenti specificata in una precisa situazione storica) e inoltre in tutta la sua pienezza (non come forma indifferente, ma come espressione organica di una complessa realtà culturale ed etica). La duplice polemica che il De Sanctis è venuto svolgendo e la raggiunta formula del rapporto unitario di contenuto-forma debbono insomma, sul piano estetico, assicurare per un verso il momento dell’indipendenza dell’arte, del suo valore autonomo e fino ad un certo punto slegato dalla natura contingente dei contenuti che essa di volta in volta assume; e per un altro verso la sua storicità, e cioè la sua genesi determinata e la sua funzione determinante nel movimento complessivo della vita sociale. Sul piano critico, fra le due tendenze entrambe erronee di un astratto contenutismo, che valuta e svaluta l’opera poetica sul fondamento dell’analisi della sua sostanza ideologica, e di un altrettanto astratto formalismo, che pretende di giudicarla in sé fuori dalle sue condizioni di spazio e di tempo, esse permettono di raggiungere una posizione, non già equidistante, bensì dialettica, in cui di volta in volta lo spostarsi dell’attenzione e dell’interesse sull’aspetto prevalentemente formale e su quello intenzionale e funzionale sia determinato dalle necessità intrinseche di una critica, che essa stessa adempie a una funzione polemica e si inserisce attivamente in una situazione di contrasti culturali. Il che comporta dovunque un processo assiduo di riferimento dialettico dei fatti artistici con la realtà, di cui essi sono nello stesso tempo specchio e ricreazione ed elemento operante; e un esame dell’opera d’arte non statico, ma in movimento, inteso a coglierla e scrutarla nel suo farsi, prima e più che nella sua immobile e conclusa perfezione. Al concetto della forma come organismo e intelligenza di un reale storicamente individuato, corrisponde quello della critica come definizione storica e analisi genetica del suo oggetto.
Di queste idee troviamo la formulazione più convinta ed esplicita in una celebre nota al saggio sulle lezioni del Settembrini, scritto nel ’69, quando il De Sanctis aveva ormai intrapreso la stesura della sua opera maggiore, di quella Storia, che è bensì il punto d’arrivo di tutta la sua attività precedente e la somma dei risultati raggiunti nel campo della teoria e delle sue concrete applicazioni, ma anche un ponte lanciato verso una possibile evoluzione di concetti e di metodi nel senso di una sempre maggiore concretezza di analisi filologica e scientifica: l’espressione più alta della cultura dell’età romantica, ma anche la coscienza severa della crisi di quella cultura e dell’avvio di un’epoca nuova, che «caccerà di nido tutte le costruzioni ideali e sistematiche», ripudierà ogni schema ontologico, eliminerà i residui «fantastici, mistici, metafisici e rettorici», riprenderà «il lavoro paziente dell’analisi», farà scaturire dal seno stesso dell’idealismo «il realismo nella scienza, nell’arte, nella storia».
Proprio questa coscienza di una grave crisi culturale, che traspare lucida da certe pagine del citato saggio sul Settembrini nonché dalle pagine conclusive della Storia, ci permette di definire esattamente la posizione storica, non della Storia soltanto, ma di tutta l’opera del De Sanctis, i suoi limiti (per quel tanto in cui essa si manifesta vincolata alla filosofia e al gusto di una determinata epoca), ma anche il suo lievito polemico e critico (in quanto si innalza a scrutarne le manchevolezze ideali e le storture etiche) e la sua apertura, le ragioni della sua persistente attualità. Il messaggio morale e educativo che scaturisce dagli scritti desanctisiani (dalla Storia come dai saggi: tanto per citarne qualcuno, da quelli su Schopenhauer e Leopardi o su L’uomo del Guicciardini), e l’esempio di una critica concretamente storica, restano ugualmente validi, in quanto nascono da un’unica fonte e confluiscono in un medesimo assunto. E il fatto che il significato di un’opera, nel suo complesso di cosi alto e affascinante rigore scientifico, si illumini anche oggi e per noi nella coscienza della crisi culturale e politica italiana al concludersi dell’età risorgimentale e si definisca nei limiti di una precisa poetica – quella poetica realistica, che dalle ultime pagine della Storia, anzi dal libro tutto, si dirama nelle tarde lezioni sulle scuole moderata e democratica e negli ultimi saggi sullo Zola e sul darwinismo in arte – vale soltanto ad attestare, per quanto riguarda più specialmente la cultura nostra, fino a che punto quella crisi perduri non risolta e quella poetica conservi il suo valore di stimolo e di insegnamento.
Il lievito polemico intrinseco, non pure alle forme più appariscenti, bensì alla sostanza stessa dell’opera del De Sanctis, spiega anche il singolare corso della sua fortuna fino ai giorni nostri: fortuna che si esplica in una serie di ricorsi determinati di volta in volta dalle esigenze di una cultura militante, in funzione tipicamente aggressiva. Tale carattere è manifesto, per esempio, nella citazione di talune formule desanctisiane e persino nella ripresa di certi atteggiamenti stilistici da parte dei veristi, e in particolare del Capuana, durante e contro la fase di incomprensione e di sprezzante oblio dell’età carducciana e positivistica. Esso è alle radici più tardi dell’amorosa e penetrante fatica di ricostruzione filologica del Croce, per cui la rivalutazione del metodo e dell’umanità del proclamato precursore veniva ad inquadrarsi, accanto a quella del Vico, in un proposito organico di riforma e di svecchiamento di una decaduta situazione culturale. Né si può dire che un atteggiamento di scoperta polemica esuli dal cosiddetto «ritorno» a De Sanctis, a cui oggi assistiamo, così strettamente legato agli intenti di una più matura critica storicistica contro i sempre rinascenti tentativi di evasione in senso formalistico o astrattamente psicologico. E la presente larghissima scelta, curata con amorosa intelligenza da Niccolò Gallo, offrendo al lettore, pur con le inevitabili lacune imposte da una rigorosa esigenza di spazio (particolarmente dolorosa quella dell’epistolario), il mezzo di rendersi conto delle ragioni e delle definizioni sommariamente indicate nel discorso introduttivo, avrà tra l’altro il merito di riproporre, al di là delle persistenti e confuse motivazioni polemiche, la necessità di una considerazione finalmente risolta in intelligenza storica, di un’opera cui troppo a lungo si è conteso il posto, che di diritto le appartiene, nel canone classico della nostra tradizione.