De Sanctis, Francesco
Nella critica desanctisiana D. ha un singolare, anzi unico rilievo, sia per le pagine a lui dedicate nei corsi della scuola napoletana, e poi soprattutto nelle lezioni torinesi (1854 e 1855), proseguite con quelle zurighesi (1856), che dovevano concludersi in un libro, e da cui il De S. ricavò allora per la stampa i saggi su Pier delle Vigne, sulla versione del Lamennais, sull'argomento della Commedia, sul carattere di D. e la sua utopia, e finalmente per i capitoli " La lirica di D. " e " La Commedia " della Storia della letteratura, intorno a cui si raccolgono pressoché contemporanei i saggi famosi su Francesca, Farinata, Ugolino, sia per i riferimenti danteschi sparsi in tante altre pagine della Storia e dei Saggi a proposito del Petrarca, del Boccaccio, dell'Ariosto, dell'Alfieri, del Leopardi, ecc.
Presupposto di questo lungo e approfondito travaglio critico intorno a D. è la concezione storiografica del Romanticismo, prima ancora europeo che italiano, per la quale D. fu assunto nel novero dei poeti massimi accanto a Omero, Shakespeare, Goethe, impersonando un momento della storia poetica dell'umanità in una sorta di fenomenologia o filosofia della storia e della poesia, e anche a un livello più basso di questa speculazione storico-critica divenne, come non era mai stato per l'innanzi, popolare almeno come nome, sicché il Lamartine poté affermare che " Dante è il poeta dei nostri tempi " - e con queste parole il De S. aveva iniziato la trattazione della Commedia dinanzi ai giovani della scuola napoletana. Ma con quella storia universale, filosofica e mitologica, va ricordata quella più peculiarmente italiana, a essa in certo qual modo congiunta, nella quale D. poeta eccelso si presentava pure come poeta esemplare per gl'Italiani (e sommo elogio fu già per i nostri primi romantici esser riconosciuto come " il più nazionale dei nostri poeti "), a cui la risorgente Italia doveva rifarsi non soltanto come a poeta ma come a cittadino, sino a esser sentito partecipe delle lotte attuali e trasfigurato in neoghibellino o neoguelfo o addirittura col Mazzini in profeta della nuova Italia. Né del tutto estraneo oltreché alla grande storiografia romantica, rimase lo stesso De S. a questo D. risorgimentale, benché il suo senso della misura e della concretezza critica gli facessero respingere le indebite intrusioni delle passioni presenti, così come le mitologizzazioni dei vari sistemi filosofici, idealistici o spiritualistici, sicché da quei presupposti teorici e pratici (che si confondevano in più d'uno di quei pensatori politici e critici, basti per tutti citare il Gioberti) egli prese l'avvio per il discorso suo proprio, ma insieme vi trovò più d'uno degli spunti della sua polemica, volta alla definizione del D. storico in contrasto con la troppa letteratura dantesca del primo Ottocento europeo e italiano, mentre non tralasciava di combattere tradizioni classicistiche tuttora perduranti di una lettura retorica e formalistica, di cui esempio ultimo erano state le Bellezze del padre Cesari.
Non per questo deve sfuggire la passione patria, etico-politica, che è al fondo della sua indagine pur rigorosamente critica, e nemmeno, anche se accennata con pudica discrezione, la stessa sua esperienza autobiografica che affiora qua e là nelle lezioni torinesi, e in particolare in una pagina del saggio sul carattere di D.: " È il tipo del proscritto continuatosi insino ai nostri giorni. Con tanto calore d'anima, con tanta forza di passione, la vita attiva gli venne meno quando doveva sentirne maggiore il bisogno. Eccolo sbandito. Il mondo cammina senza di lui e contro di lui. Dante non vi si rassegna... Resta fuori degli avvenimenti spettatore sdegnoso. La passione rimasta oziosa si concentra, e con tanta più violenza e amarezza scoppia nello scrivere. Ora egli prorompe rumorosamente come una tempesta lungo tempo trattenuta; ora si gitta nel fantasticare... Diviene taciturno, malinconico, irrequieto, impaziente. Lontano dall'azione il campo del possibile e del reale gli fugge innanzi, si fabbrica il mondo d'immaginazione, e vi dispone gli uomini e le cose secondo il desiderio. Sono i sogni dei proscritti, che i più si portano nella tomba. Il sogno di Dante è rimasto immortale ". Ma soprattutto il De S. uomo del Risorgimento, politico e maestro, ci sta dinanzi più ancora che in questi accenni marginali, nell'ispirazione prima della sua interpretazione dantesca, tanto più efficace in quanto il critico ha respinto la interferenza troppo immediata con la realtà presente, sprofondandosi o, per usare le sue parole, calandosi nell'animo di D., nelle sue passioni, nella sua poesia, con un senso dell'attualità, che pur sapeva sceverarsi dalle contingenze storiche, la Firenze del Trecento e l'Italia del suo tempo.
Ma vi era, oltre la consonanza del sentire e del gusto suo e dell'età romantica, un motivo che aveva fatto sin dagl'inizi della sua speculazione D. soggetto precipuo della sua critica: il caratteristico incontro nella Commedia di un mondo intellettuale così chiaramente e consapevolmente delineato e una multiforme realtà storica folta di personaggi, densa di passionalità, vigorosamente rappresentata dal poeta, personaggio egli stesso, e quale personaggio!, dei suoi regni oltramondani. Era, come forse nel caso di nessun'altra opera poetica, posto qui il problema del rapporto di pensiero e poesia, di concetto e di immagine, tanto più urgente in quanto messo in evidenza dallo stesso autore con la sua concezione dell'allegoria, che sembrava invitare ad andare al di là delle belle forme per cogliere il concetto sostanziale del poema, dei suoi diversi momenti, dei suoi personaggi. Capolavoro senza dubbio complesso quale nessun altro nella storia poetica dell'umanità: ma dove era da riconoscere il suo reale valore, nella costruzione intellettuale o nella palpitante realtà storica? La critica del Romanticismo tendeva all'una e all'altra di quelle soluzioni: poema teologico o poema storico - e l'una e l'altra definizione dal De S. discusse, finiva per limitarlo e depauperarlo di alcunché di essenziale. Ma più importante era la questione preliminare, la possibilità della conciliazione di una concezione fondamentalmente intellettualistica, come quella del poema teologico-allegorico, con la corpulenza e passionalità dell'immagine fantastica. Il problema diventava una cosa sola col problema fondamentale del pensiero desanctisiano, né a caso a risolverlo il De S. sentì nel corso di queste lezioni il bisogno di una digressione sul principio dell'estetica hegeliana, uno dei pochi excursus teorici che egli si sia concesso, portato com'era, a suo dire, al concreto. Lo stesso Hegel, che si era spinto così innanzi riconoscendo " l'eccellenza dell'arte nell'unità personale in cui l'idea stava involuta e come smemorata ", era venuto poi, dopo aver tanto parlato di " individui " e di " incarnazioni ", a fare del suo individuo poetico un " individuo-manifestazione ", un velo trasparente dell'idea con la tendenza di spiccar sempre dalla forma l'idea e quindi a ricercare l'idea al di sotto delle forme. Ma per il De S. " la forma non è un'idea ma una cosa, e perciò il poeta ha innanzi delle cose e non delle idee ". E " cose ", vale a dire personaggi, passioni, paesaggi sono la sostanza poetica della Commedia anche se gli interpreti da D. stesso sino ai romantici han ricercato al di là di quelle " cose " l'idea perseverando sia pure con correzioni, temperamenti, approfondimenti nell'intellettualismo dell'interpretazione allegorica.
Il De S. si vede perciò costretto a postulare al fondo della Commedia una frattura tra la poetica di D. e la sua poesia, fra quel che ha voluto fare e quel che ha fatto, tra mondo intenzionale e mondo reale, fra una teoria dell'arte conforme a una concezione trascendente della realtà e l'arte effettuale della Commedia, che supera sempre o quasi sempre quelle premesse, in cui era implicita la negazione stessa dell'arte. Di qui affermazioni come queste: " Dante è stato illogico ", o la definizione della Commedia: " È il Medioevo realizzato come arte, malgrado l'autore, e malgrado i contemporanei " - e le sue parole riecheggiano inconsapevolmente altre consimili del Bettinelli, anche se nel Bettitinelli, s'intende, non avevano un tal peso speculativo, e se non implicavano come nel De S. di fatto oltreché una negazione dell'estetica medievale, della stessa poeticità di una concezione trascendente, inconciliabile con la poetica realtà terrena.
Ne veniva un'analisi in cui di continuo era richiamata di fronte all'astrazione della concezione iniziale la realtà dei caratteri dei personaggi, di fronte alla Beatrice allegorica la Beatrice donna, di fronte all'allegoria di Virgilio il Virgilio personaggio, e sopra tutto di fronte al D. allegoria dell'umanità il D. reale e vivo con tutta la gamma delle sue passioni, che è il vero centro poetico della Commedia, colui la cui presenza ravviva l'immobile mondo dell'oltretomba richiamandone le anime all'antica e nuova vita. Era così messo in energico rilievo quel che nella Commedia era per il De S. di più veracemente poetico: eppure con la frattura iniziale da lui stabilita permaneva un iato incolmabile, un contrasto che il critico ha piuttosto romanticamente esasperato che tentato di risolvere. La sua concezione per un doppio verso romantica tendeva a svalutare con gli antecedenti del poema tanta parte della cultura del poeta, e a un tempo additava la grandezza di lui in una genialità difficilmente spiegabile, data l'assoluta antipoeticità delle sue premesse. Si è anche osservato che una medesima frattura s'inseriva così nella critica stessa, la quale poteva essere autorizzata a metter da parte quelle premesse culturali, teologiche, retoriche, per volgersi a ricreare genialmente quella creazione geniale.
Ma se questo è il pericolo latente della costruzione desanctisiana (non arbitraria peraltro e isolata nell'età sua, se il Fauriel fra gli altri aveva potuto additare il carattere che distingue D. da tutti i grandi poeti, " cette espèce de lutte entre les facultés diverses de son génie "), è pur da osservare che quel contrasto, da cui la Commedia avrebbe origine, perennemente rinnovantesi e in cui quasi sempre il poeta riesce vittorioso, risponde oltreché ai principi dell'estetica desanctisiana a una tendenza caratteristica della critica sua, al gusto drammatico per il quale il critico tende a presentarci l'opera di poesia nel suo farsi, nel rivivere di volta in volta il dramma per cui il poeta è passato, per giungere alla propria creazione. Quali che possano essere le nostre riserve su certe manchevolezze della teoria, non possiamo non essere presi da questo ritratto in fieri di D. poeta, dalla situazione che viene via via sviluppandosi dall'incontro dell'oltremondo con la vita terrena che così variamente palpita nell'animo del protagonista e dei suoi interlocutori. Anche uno dei concetti più discussi, quello di una materia che il poeta si troverebbe di fronte e non sarebbe, ci dice il De S., tabula rasa avendo in sé stessa una maggiore o minore o addirittura minima potenzialità poetica, si fa nella sua esposizione strumento della rievocazione critica, elemento necessario dell'impostazione drammatica del suo discorso.
Si potrà discutere a questo proposito della legittimità di una concezione come quella che esaltando i grandi personaggi dei primi cerchi infernali vede il progressivo affievolirsi fino al venir meno della poesia (tranne la grande eccezione di Ugolino, non il traditore ma il tradito) man mano che si scende nel regno del peccato; o dell'attenuazione dei caratteri individuali nel Purgatorio, tendendo le anime a presentarsi piuttosto come gruppi che come singoli, e gli angeli a ridursi a pure apparizioni " molto per la pittura, poco per la poesia ", e infine della refrattarietà intrinseca della materia del Paradiso: e muovere obiezioni, alla conseguente valutazione delle tre cantiche e alla preferenza accordata a personaggi che fanno maggior spicco per la propria individualità e le proprie passioni. Ma è pur da aggiungere che nel delineare il carattere di quella materia, che sarebbe anteriore alla poesia, il critico anticipa già l'atmosfera della poesia stessa di un particolare ambiente e di una particolare tonalità: così mentre sembra limitare la poesia del Purgatorio finisce per delineare con un'evocazione indubbiamente romantica ma ancor oggi suggestiva quell'ambiente e quelle anime. " In questo mondo di pitture e sculture Dante si è coronato di artisti. È un lato della vita nuova, pur così vero in tempi che la vita intima della famiglia, dell'arte, dell'amicizia era un rifugio e quasi un asilo fra le tempeste della vita pubblica... Questa intimità, questo tenere nel cuore un cantuccio chiuso al mondo, riservato alla famiglia, agli amici, all'arte, alla natura, quasi tempio domestico impenetrabile a profani, è il mondo rappresentato nel Purgatorio... Il Purgatorio è il dolce rifugio della vecchiezza quando la vita si disabbella ai nostri sguardi, quando le volgiamo le spalle e ci chiudiamo nella santità degil affetti domestici tra la famiglia e gli amici, nelle opere dell'arte e del pensiero, il Purgatorio ci s'illumina di viva luce e diviene il nostro libro, e ci scopriamo molte delicate bellezze, una gran parte di noi ". E la stessa negazione preliminare della poeticità del Paradiso si risolve poi nelle pagine della Storia, in gran parte nuove queste rispetto alle precedenti delle lezioni, in una serie di eccezioni o ammissioni, che vengono a riscattare poeticamente se non la concezione del Paradiso in sé stesso, tanti accenti e momenti della poesia dantesca, a cui il De S. sarebbe sembrato più refrattario. Contradizioni di D. o contradizioni del De Sanctis? O apertura sua alla poesia dovunque si manifestasse? " Così rientra la terra in Paradiso, non come sostanziale ma come immagine, parvenza delle parvenze celesti. È la terra che rende amabile questo Paradiso di Dante; è il sentimento della natura che diffonde la vita tra queste combinazioni ingegnose e simboliche... Trovi qui tutto quello che in terra è di più etereo, di più sfumato, di più soave ". La poesia nasce pure dalla stessa confessata " impotenza " della forma, da quel " sublime negativo che Dante esprime con energia intellettuale di cui ha vivo il sentimento dell'infinito ". E sarebbe pure nella coralità, in cui si esprime l'unanime sentire dei beati (e il De S. lo rileva con citazioni singolarmente appropriate); senonché ancora una volta affiora in lui la coscienza di una manchevolezza per una presunta mancata lirica del Paradiso che D. non avrebbe avuta " libertà e attività di spirito da creare ", perché " quella comunanza di vita, fondo lirico della cantica, finisce per esserne la parte fiacca, limitandosi Dante qui, come tante volte nel Purgatorio, a citare le parole di canti ecclesiastici ". Eppure quel che avrebbe potuto fare ci è attestato, sono sempre parole del De S., " oltreché dall'Inno alla Vergine, dall'Inno a S. Francesco d'Assisi e dall'Inno a S. Domenico, nella loro semplicità anche un po' rozza tutto cose e più schietti che i magniloquenti inni moderni ". Vero è che le semplici citazioni scritturali del Purgatorio e più d'una del Paradiso valgono di per sé a creare un'aura poetica così come le appena delineate creature angeliche, mentre proprio i cosidetti Inni celebrati dal De S., ben lungi dall'essere semplici e ancor rozzi, sono un capolavoro della più alta retorica medievale, disconosciuta o trasfigurata dal gusto romantico del critico, portato anche qui a cercare e a scoprire la semplicità sia pur rozza. Ma poesia nasce pure per il critico dal Paradiso per il contrapposto fra cielo e terra, che riporta nella poesia inno, satira, elegia, tragedia e nasce pure, e qui il De S. sembra andare al di là delle sue premesse, dalla materia teologica stessa, dalla " scienza della creazione in cui il pensiero è talmente concreato e incorporato che il poeta può contemplarlo come cosa vivente, come natura ". " Spirito dommatico, credente, poetico, predica dal Paradiso la verità assoluta e non la pensa, la scolpisce. Diresti che pensi con l'immaginazione ", sì che, per citare il commento di uno di quei passi, " tu hai una storia animata con una chiarezza e vigore di rappresentazione che fa di Dio e della natura vere persone poetiche: ‛ Ciò che non nasce e ciò che può morire... ' ". Fin qui giunge il De S., fin qui giunge D., che nonostante quelle magnifiche accensioni non può aver del tutto ragione del fondo necessariamente monotono e opaco del regno celeste. Ma il limite era intrinseco nella materia stessa, e la grandezza del poeta sta nell'averla affrontata sino al fondo, sino all'assoluto ineffabile, dalla selva iniziale sino alla visione del tutto teologica della divinità. L'ammirazione per la poesia diventa per il De S. una cosa sola con l'ammirazione per chi ha costruito così vasta mole, " con la serietà dell'artista, del poeta, del filosofo e del cristiano ". La celebrazione della Commedia e di quel mondo diventa la celebrazione di D. poeta uomo: " ci è là dentro nella sua sincerità tutto l'uomo ".
E tutto l'uomo De S. è in questa ricreazione del mondo dantesco, nella serietà, diremo con lui, con cui ha tentato di ripercorrere quel drammatico cammino del suo eroe alle prese con una materia non soltanto d'indefinita vastità ma così intrinsecamente difficile a essere vinta e domata. Con legittimo orgoglio fin dalle lezioni torinesi il De S. aveva potuto annunciare l'avvento di una critica nuova con la domanda: " Dante ha avuto i suoi mille antiquari e filologi: non è egli tempo che nella grande poesia si cerchi la poesia, cioè quello per cui Dante è immortale? ". A questo compito si sentiva chiamato e di fatto nelle lezioni dantesche e poi nella Storia egli ha segnato il più alto punto a cui la critica dantesca del Romanticismo sia pervenuta, e nello stesso tempo nel suo appassionato e complesso discorso offerto come egli dice della Commedia, temi, problemi alla critica dantesca avvenire, che a lui non ha potuto non rifarsi.
Né il lettore si deve adombrare se gli è dato incontrarsi in affermazioni contrastanti, e prima di tutto l'esaltazione, che è parsa tipica della sua critica, dei grandi caratteri dell'Inferno e il successivo riconoscimento di tanti altri aspetti poetici dell'Inferno stesso e delle cantiche successive. Il De S. non è soltanto il grande critico di Francesca, Farinata, Ugolino, ma anche del Purgatorio e di non poche pagine del Paradiso: né le sue affermazioni vanno isolate come verità assolute e definite, bensì fan parte di un discorso continuato e nonostante la lunga meditazione vorremmo dire improvvisato, ché l'opposizione di un'affermazione all'altra non rende giustizia a quel processo di pensiero che si svolge attraverso la sua critica dantesca.
La quale, e questo è il suo vero limite o per meglio dire la sua situazione storica, rientra essa pure nelle grandi costruzioni storiografiche del Romanticismo, per cui la Commedia dantesca non è soltanto una fra le grandi creazioni poetiche dell'umanità ma un momento tipico della mitologia storica romantica, e in particolare della mitologia storica della poesia italiana. La Commedia perciò non è soltanto quel che è per sé stessa ma per quel che rappresenta rispetto al passato e rispetto all'avvenire. In essa, come nelle grandi opere primitive, son presenti non ancora del tutto distinti tutti i generi (dalla vecchia questione del genere a cui appartiene la Commedia, rinnovata e complicata dai romantici sino allo Schelling, prende le mosse il De S. nelle lezioni torinesi riassumendo le sue conclusioni nella Storia), e proprio per quella presenza di tutti i generi non ancora ben distinti può scorgere nella Commedia come involuta la letteratura del futuro. Di qui pure il confronto della poesia dantesca, degli stessi personaggi più ammirati con opere di altre età rispetto alle quali le figure più grandi e possenti, un Farinata a esempio, appare manchevole di fronte a personaggi dello Shakespeare, nei quali è pienamente attuato quello che per il De S. era l'ideale supremo della poesia, il dramma concreto e compiuto. " C'è lì dentro la stoffa ancora epica dell'uomo, non ancora drammatica. Manca l'eloquenza, manca la vita interna dell'anima... È l'uomo ancora primitivo e spontaneo nella sua semplicità, che vive tutto di fuori e non si raccoglie e non si esamina, di una vita interiore sintetica che attende l'impressione per raggiare. Perciò l'espressione è spesso tutta intera in un tratto solo, e quando vai appresso, già non è lo stesso sentimento graduato e riprodotto che ti è innanzi, ma una nuova impressione e un nuovo sentimento. Ciò è proprio della maniera di concepire e di esprimere del nostro poeta, i cui tratti sono schizzi, anziché compiute e ricche rappresentazioni ". Eppure dal De S. appunto abbiamo imparato a riconoscere l'individualità peculiare di un poeta sino alle sue espressioni più caratteristiche, sino alla finezza dell'analisi stilistica. Invece troveremo nella Storia accostato per questa rigidità, immobilità di statua primitiva un personaggio così ricco di umanità come Farinata all'Ezzelino del Mussato, eroe di stampo senechiano, chiuso nella sua astratta umanità. Di più, lo stesso appuntarsi sul " personaggio ", come culmine e ragione della poesia, al personaggio che ci si fa palese anche in alcuni suoi saggi famosi, può avere per effetto di mettere in ombra la ricerca tonale della poesia, d'isolare realisticamente una singola figura e nello stesso tempo condurre il critico a quei raffronti con personaggi diversamente trattati e sviluppati, di cui sopra si è detto.
Ci riporta allo stesso limite, o meglio al carattere storico della critica desanctisiana, la famosa opposizione di poeta e di artista, col D. che sarebbe per l'intensità del suo sentire, per la passione morale, civica e religiosa, riflessa nella sua espressione potente e tutta cose, piuttosto poeta che artista, contrapposto a un Petrarca e a un Ariosto per la cura squisita della forma, che fu loro propria, per l'ideale dell'arte a cui si consacrarono venuta meno la coscienza di tutti gli altri valori, piuttosto artisti che poeti. Senonché l'affermazione che suonava come il più alto elogio per l'autore della Commedia, ideale di poeta che si levava solitario nella storia italiana, prima del risorgimento dell' " uomo " nello scorcio del Settecento e nel primo Ottocento, ricompare per così dire con opposto segno nel capitolo sul Furioso, sottolineando invece un'inferiorità di D. rispetto all'idoleggiato Ariosto, in cui pure s'incarnava uno degli ideali artistici del nostro critico e la cui opera gli era parsa talora identificarsi con la poesia stessa in assoluto. " Ludovico e Dante furono i due vessilliferi di opposte civiltà... Ritratto tutti e due della loro età, Dante fu più poeta che artista; all'artista nocquero la scolastica, l'allegoria, l'ascetismo, e la stessa grandezza ed energia dell'uomo. Ci era nella sua coscienza un mondo reale troppo vivo e appassionato e resistente, perché l'arte potesse dissolverlo e trasformarlo. E quel mondo reale era involuto in forme così dense e fisse, che il suo sguardo profondo non poté sempre penetrarvi e attingerlo nel suo immediato ". Un capovolgimento dunque nel giudizio sulla Commedia, per cui " la stessa grandezza ed energia dell'uomo " sembrano essere state un ostacolo alla perfezione artistica? Anche qui sarà da avvertire che non si debbono chiedere al De S. definizioni perentorie e inequivocabili isolando dal contesto della Storia tutta singole affermazioni e negazioni. Ma è da aggiungere che la discussa dualità di poeta e di artista, che pure ha una parte essenziale nella costruzione della Storia, appartiene oltre che al De S. alla critica romantica in genere ed è uno dei concetti insieme ai giudizi che ne conseguono, propri della critica classicistica, accolti dai romantici spesso inconsapevolmente.
Qui e altrove quando il De S. nota un difetto d'arte nella Commedia, o in questa o quella figurazione dantesca, che fa se non identificare l' " arte " con l'arte canonizzata nel Rinascimento, quell'arte di cui i classicisti avevan lamentato il difetto in poeti così diversi da quelli da loro ammirati, Virgilio e Petrarca? A parte la validità di quei concetti, che serbano tuttora una loro giustificazione, ma troppo incerti e imprecisi rimanevano ancora nel De S., doveva a lui del tutto sfuggire a cagione del suo gusto e della sua educazione l'altissima consapevolezza artistica di D.: quella formazione retorica che presupponeva un interesse per la " letteratura " al De S. ignoto, e in particolare per la letteratura e per l'arte poetica medievale, di cui certo troppo scarse conoscenze aveva. Troppo facile per noi è oggi opporgli che se la poesia di D. splende in una parte più e meno altrove, non vien meno mai dall'inizio alla fine in ogni particolare l'arte, e se mai, paradosso per paradosso, D. è certo poeta grande ma è pure sempre e forse più ancora grandissimo artista.
Ma anche l'inatteso giudizio del citato passo nel capitolo sul Furioso ci riporta alla costruzione della Storia, alla parte che in essa D. assume: un D. entro cui si annuncia non ancor del tutto chiarita quella poesia moderna che è come un termine a cui il nostro critico tien sempre fisso lo sguardo nella riflessione che vien compiendo sulla storia passata. Perciò così si conclude il capitolo sulla Commedia: " Per dirla con Dante, il suo mondo è un volume non squadernato. È un mondo pensoso, ritirato in sé, poco comunicativo come fronte annuvolata da pensiero in travaglio. In quelle profondità scavano i secoli, e vi trovano sempre nuove ispirazioni e nuovi pensieri. Là vive involto ancora e nodoso e pregno di misteri quel mondo; che sottoposto all'analisi umanizzato e realizzato, si chiama oggi letteratura moderna ".
Né è questa conclusione obbligata e tanto meno retorica e casuale bensì si ricollega alla concezione stessa della Storia da una parte, la mitica storia della poesia di cui si è detto, di un progresso ad finitum piuttosto che di un'indefinita illimitata creatività, e dall'altra parte alla vocazione desanctisiana di critico militante, che nel passato non può puramente obliarsi senza tener sempre più o meno chiare dinanzi a sé le esigenze del presente, le esigenze dell'avvenire. Né critico militante egli ci appare meno nelle pagine sulla Commedia che nei saggi sullo Zola e il realismo.
Significativo del resto che a parte altri accenni al mito per lui quasi ossessivo della " modernità ", sparsi nella Storia, quel concetto-mito si riaffermi con insistenza proprio nei tre saggi che ricavandoli dalle lezioni di un tempo egli elaborò più attentamente mentre attendeva alla Storia, e che son rimasti i più famosi non solo perché accessibili ai più ma proprio perché a essi egli sembra aver attribuito un particolare valore, quasi compendio ed esempio della sua critica dantesca, di quelli che a un certo momento gli apparvero i " personaggi " danteschi per eccellenza: Francesca, Farinata, Ugolino. È nel primo l'opposizione fra il concetto o tipo o personificazione e la vera e propria persona, fra Beatrice, il puro femminile, il genere o il tipo e non l'individuo e Francesca, la donna che D. cerca nel Paradiso e invece ha trovato nell'Inferno: " Francesca non è il divino ma l'umano e il terrestre, essere fragile, appassionato... Francesca è rimasta il tipo onde sono uscite le più care creature della fantasia moderna... esseri delicati in cui niente è che resista e reagisca, fragili fiori a cui ogni lieve soffio è mortale, che si rassomigliano tutti per una comune natura ". E la pagina prosegue sino all'affermazione notissima: " La poesia della donna è l'esser vinta ", una delle pagine in cui il De S. più cede a quel che di femmineo era anche nel suo romanticismo e spinge forse più oltre la definizione aprioristica della poeticità o non poeticità di un personaggio o di una situazione. Ma anche qui dopo quell'accenno alle " più care creature della fantasia moderna ", il motivo è ripreso nella pagina di chiusa, in cui si riafferma che in questa " produzione geniale vivono i germi delle più gentili creazioni della poesia moderna " e si lamenta che così scarsa eco una tale figura abbia avuto nella poesia italiana, " che è stata poco felice nella rappresentazione della donna e in cui Francesca rimane unica e sola ". E qui con evidenti forzature il critico militante ha un deciso sopravvento, col rimpianto per quel che la letteratura italiana non ha e avrebbe potuto avere: " Se alcuna cosa trovar vogliamo comparabile a Francesca, dobbiamo cercarla in Shakespeare, in Byron, in Goethe, nelle letterature straniere, primo e immortale tipo Francesca ".
Più complesso, più vigoroso il saggio su Farinata, che per l'esaltazione del volere, della coerenza di un carattere, per l'ideale etico che vi è esaltato, si ricongiunge strettamente alla scoperta fondamentale del Machiavelli; e tanto più aderente riesce al testo che non l'elegia critica del saggio precedente. Ma anche qui è la parola chiave o il mito dominante del De S. di questi anni (o di sempre). " In Farinata l'uomo comparisce per la prima volta sul moderno orizzonte poetico ". Eppure sappiamo il difetto, se di difetto si può parlare, secondo il De S. di questa figura: " Certo, il tipo di Farinata è ancora troppo semplice per l'uomo moderno. C'è lì dentro la stoffa ancora epica dell'uomo non ancora drammatica ".
Come il saggio su Francesca anche questo su Farinata si chiude con un accento di rimpianto per quello che non è stato, per quello che gl'Italiani non hanno saputo imparare da D., dal suo forse più grande personaggio: " L'uomo di Dante, il tipo del Farinata, la stoffa da cui sono usciti tanti personaggi di Shakespeare, è rimasto solo e unico esempio nella nostra poesia ". Non solo, ma per un momento il De S. concede al mito di un D. non italiano, che piacque talora ad altri popoli e che non era in lui se non l'espressione del suo appassionato vigoroso sentire, idoleggiato nella figura di Dante. " Dante stesso nei sùoi tratti essenziali sembra un poeta estraneo all'arte italiana! ".
Ma già nel saggio su Farinata vi è un accenno a un altro personaggio meno rigido, più sfumato e per questo più vicino all'ideale d'arte che il De S. persegue. " Quello che è più sviluppato e graduato in una rappresentazione unica, è l'Ugolino, poesia perciò più moderna e più popolare ". E questo concetto è ripreso alla fine dell'altro saggio, famoso fra tutti, e con quel concetto il medesimo rimpianto che si fa sentire alla fine degli altri due saggi. " Ma come Francesca è rimasta unica nella poesia italiana, così quel sentimento a cui qui D. attinge tanti effetti drammatici si può dir quasi straniero alla nostra musa. Non ci è dato più di ritrovare quel padre e quei figli, il sentimento di famiglia è una pianta quasi esotica nel nostro suolo e né in prosa né in verso ci è dato sentire cosa è una sorella, o una moglie, o una madre, o un padre, o un figlio... L'amicizia, la famiglia, il culto della natura, una vita semplice e modesta, confortata dagli affetti domestici, sono materie inadeguate alla nostra immaginazione mobile ".
Siamo, è evidente, al di fuori della critica storica, dinanzi a un idoleggiamento che è estetico e morale insieme. Ma è possibile separare questo De S. critico militante, dal De S. critico tout-court, queste stesse frange sentimentali, se così vogliamo chiamarle, dalla sua lettura critica della Commedia? Di fatto chiudendo questa pagina ci sentiamo di passare dal lettore della Commedia al lettore dei Promessi Sposi.
Bibl. - Per le lezioni giovanili: F. De S., Teoria e storia della letteratura, a c. di B. Croce, Bari 1926, I 133-136, 214-221 e passim. Per le altre opere rinvio alle due edizioni pubblicate dagli editori Laterza ed Einaudi e alle prefazioni e ai commenti di cui sono corredate (nell'ordinamento degli scritti desanctisiani i curatori han seguito criteri diversi); presso il Laterza: Saggi critici, voll. 3, a c. di L. Russo; Lezioni sulla D. C., a c. di M. Manfredi; Storia della letteratura italiana, a c. di B. Croce; presso Einaudi: Lezioni e saggi su D., a c. di S. Romagnoli (con ampia introduzione e minuti indici analitici secondo i criteri dell'edizione); Storia della letteratura italiana, a c. di N. Gallo, con introduzione di N. Sapegno; La giovinezza, a c. di G. Savarese (da tener presente per quel che si dice dei corsi danteschi napoletani). Si veda inoltre: B. Croce, La poesia di D., Bari 1921, 190-195, e i vari studi e saggi sul De S.; per il De S. nella storia della critica si rinvia agli studi di F. Maggini, La critica dantesca dal Trecento ai giorni nostri, in Questioni e correnti di storia lettararia, Milano 1949; D. Mattalia, D.A., in I classici italiani nella storia della critica, I, firenze 1956; A. Vallone, La critica dantesca nell'Ottocento, ibid. 1958; L. Martinelli, Dante, Palermo 1966. Per le lezioni torinesi: A. Momigliano, Le lezioni torinesi del De S. sulla D. C., in Elzeviri, Firenze 1945, 1-7; W. Vetterli, Die ästhetische Deutung und das Problem der Einheit der Gottlichen Komödie in der neueren Literaturgeschichte, Strasburgo 1935; G. Contini, introduzione a F. De S., Opere scelte, I, Torino s. a. (importante per la concezione che vi s'illustra della storia letteraria desanctisiana e quindi anche della parte che vi ha D.); N. Sapegno, Gli studi danteschi di D. De S., in D. nel secolo dell'unità d'Italia, Firenze 1962; M. Sansone, D. nell'età romantica, in " Terzo programma " IV (1965) 183-192; C. Grabher, Tre grandi tappe della critica sulla ‛ D.C. ': Borghini, Vico, De S., in " Cultura e Scuola " 13-14 (1965) 318-331.