De Sanctis, Francesco
Storico e critico della letteratura, nato a Morra Irpina nel 1817 e morto a Napoli nel 1883. Quando, fra il maggio e il giugno del 1869, in una sala dell’ex convento di S. Domenico Maggiore a Napoli, D. S. tenne una serie di cinque conferenze su M., errerebbe chi pensasse che, per l’occasione, egli non avesse provveduto che a mettere in ordine i concetti che su quell’argomento gli era occorso di pensare e di esporre nelle lezioni da lui tenute nelle sue «scuole», di Napoli, di Zurigo, di Torino, e che niente di essenziale vi avesse aggiunto. In realtà, non è affatto così. In quelle conferenze che, dopo essere state sintetizzate e, in alcuni passaggi, chiarite, furono, com’è noto, trasferite e sistemate nel capitolo dedicato a M. nella Storia della letteratura italiana (1870-1871), D. S. fece qualcosa di assai più radicale. Non ripensò quel che aveva pensato se non nel senso che lo trasformò dalle fondamenta, mettendosi finalmente di fronte alle idee del gran Segretario con la stessa sincerità e drasticità con la quale, nei momenti migliori dell’esistenza, ci si mette di fronte a sé stessi; e si vedrà che, nel dir così, non si esagera. Leggendone, o rileggendone, gli scritti senza ricorrere a deformanti apparati difensivi, velocemente passò in rassegna giudizi suoi e di altri, che, a misura che li ripercorreva, gli si rivelavano come niente più che pregiudizi. Avviando la critica di M., avviò, nello stesso tempo, la critica di sé stesso, del suo precedente sé stesso, in quel che aveva avuto in comune con ciò che altri avevano detto e scritto. Quando, alla metà circa della prima conferenza, osservò che «la critica fatta su Machiavelli fu una questione mal fondata» (L’arte, la scienza, la vita. Nuovi saggi critici, conferenze e scritti vari, a cura di M.T. Lanza, 1972, p. 42) e che i libri che si scrissero sul suo pensiero non fecero che ripeterla senza nemmeno accennare al suo superamento, non è escluso che egli pensasse anche a cose sue dette in precedenza. Per questo, fece consistere il suo maggiore impegno nel superamento di quel che giudicava come la sua parte esteriore in modo che, caduta quella, a rivelarsi fossero i «misteri dell’ingegno e della sua produzione», il luogo in cui quello «spontanamente produce una nuova creatura». Non erano parole del tutto chiare; e tali che le si assegnerebbe alla difficoltà che le sue conferenze incontrarono a essere trascritte in modo adeguato da chi si assunse questo compito (da una parte i redattori del giornale «Roma», da un’altra Francesco Torraca che, sedicenne, si cimentò anche lui nell’impresa diretta a sottrarle all’oblio in cui sarebbero altrimenti cadute, e quindi Benedetto Croce, che lavorò su entrambi i testi e intervenne sull’uno e sull’altro con l’intento di renderli più rifiniti e leggibili), se non convenisse osservare che l’oscurità che le avvolge fu anche la conseguenza di un pensiero che incontrava difficoltà a esprimere con la necessaria chiarezza il compito che si proponeva.
Si trattava, in effetti, di contrapporre a un’intera tradizione critica, acutamente avvertita nella sua inadeguatezza, un’interpretazione che, a quello della leggenda, sostituisse il vero M., a un pensiero reso volgare dalle semplificazioni polemiche a cui era stato assoggettato contrapponesse il suo pensiero autentico. Si trattava anche, come si è detto, di rettificare o, più decisamene, di superare quel che in passato anche a lui, D. S., era accaduto di dire e di scrivere in un periodo in cui, in tempi non remoti, a M. aveva guardato ora con simpatia e interesse, ora con diffidenza, quasi che il primo atteggiamento non riuscisse fino in fondo ad aver ragione dell’altro, che gli era forse suggerito, o piuttosto imposto, dalla sovrapposizione del volgare machiavellismo, che detestava, al genuino pensiero dell’autore del Principe e dei Discorsi, che non si decideva ad amare senza riserve. Quando, nei primi anni Quaranta, nella sua scuola di Napoli, prese a trattare della lirica moderna europea, su M., messo insieme qui a Francesco Guicciardini, D. S. formulò un singolare giudizio. Premesso che nella «poesia antica ci era spontaneità senza riflessione», mentre nella moderna la riflessione «primeggiava», individuò in quest’ultima tre caratteri, costitutivi di tre «scuole», la prima scettica, la seconda religiosa, la terza «media tra le due»; e, dopo aver assegnata alla prima, attraverso scrittori come Johann Wolfgang Goethe e George Gordon Byron, la tendenza alla delineazione delle «situazioni più violente, inattese, misteriose», nelle quali l’anima umana era posta alle prove più dure, vi ravvisò anche una sorta di impossibilità a conseguire una qualsiasi «armonia con la morale», anzi a distruggerla, gettando «il dubbio sulle cose più sacre» (Teoria e storia della letteratura. Lezioni tenute in Napoli dal 1839 al 1848, ricostruite sui quaderni della scuola da B. Croce, 1926, 1° vol., p. 167). Il che gli dava il modo di trovare, fra questa scuola e gli scritti di M. e di Guicciardini, un nesso singolare, storicamente inattendibile, ma rivelativo di quel che a proposito, soprattutto, del primo dei due, D. S. teneva chiuso in sé. Quegli scrittori e poeti avevano infatti ripreso i criteri della «scuola politica positiva fiorentina, confondendo la virtù e il vizio ed avendo come ideale la violenza in ogni situazione». Si erano perciò messi a una scuola che, nel nome della realtà, non ammetteva distinzione fra virtù e vizio, unica regola essendo la corrispondenza del mezzo al fine. A una scuola, si potrebbe dire estendendo il giudizio in modo che non potrebbe esser detto illegittimo, nella quale il machiavellismo era la diretta espressione del pensiero che quei due scrittori fiorentini avevano, ai loro tempi, rigorosamente pensato. Che qui vi fosse, da parte di D. S., un principo di apprezzamento non si potrebbe dire. C’era invece, persistente e tenace, anche se forse appena formato, il dubbio relativo al modo in cui il nodo doveva essere sciolto, e M. richiedeva di essere interpretato. Tanto più, si direbbe, in quanto egli era ben lungi dal disconoscere il valore di quel pensiero. Quando, nelle lezioni tenute in quella medesima scuola, venne a parlare degli storici, e l’argomento lo ricondusse a Guicciardini, innanzi tutto, e poi alle Istorie fiorentine di M., su queste ultime dette un giudizio che avrebbe meritato di essere tenuto presente da tutti coloro che, ancora ai nostri tempi, non sapendo leggervi altro che alterazioni della realtà alla luce di pregiudizi teorici e scarsa esattezza nell’attribuire ad alcuni eventi la giusta data, rimasero ben distanti da lui che definiva un «capolavoro» il loro primo libro e un grande storico il loro autore.
Machiavelli è il fondatore del vero stile storico, senza ombra d’imitazione; egli è stato chiamato il Tacito italiano; ma lo stile di Tacito è lo stile dell’affetto, quello di Machiavelli, della ragione. Inoltre nei suoi Discorsi su Livio egli fonda quella che si chiama la scienza della storia (Teoria e storia della letteratura, cit., 2° vol., p. 8).
Il giudizio, che tornerà negli scritti della maturità, è notevole, perché rivelava che nel fondo dell’animo di D. S. si nascondeva, nei riguardi di M., qualcosa di perplesso e di inconciliato. La questione che lo teneva inquieto era infatti quella della moralità, o, se si preferisce, dell’immoralità, meglio ancora dell’indifferenza alla distinzione dell’una dall’altra. Non era quindi una questione da poco. Era, per certi riguardi, la questione delle questioni. E che egli la ritrovasse viva e irrisolta nel Principe spiega perché con questa egli non riuscisse mai a trovare il pieno accodo critico, nemmeno quando il suo giudizio prese la sua forma definitiva ed egli provò a superare il lungo travaglio che la sua lettura gli aveva procurato.
L’indifferenza alla distinzione della morale e della politica che egli ritrovava nel Principe era la stessa che, sia pure in altra forma, vedeva riflessa nella Mandragola, una commedia la quale, malgrado il grande sforzo compiuto per entrarvi dentro, nemmeno nella Storia della letteratura italiana gli riuscì di capire per quel che effettivamente è. «Nella Mandragola del Machiavelli», aveva scritto nelle lezioni tenute nella sua scuola napoletana sul teatro del Cinquecento, «il fondo è costituito dallo stato della famiglia, dalla corrutela dei costumi, dalla irreligione; e fra Timoteo è carattere nuovo e originale; senonché, invece di riuscire giocondo, è disgustevole e fa schifo» (p. 166). Così nelle lezioni della scuola. E, nella Storia, l’apprezzamento che sentiva di doverne fare non lo distoglieva dall’idea che quella commedia fosse riuscita «troppo incorporata» nella società che vi era rappresentata, in ciò che quella aveva «di più reale e particolare» (Storia della letteratura italiana, a cura di N. Gallo, 1958, p. 603). Era vero bensì, per D. S., che mentre in Italia «tutti ridevano» delle importanti cose che in Germania stavano provocando Lutero e la Riforma, «nel riso di Machiavelli [c’era] alcunché di tristo e di serio» che oltrepassava la caricatura e nuoceva, tuttavia, all’arte. Ma, e lo si vede anche nella riserva che formulava circa la riuscita artistica della commedia, nel fondo restava l’indecisione per la quale, anni prima, irrisolta era rimasta la questione se, nel descrivere certi suoi personaggi, e fra Timoteo in particolare, l’indifferenza di costoro alla morale si fosse o no trasmessa anche nell’autore che, nel rappresentarli, forse era rimasto prigioniero della materia la quale, a suo parere, non era in effetti riuscito a trasferire nella superiore regione dell’arte. Sta di fatto che, attraverso la figura soprattutto di fra Timoteo, la Mandragola gli trasmetteva un disagio paragonabile a quello che non riusciva a reprimere nei confronti del Principe. Del quale, in effetti, non risulta che, nelle lezioni della scuola, si decidesse mai a proporre un’analisi specifica, sempre preferendo tenerlo sullo sfondo. Gli sembrava, e lo disse nelle conferenze del 1869, che nel produrlo M. gli avesse impressa sopra una «brutta esteriorità», o, addirittura (qui il testo della conferenza è incerto), quel breve trattato fosse stato, esso, la sua «brutta esteriorità», quel che nel suo animo permaneva di opaco, di estrinseco e di non risolto nella luce superiore del pensiero e dell’arte. Persino nel capitolo della Storia, dove, anche nei confronti del Principe, evidente fu lo sforzo messo in atto per superare le precedenti riserve e accoglierlo a pieno titolo fra i documenti del suo miglior pensiero, la distinzione alla quale aveva fatto ricorso della logica dalla morale ebbe qualcosa di artificioso e di poco convinto, come se, nel collocare quel fatale trattato nella dimensione dell’inesorabile consequenzialità, gli fosse poi mancato l’animo di ulteriormente osservare che, lungi dal mettere al riparo dai drammi della coscienza, era quella distinzione a rivelare l’abisso che sembrava dover essere in grado di dimostrare che non era abitato da mostri. Così, proprio attraverso il tentativo che metteva in atto di normalizzarlo, assegnandolo a una dimensione specifica della mente, il significato del Principe seguitava a sfuggirgli. La logica che alla politica imponeva la sua voce imperiosa non riscattava infatti la sua deinòtes, la sua invincibile terribilità. Al contrario, attraverso il suo esercizio, la ribadiva e confermava nel suo carattere. Che è poi quel che segna la superiorità, anche concettuale, delle più crude rappresentazioni machiavelliane della politica su tutti i tentativi che nel tempo si fecero per purificarle alla luce di qualcosa di ulteriore in cui la loro verità pervenisse alla più vera consapevolezza di sé. Non c’era infatti nel Principe niente da purificare, niente da trasferire, conservandolo, nella luce di più accoglienti filosofie. La tragedia che vi era descritta era infatti un abisso senza fondo, dal quale chi ne fosse stato preso non poteva evadere, e doveva accettarla per quello che era.
La difficoltà in cui D. S. si trovava nei confronti del Principe si poteva notare, del resto, anche nei pochi accenni che gli dedicava nelle sue lezioni. Nel ventesimo capitolo de La giovinezza, rievocando anni lontani, narrò dell’impressione prodotta negli scolari la sera che gli era accaduto di leggere la lettera dedicatoria dei Discorsi, un testo che lo riempiva di un’ammirazione così profonda che da lui quel sentimento si era subito trasmesso ai suoi ascoltatori (La giovinezza. Memorie postume seguite da testimonianze biografiche di amici e discepoli, a cura di G. Savarese, 1961, pp. 166-67), che ne erano stati indotti a chiedere e a discutere. «Pareva come un bel gioiello scavato di sotterra, e di cui nessuno aveva inteso a parlare. Cominciò la moda del Machiavelli: si disputava intorno ai Discorsi, intorno al Principe» (p. 167). Certo, anche del Principe si disputava, anche il Principe era, com’era inevitabile, coinvolto nelle discussioni alle quali il maestro aveva dato inizio con la sua lettura. È pur vero tuttavia che tutto era cominciato non dalle sue pagine, bensì da quelle della lettera con cui M. aveva dedicato i Discorsi ai giovani amici che l’avevano ascoltato leggerli nelle riunioni degli Orti Oricellari. È singolare, del resto, che il disagio morale che il Principe comunicava a D. S. solo da quello gli derivasse, e non anche dai Discorsi. Pagine di estrema crudezza si trovano infatti anche lì, a cominciare da quelle, per esempio, in cui, ragionando intorno al non saper essere gli uomini «né onorevolmente buoni né onorevolmente cattivi», M. (Discorsi I xxvii) narrò di Giampaolo Baglioni che era venuto a trovarsi nella condizione di poter disporre della vita di Giulio II, nonché dell’intero Collegio cardinalizio che era entrato disarmato e non protetto nella sua città di Perugia, e per viltà non aveva saputo compiere il gesto che gli avrebbe dato imperitura fama. E si pensi poi a quelle nelle quali si ragiona della necessità in cui si trova di usare mezzi estremi il legislatore che intenda restituire alla libertà una repubblica che avesse ormai cominciato a inesorabilmente camminare sulla via larga della corruzione. Ma il Principe era il Principe. Dalle sue massime, dirette e drammatiche, è comprensibile che D. S. rimanesse, nel profondo, impressionato, tanto che poi gli riusciva difficile rielaborarle senza abbandonare il piano della loro ardua concettualità. Non si può negare, d’altra parte, che della difficoltà in cui quell’opera lo poneva, D. S. avesse coscienza, e che a questo sentimento e disagio cercasse di porre un freno. La grandezza, per lui indiscutibile, del personaggio che aveva scritto quel fatale, piccolo libro gli imponeva, come un dovere, di discutere le conseguenze negative che potevano derivargliene e di non lasciarsene condizionare nel giudizio. Quando nella Storia della letteratura italiana di Cesare Cantù trovò pagine in cui si metteva in discussione la privata moralità di Ludovico Ariosto e di M., D. S. – si era nel 1865 – reagì con forza e, nel suo stile più puro, obiettò che, certo,
la moralità è una cosa buona. Ma l’essere stati l’Ariosto e il Machiavelli immorali, ha così poco a fare con la storia delle loro opere, come l’immoralità di Bacone ha poco a fare col suo Organo. Se ne può parlare per incidente, ma non a criterio del merito delle loro scritture (Verso il realismo. Prolusioni e lezioni zurighesi sulla poesia cavalleresca, frammenti di estetica, saggi di metodo critico, a cura di N. Borsellino, 1965, p. 281).
Qui, per altro, si trattava di moralità privata, e la critica diretta contro le angustie di Cantù non poteva non riuscirgli più agevole di quella che, anche nei confronti dei suoi propri pregiudizi, formulava, o tentava di formulare, a difesa delle massime del Principe.
Non deve credersi, tuttavia, che quando nel periodo delle scuole napoletane, zurighesi, torinesi D. S. andava con il pensiero alle opere di M. e alle questioni poste dalla critica, il possesso che egli aveva delle prime fosse tale da non presentare sostanziali lacune. Lo stato degli studi machiavelliani non era, d’altra parte, tale, in quegli anni del secolo 19°, che lo si potesse definire soddisfacente. Non bene conosciuta era innanzi tutto la sua biografia, alla quale, del resto, anche nel capitolo della Storia, D. S. non faceva che scarni riferimenti. Se si pensa che le grandi biografie tardo-ottocentesche uscirono negli ultimi anni della sua vita e dopo, comunque, che su M. egli aveva composto le sue pagine più impegnative – nel 1876 quella di Francesco Nitti, dell’anno successivo l’altra di Pasquale Villari, del 1883 il primo volume di Oreste Tommasini, mentre il secondo non vide la luce se non nel 1911 –, si può ben comprendere che dell’attività cancelleresca del Segretario fiorentino e delle centinaia di lettere che egli scrisse ai Dieci nella sua qualità di inviato presso le corti italiane ed europee D. S. dovesse avere ope ingenii un’idea alquanto più vaga e imprecisa di quella che si era procurata degli scritti storici, politici e letterari. Che non fu tuttavia, nemmeno questa, completa e irreprensibile negli anni che precedettero lo studio sistematico che delle sue opere fece in vista delle conferenze napoletane. Sorprende alquanto, per esempio, che, scrivendo nel 1855 della Storia del secolo decimonono di Georg Gottfried Gervinus, dopo aver detto di Dante e M. e del loro essere entrambi antipapali, del primo aggiungesse che desiderava per l’Italia un «capo ghibellino straniero», e del secondo che «era tenero degli ordini veneziani, certo antipapali» (p. 222). Il giudizio sorprende, e non poco, perché passi che l’idea imperiale di Dante fosse ben ritradotta nelle troppo veloci parole con cui D. S. la esponeva, ma che, nemico com’era della politica e anche della costituzione di Venezia, M. potesse mai esser considerato «tenero» nei confronti della Repubblica di San Marco, da lui sempre in prosa e in verso fatta oggetto di critica, questo, francamente, non può che sorprendere. Poiché la riflessione condotta da M. su Venezia aveva costituito un capitolo importante del suo pensiero, e troppo era stata da lui connessa alla parallela e contrastante sua interpretazione della storia, politica e costituzionale, di Roma perché la si potesse ignorare in questa sua centralità, che nel 1855 D. S. non avesse su questo punto chiare le idee, è cosa che non può essere lasciata nel campo degli aneddoti. E, per contrasto, conferma che non aveva torto, e anzi toccava un punto dolente della cultura, della filologia e dell’erudizione italiane nell’età che egli stesso aveva attraversata, quando, nel saggio su Settembrini e i suoi critici, che vide la luce nel 1869, sottolineava energicamente quella che definiva la «nostra povertà»:
Una storia della letteratura presuppone una filosofia dell’arte, generalmente ammessa, una storia esatta della vita nazionale, pensieri, opinioni, passioni, costumi, caratteri, tendenze; una storia della lingua e delle forme; una storia della critica, e lavori parziali sulle diverse epoche e su’ diversi autori (p. 316).
Si chiedeva perciò che cosa fosse in Italia di tutto questo; e rispondeva che non c’era niente, e se qualcosa d’importante c’era, era, «per nostra vergogna, lavoro straniero».
Noi abbiamo una filosofia dell’arte tutta d’accatto o senz’applicazione, e le cose sono a tale, che non sappiamo ancora cosa è la letteratura e cosa è la forma […]. Su nessuna arte è stato scritto niente di serio, non sulla pittura, non sulla musica, e neppure sulla poesia. Abbiamo vuote generalità, niente che sia frutto di alta speculazione filosofica o di serie investigazioni storiche (p. 316).
A pochi mesi dall’uscita della sua Storia della letteratura italiana, fa ancora impressione leggere, in pagine sue, che «una storia nazionale che comprenda tutta la vita italiana nelle sue varie manifestazioni, è ancora un desiderio. Quello che abbiamo rimane a infinita distanza da questo ideale» (p. 316). Ma, espresso in parole meno elaborate e più dirette, era lo stesso giudizio che si sarebbe letto nelle pagine conclusive della Storia, dove la vita dell’Italia che, in quello stesso anno 1870, aveva, con la presa di Roma, concluso il processo unitario, era giudicata tuttavia «ancora esteriore e superficiale», incapace di guardare alla «cosa effettuale» nello spirito di M. e di Galileo Galilei, e di produrre perciò una letteratura adeguata a quel che nella politica si era pur riusciti a conseguire. Premessa indispensabile al conseguimento di un simile programma di autentico rinnovamento interiore, al sorgere cioè di questa auspicata, nuova letteratura, era «una seria preparazione di studi originali e diretti in tutt’i rami dello scibile, guidati da una critica libera di preconcetti e paziente esploratrice» (Storia della letteratura italiana, cit., p. 974). Era altresì il costituirsi di «una vita nazionale, pubblica e privata, lungamente sviluppata», nella quale, com’era stato inteso da lui nel famoso saggio del 1869, l’«uomo del Guicciardini» lasciasse il posto a quello di M., che a lungo, nel corso di tre secoli, era stato espropriato del suo diritto a una più civile esistenza. Erano pagine notevoli queste con le quali D. S. concludeva la sua Storia; che si presentava nel duplice aspetto di una conclusione, perché tale era pur sempre il bilancio che vi era eseguito dei secoli della letteratura italiana, e di una premessa. Nel momento della fine era infatti hegelianamente contenuto quello dell’inizio, era delineato il programma, non dei compiti futuri, ma di un’autentica rifondazione culturale e nazionale, per la cui forza l’Accademia, l’Arcadia, il Classicismo e il Romanticismo, tutto questo avesse fine. Un compito immane, nei cui confronti la pagina desanctisiana, ed era inevitabile che fosse così, non riusciva a mantenere l’equilibrio, divisa com’era fra la considerazione degli antichi vizi, che persistevano tenaci, e la delineazione dei compiti nuovi che richiedevano, non solo buona volontà, ma una lunga stagione di minuzioso lavoro. Da una parte, il dovere dell’ottimismo, da un’altra il realismo della considerazione critica, nella cui luce il volo della nottola hegeliana appariva meno sicuro di quanto non fosse stato nella descrizione che la filosofia dava di esso.
Tutto questo per dire, in breve e con inevitabile approssimazione, che si davano uno scarto e una dissimetria nella considerazione che, fra il 1869 e il 1870, D. S. si accingeva a fare di M. nel quadro della storia della civiltà italiana. Lo scarto e la dissimmetria si erano determinati fra, da una parte, il quadro che, tenacemente, egli aveva costruito nel corso di lunghi anni del senso, non solo della letteratura, ma della storia italiana, e, da un’altra – in riferimento ad alcuni suoi momenti cruciali – il possesso e la lettura dei testi, la conoscenza fattuale di determinati autori, che non erano quali avrebbero dovuto essere, e, D. S. ne fu forse consapevole, per quel difetto conoscitivo, gli impedivano di arrivare alla desiderata sintesi dei due momenti. Ma, a far sì che si producessero non fu soltanto, come da qualche parte si disse, la innegabile prepotenza che il momento sintetico intrinseco al suo modo ‘filosofico’ e, nel fondo, tenacemente hegeliano, di considerare il corso delle cose, esercitò su quello – che si potrebbe dire analitico – della puntuale considerazione dei testi. Nei confronti di questi ultimi, alieno com’era da atteggiamenti estetizzanti, D. S. aveva dimostrato in più occasioni quanta virtù analitica ci fosse nel suo modo di leggerli, e come non fossero state spese invano le lunghe analisi, grammaticali e stilistiche, che ne aveva fatte nelle sue scuole. Ma sia che la innegabile tendenza a narrare la storia nella forma imposta dalla filosofia lo inducesse a inserire le sue conoscenze nello schema imposto da quella e a giudicarle di conseguenza, sia che quel che conosceva non fosse stato conosciuto abbastanza, a derivarne furono, nella cosiderazione concreta, gli scarti e le unilateralità di cui si è detto. Non è qui possibile dare adeguata attenzione al modo in cui, passando attraverso le esperienze che lo condussero allo studio sistematico della filosofia di Hegel e dei grandi momenti della moderna cultura tedesca, D. S. costruì e dipanò nella sua mente il filo della storia e della cultura italiane. Ma, schematicamente e con il necessario, inevitabile impoverimento, si può dire che, consapevole di vivere in un momento in cui la decadenza che per secoli aveva caratterizzato la vita italiana era entrata nell’incerto dramma del suo arduo superamento, D. S. pensò la storia italiana nella logica interna al susseguirsi di due momenti fondamentali. Nessuno, certo, potrebbe sognarsi di ridurre a quello schema la ricchezza delle osservazioni che D. S. produsse nelle sue pagine. Ma si può dire, tuttavia, che il primo momento fu colto, non senza incertezze, nella vitalità che aveva dato segno di sé nell’età comunale, culminata per questo riguardo nella Commedia di Dante. Il secondo invece fu inaugurato e contrassegnato da Francesco Petrarca e, malgrado le squisitezze letterarie e le perle poetiche del suo Canzoniere, da tutto quel che ne era conseguito di incerto fra l’età che moriva e quella che non si decideva a nascere e a mostrare un volto certo. Fu contrassegnato da una tendenza dello spirito che si rivelava contraria alla schiettezza civile, all’impegno morale, alla passione politica che avevano dato segno di sé nel poema di Dante. Nella rappresentazione che D. S. ne dava, fu quella che allora nacque e prese forma un’età di grande splendore artistico e letterario, ma di altrettanto grande decadenza dello spirito civile, che, allo scadere del 15° sec., l’inizio di quelle che furono dette «les guerres d’Italie» e l’inizio di una lunga servitù, rivelò intera la sua gravità. Mentre le arti fiorivano e, nell’ambito dello spirito separato dalle cose reali del vivere sociale e politico, l’anima italiana si faceva adulta e la decadenza italiana, culminata nell’irrisione di Pietro Aretino, svolgeva il suo lungo filo, in quel gran carnevale in cui tutti ridevano e nessuno credeva a niente M. se ne stava in disparte, solo e isolato, a rappresentare la crisi e la consapevolezza della crisi, nonché a predicare, inascoltato, la lezione della verità effettuale delle cose, non dell’immaginazione di essa. Il terzo momento fu quello che, inaugurato da Giordano Bruno, ma anche da Bernardino Telesio e da Tommaso Campanella, raggiunse il suo culmine nell’opera di Galileo Galilei, in cui sembrò che lo spirito di M. avesse trovata una nuova incarnazione. Ma quella che D. S. aveva denominata della «nuova scienza» fu anche l’età della Controriforma cattolica, dei grigi e penitenziali teorici della ragion di Stato – che Alessandro Manzoni avrebbe satirizzati per il tramite di don Ferrante –, dei gesuiti; un’età in cui il nuovo penetrava bensì nelle coscienze, ma non tanto che queste potessero esserne riformate in profondità. Fu l’età in cui la nuova borghesia si era contrapposta con energia e radicalità alla vecchia classe feudale, legata alla Chiesa e rimasta sorda a ogni istanza di rinnovamento, senza poter tuttavia trovare, dispersa com’era nei vari Stati in cui si divideva la penisola italiana, la forza e la concentrazione necessarie a farne un unitario soggetto politico. Così rimaneva cosmopolita, non raggiungeva il traguardo della nazione, realizzava, ma soltanto nell’intelletto, quel che più tardi, nell’unitaria Francia monarchica, sarebbe stato realizzato da una vera rivoluzione. Il simbolo di questa situazione forse fu, nell’interpretazione che D. S. ne dava, il pensiero di Giambattista Vico, diviso fra l’intuizione del nuovo e ciò che gli impediva di condurre all’altezza di quello ogni aspetto di un pensiero che restava perciò, nel profondo, oscillante e diviso.
In questo schema, così, per forza di cose, poveramente descritto, è necessario inserire M., se si vuol capire sul serio il senso dell’interpretazione che D. S. ne dette, cercando altresì di cogliere non solo la forza e la profondità di tante sue intuizioni, ma anche il limite che tuttavia non si può non avvertirvi. Il limite, come si è detto, aveva la sua prima origine nella particolare logica del quadro in cui il personaggio era inserito, ossia nella prepotenza interpretativa, filosofico/storica, che, provenendo di lì, per un verso scendeva in profondità e, per un altro, non è un paradosso, semplificava, passava sopra a questioni che per la comprensione del suo pensiero sono fondamentali: a partire dal modo che egli tenne non solo nel procurarsi la conoscenza delle cose antiche, ma anche, attraverso queste, nel costruire le idee delle repubbliche e dei principati. Le quali non possono, in effetti, prescindere dall’interpretazione che egli dette di alcuni nodi essenziali della storia di Roma, sia nel suo iniziale momento repubblicano sia nell’età del declinante impero. Il limite si avvertiva sia nel possesso non sempre perfetto di alcuni testi e delle questioni ermeneutiche che vi erano connesse sia nella fretta a cui talvolta lo induceva la prepotenza dello schema filosofico/storico che agiva nella sua mente impegnata a scoprire il senso della lunga vicenda italiana. Il caso forse più clamoroso che al riguardo possa prodursi è quello che concerne Guicciardini e l’interpretazione, essenziale anche per M., che egli ne dette nel suo saggio famoso del 1869. Converrà ricordare che l’articolo fu provocato dalla pubblicazione, nel quadro dei dieci nei quali Giovanni Canestrini aveva a partire dal 1857 raccolte le opere inedite del grande storico e pensatore politico, del volume contenente i Ricordi. Il caso che si apriva era clamoroso. Fino a quel momento, di Guicciardini era nota, insieme con la Storia d’Italia, solo la cosiddetta (dagli studiosi novecenteschi) ‘redazione A’ dei Ricordi, più breve e meno elaborata delle due successive che, peraltro senza distinguerle chiaramente, pubblicava ora Canestrini, traendole dagli autografi rimasti per circa tre secoli nell’archivio della famiglia. Quando ebbe fra le mani il volume che comprendeva i Ricordi, avendo cominciato a leggerli D. S. dovette ritenere che quel testo gli fosse stato inviato dalla divina provvidenza, venuta per quella via in soccorso dell’interpretazione che, da tempo, era impegnato a delineare della storia d’Italia nel 16° secolo. Li interpretò nel modo noto, ponendoli, lo si è già accennato, nel più netto contrasto con lo spirito che rinveniva negli scritti di M.; e tale era stata l’impressione che ne aveva ricevuta che, per scriverne, non poté attendere di aver letto il resto. Avendo composto un ritratto, a suo modo geniale, di quello che riteneva Guicciardini fosse stato in sé stesso e in relazione ai tempi nei quali era vissuto, contribuì bensì a rendere più completa, e meglio articolata, la sua interpretazione della decadenza italiana, ma anche a fuorviare per decenni e decenni la critica dal suo vero compito. Che avrebbe dovuto essere non tanto di trovare conferme a un’idea nata per altra via, quanto piuttosto di entrare nei meandri di un pensiero complesso, ricco di straordinaria intelligenza e consapevolezza politica: un pensiero che guardava alla politica con sensibilità storica, alla storia con sensibilità politica, e nei Ricordi aveva conquistato, se non il suo culmine, una consapevolezza straordinariamente penetrante dell’estrema varietà delle cose reali e della difficoltà intrinseche all’agire umano. C’era anche, in quelle brevi massime, una sincerità di analisi e di autoanalisi, un senso così puntuale e doloroso del limite da cui le esistenze umane erano strette, che andava al di là della politica, della storia, della guerra, e accennava a più insondabili profondità che, schiavo del suo demone, D. S. non riuscì a cogliere. Ma questa è tuttavia un’altra questione. Resta che di leggerli nel confronto con quel che era contenuto nei restanti volumi pubblicati da Canestrini – e farsi quindi una più compiuta idea di quel che Guicciardini era stato nel complesso della sua opera – a D. S. allora non venne in mente, tanto che si potrebbe rimproverargli il difetto che egli imputava alla scienza storica e letteraria del suo paese e del suo tempo, ossia di essere stato lui «difettivo» nell’apprezzamento di un documento che l’onesta filologia del suo amico Canestrini gli aveva all’improvviso messo dinanzi.
La costruzione moralistica e polemica dell’«uomo del Guicciardini» era stata delineata non solo a riscontro di, ma soprattutto a contrasto con quello, diverso dal primo nell’intrinseco, che era stato concepito da Machiavelli. Se si legge controluce il saggio su Guicciardini, nella sua filigrana può discernersi il volto del pensatore che per tutta la vita aveva speso il suo ingegno nella ricerca delle cause che avevano determinata la decadenza dell’Italia. Se di questa decadenza Guicciardini era l’intelligente, disincantata e rassegnata espressione, M. ne era il critico e, almeno nel pensiero, il superatore. Se, nel suo disincanto, il primo vedeva meglio (Storia della letteratura italiana, cit., p. 619), il secondo guardava comunque più lontano. La contrapposizione è dunque evidente, e costituisce uno dei Leitmotive della interpretazione desanctisiana. Ma non è un’evidenza che possa e debba esser data per scontata: è un’evidenza che, al contrario, dev’essere tenuta sotto il controllo della critica quando, da quelle che ritraggono «l’uomo del Guicciardini», si passi alle pagine dedicate al Segretario fiorentino, e queste diventino oggetto di attenzione e di studio. Non sono pagine che sia facile riassumere, né quelle delle conferenze napoletane di S. Domenico Maggiore, né le altre, appartenenti alla Storia della letteratura italiana. Nella sostanziale identità del tema di fondo, vi sono, fra le une e le altre, differenze che non possono non essere rilevate. Comune a entrambe fu l’idea della grande crisi che si era finalmente rivelata in Italia quando la discesa di Carlo VIII aveva di colpo mostrata la fragilità di un equilibrio che pareva perfetto e di una prosperità che sembrava destinata a non dover finire mai. Comune a entrambe la conseguenza generale che D. S. ne ricavava. Di questa crisi M. era stato la coscienza critica e l’insuperato analista. Nessuno, per intenderla nella sua vera genesi, aveva spinto lo sguardo così a fondo, come lui aveva fatto, nessuno era risalito a tempi così remoti. D. S. apprezzò molto il primo libro delle Istorie fiorentine: del che gli va dato grande merito. Diverso, dall’una all’altra, fu invece il tono, troppo concitato e passionale nelle conferenze, assai più controllato e consapevole nel capitolo della Storia. E il tono non era indipendente dal pensiero che, nella Storia, era infatti più controllato, non batteva, con qualche concessione alla retorica, sul tema della modernità, e in compenso scendeva più a fondo nell’interpretazione, pur sempre non a pieno adeguata, dei testi. Lette a riscontro del quindicesimo capitolo della Storia, le conferenze di S. Domenico Maggiore rivelano, per contro, un grado assai minore di fusione e di rifinitura formale; accanto a osservazioni acute, talvolta geniali, vi si incontrano ingenuità, esagerazioni retoriche, giudizi destinati a essere o abbandonati o meglio definiti quando la loro prosa alquanto agitata si purificò in quella sempre viva, ma più controllata, della Storia. Si pensi, fra i giudizi rifiutati, a quello, già ricordato all’inizio, sul Principe che a M., si diceva nelle conferenze, era accaduto di aver prodotto «con una brutta esteriorità», o che, secondo la lezione data dal giornale «Roma» addittura era «la sua brutta esteriorità». Fra le due versioni non c’è, a guardar bene, la gran differenza che altri vi ha notata, la seconda non fraintende il senso della prima; e non ci si meraviglierebbe nell’apprendere che, delle due frasi attribuitegli, D. S. aveva effettivammente pronunziata la seconda, non la prima. Sia nel caso, infatti, che la «brutta esteriorità» si fosse aggiunta dal di fuori all’opera sia che avesse espresso un suo tratto deteriore, è indiscutibile che, in entrambi i casi, si dava, nel Principe, qualcosa che all’esterno appariva con il carattere della «bruttezza»; e che estrinseco non poteva perciò essergli al punto che a M. si fosse imposto dal di fuori senza avere la sua sede in un angolo, quale che fosse, della sua coscienza. In realtà, con questa formula comunque poco felice, D. S. mirava a mettere fuori del quadro quel che da secoli era stato indicato come immoralità e nefandezza. Tendeva a metterlo fra parentesi e lì a dimenticarlo, dopo aver rischiato di escluderlo, addirittura, dall’ambito delle cose che hanno pregio; e la formula era poco felice perché, con le parole stesse che la costituivano, ricollocava al centro del quadro quel che intendeva o cancellare o attenuare fino al minimo grado. Sta di fatto che, come già si è notato, nel capitolo della Storia quella formula non tornò, sostituita dalla distinzione dell’etico e del logico; che era anch’essa, per le ragioni che già sono state addotte, poco felice, ma non tanto quanto lo era stata la precedente. Si pensi, per fornire un ulteriore esempio dei giudizi rifiutati o attenuati e meglio definiti, anche all’enfasi con la quale, nelle conferenze napoletane, D. S. aveva insistito sulla nazione che, nel pensiero di M., sostituiva, a suo giudizio, sia l’impero sia il comune, che non contavano più nulla per lui che, se mai, inclinava verso il «governo misto» (L’arte, la scienza, la vita, cit., p. 65). Ma la nazione alla quale D. S. pensava non era quella a cui, ai suoi tempi, M. aveva rivolta la mente; e il governo misto era inteso non alla maniera classica, ossia secondo il modello polibiano che nei Discorsi era stato tenuto presente, ma, sia pure in modo, anche qui, alquanto generico, secondo quello piuttosto di Charles-Louis de Montesquieu nell’Esprit des lois, ripensato alla luce del terzo stato e della Rivoluzione francese.
Di queste intemperanze non c’è, nel capitolo della Storia, se non una debole traccia: segno che, nei pochi mesi che dal capitolo dividono le conferenze, pronunziate, come si dice, a braccio e con pochi appunti, D. S. doveva aver sottoposto a un severo controllo, non solo il tono (e questo era ovvio) delle prime, ma anche non pochi giudizi; che riuscirono perciò diversi anche quando identico fosse stato, nel fondo, il pensiero che li metteva al mondo. Si pensi al rapporto che D. S. stabiliva fra M. e, da una parte il Medioevo, che mostrava a lui il suo volto ormai decrepito, e da un’altra il mondo moderno, che ormai si annunziava nel segno della scienza con la serie argomentativa sostituita al sillogismo, e la diretta osservazione dei fatti storici e naturali sostituita alla deduzione. Il pensiero era lo stesso, ma lo stile era diverso perché non generico ma specifico era il riferimento ai testi, presenti anche quando non fossero stati direttamente citati. Si consideri, per esempio, quel che, nella Storia, D. S. scriveva, a commento di un passo, puntualmente riferito, pur con qualche omissione, da Discorsi I xxxix. Qui, diceva,
i fatti sono schierati in modo che si appoggiano e si spiegano a vicenda: sono una doppia serie, l’una complicata, che ti dà le cause vere, visibile solo all’uomo intelligente; l’altra semplicissima, che ti dà la causa apparente (Storia della letteratura italiana, cit., p. 576);
e proseguiva per un paio di pagine, ricavando dalla premessa tutte le possibili conseguenze in ordine a quella che gli appariva come, non solo la modernità di M., ma il modo concreto in cui ulteriormente quella si era specificata come consapevolezza della crisi e opposizione a essa. Opposizione a essa e al modo di scrivere e di argomentare che, ancora ai suoi tempi, tenevano il campo, non solo nella letteratura, ma anche nella filosofia, e di quella erano, a suo parere, diretta espressione.
I filosofi non avevano ancora smesso le loro forme scolastiche, i poeti petrarcheggiavano, i prosatori usavano un genere bastardo, poetico e rettorico, con l’imitazione del Boccaccio: la malattia era una, la passività e l’intelligenza dell’intelletto, del cuore, dell’immaginazione, cioè a dire di tutta l’anima […]. Fra tanto infuriare di prose rettoriche e poetiche comparve la prosa del Machiavelli, presentimento della prosa moderna. Qui l’uomo è tutto, e non ci è lo scrittore, o ci è solo in quanto uomo (p. 579).
Il fulcro dell’interpretazione di D. S. era in queste considerazioni, da cui derivava tutto il resto; che egli espresse nella forma delle sue contrapposizioni brucianti, che a un capo avevano la corruzione dell’Italia, il grande carnevale in cui, poiché si rideva di tutto, anche la grande cultura italiana finiva per avvilire sé stessa, e a un altro la serietà di M., il suo guardare il mondo per quel che era, nella realtà effetuale delle cose che lo costituivano e che erano la sua verità. Da queste premesse discendeva tutto il resto; che non era tuttavia, in quanto conseguenza di quella premessa, colto con altrettanta concretezza. Quando dalla considerazione dello stile D. S. passava a quella dei concetti che ne erano espressi, nella sua pagina poteva notarsi come un impoverimento. L’analisi delle opere non si manteneva pari alla smagliante forma del concetto che le ispirava: come se, espresso quello, il resto poi non contasse e potesse essere sbrigato, non si dice con poche considerazioni, ma non con altrettanto impegno. Quel che, per esempio, si legge dei Discorsi è non solo deludente ma come sfasato nei confronti del concetto da cui questa grande opera trae la sua unità; la quale non è determinata dal pensiero che gli uomini non sanno essere né tutti buoni né tutti tristi (p. 582) – questo non è che un corollario della antropologia pessimistica del loro autore –, ma da ben altro, e cioè dai concetti che M. aveva messo a fondamento della sua interpetazone dei momenti salienti della storia romana. E del Principe D. S. in complesso diceva poco se, contrapponendolo al De regimine principum di Tommaso d’Aquino (e di Tolomeo da Lucca), ne metteva in evidenza la spietatezza logica e la subordinazione a essa dell’agire morale. Allo stesso modo, della Mandragola, che, assai meno apprezzata da lui di quanto non fossero il Principe e, soprattutto, i Discorsi, fu forse l’opera alla quale più largamente il letterato D. S. concesse attenzione e dette spazio, non si direbbe che, fra riserve e apprezzamento, gli riuscisse di cogliere il carattere profondo: che non consiste infatti nel rigore logico con cui gli eventi sono connessi agli eventi e tutto, inesorabilmente, va verso la sua conclusione, ma, se si desidera una considerazione personale, nella parodia tragica a cui, parlando del piccolo mondo dei Nicia, dei Callimaco, dei Ligurio, dei Timoteo e di madonna Lucrezia, M. sottopose il mondo alto della politica.
Malgrado lo sforzo potente che compì per penetrare, senza anacronismi, nella sostanza autentica del pensiero di M., non si può dire che, quando provò a trarre le conclusioni del suo discorso e a darne la sintesi, D. S. riuscisse ad aver ragione del contrasto che, nel fondo, lo contrapponeva al mondo del suo autore, alla implacabilità crudele della sua logica, alla fermezza di uno sguardo che imprigionava la storia e la natura nella sua luce razionale e non permetteva che gli ideali, che pure erano nella sua anima, ne ammorbidissero il freddo profilo. L’apprezzamento che dichiarava nei confronti di una logica politica in cui ravvisava i tratti della scienza che aveva reso moderno il mondo confliggeva, nel fondo, con le idealità liberali e democratiche che gli stavano dentro. E niente lo dimostra meglio della conclusione che egli dette a un discorso, nel quale aveva cercato di superare ogni pregiudizio che in passato avesse nutrito nei confronti dell’autore del Principe, e che riuscì invece drammaticamente divisa fra l’apprezzamento scientifico e la persistente perplessità morale.
Il fondamento scientifico di questo mondo è la cosa effettuale, come te la porge l’esperienza e l’osservazione. L’immaginazione, il sentimento, l’astrazione sono così perniciosi alla scienza, come nella vita. Muore la scolastica, nasce la scienza. Questo è il vero machiavellismo, vivo ancor oggi […]. Siamo dunque alteri del nostro Machiavelli. Gloria a lui quando crolla alcuna parte dell’antico edificio. E gloria a lui quando si fabbrica alcuna parte del nuovo. In questo momento che scrivo, le campane suonano a distesa, e annunziano l’entrata degl’italiani a Roma. Il potere temporale crolla. E si grida viva all’unità d’Italia. Sia gloria a Machiavelli (pp. 606-07).
Ma poi c’era la parte caduca del sistema, che, a guardar bene, era la stessa a cui D. S. aveva tributato il suo consenso critico e, per certi versi, la sua adesione morale. Certo, egli aveva ragione quando scriveva che il limite di M. era nell’esagerazione del suo pregio: la patria che assumeva il volto di un’antica divinità, lo Stato che non si contentava di essere autonomo e toglieva agli altri la loro autonomia, tanto che, se c’erano i suoi diritti, quelli del cittadino non c’erano. Il punto della questione era che, avendo stabilito con il suo autore un rapporto drammatico e contrastato di identificazione, quanto più questa era vicina a realizzarsi, di altrettanto, a contrastarla, insorgeva l’altra parte della sua anima, quella che, per dirla in breve, apparteneva alla modernità nata dalla Rivoluzione francese. Il cupo mondo della politica rinascimentale, che M. aveva drammaticamente rappresentato nei suoi scritti, e del quale aveva descritto l’anatomia con la stessa precisione con la quale, nei suoi stessi giorni, Leonardo da Vinci studiava i cadaveri per scoprire quel che, messa da parte la pietà, solo l’osservazione poteva insegnargli, subiva nel suo animo un violento contraccolpo. Altra cosa era infatti il mondo moderno che pure M. aveva potentemente annunziato.
L’assassinio politico, il tradimento, la frode, le sètte, le congiure sono mezzi che tendono a scomparire. Presentiamo già tempi più umani e civili, dove non sieno più possibili la guerra, il duello, la rivoluzione, le reazioni, la ragion di stato e la salute. Sarà l’età dell’oro. Le nazioni saranno confederate, e non ci sarà altra gara che d’industrie, di commerci e di studi (pp. 607-08).
Il lampo ironico e autoironico che dà segno di sé nella battuta sull’età dell’oro doveva cedere alla fede dichiarata a quel mondo prossimo a realizzarsi. Scriveva: «è un bel programma. E quantunque sembri un’utopia non dispero. Ciò che lo spirito concepisce, presto o tardi viene a maturità. Ho fede nel progresso e nell’avvenire» (p. 608). Rispetto a questo mondo, che non s’era ancora realizzato, ma del cui avvento D. S. non si sentiva autorizzato a dubitare, quello di M. era destinato al tramonto. Se, nell’attesa, era ancora lì e non si poteva giudicarlo alla luce di quel che ancora non era, è anche vero che, se ancora si era costretti a dire che «crudele è la logica della storia; ma è quella che è» (p. 608) e a dare a M. il riconoscimento che non gli si poteva negare, in questo stesso atto se ne decretava il tramonto. Il dissidio che, ora più evidente, ora meno, travagliò l’interpretazione desanctisiana di M. aveva qui la sua radice. Era il pessimismo che a tratti insorgeva circa l’imminenza di quell’avvento a decretare l’attualità di Machiavelli.
Malgrado i limiti che sono stati segnati, la distanza a cui l’interpretazione desanctisiana di M. si pose rispetto a quel che di lui era stato scritto in precedenza è enorme. E anche, deve dirsi, rispetto a molte cose che si scrissero dopo, e ancor oggi si scrivono. La sua grandezza derivò dalla capacità che egli ebbe di fare di lui il momento saliente di una crisi storica, che aveva le sue radici nel passato della storia italiana: di guardarlo in questa luce e di intenderlo nel quadro che ne derivava. Il rischio era che, lungo questa via, M. diventasse un momento di questa crisi, un anello di questa catena; e che nel quadro della filosofia della storia che forniva i criteri della interpretazione, smarrisse i caratteri suoi più specifici. In questo, l’interpretazione di D. S., che per il resto è alle origini dell’autentica comprensione di M., ebbe il suo punto debole e conobbe il suo limite.
Bibliografia: Teoria e storia della letteratura. Lezioni tenute in Napoli dal 1839 al 1848, ricostruite sui quaderni della scuola da B. Croce, 2 voll., Bari 1926; Storia della letteratura italiana, a cura di N. Gallo, Torino 1958; La giovinezza. Memorie postume seguite da testimonianze biografiche di amici e discepoli, a cura di G. Savarese, Torino 1961; Verso il realismo. Prolusioni e lezioni zurighesi sulla poesia cavalleresca, frammenti di estetica, saggi di metodo critico, a cura di N. Borsellino, Torino 1965; L’arte, la scienza, la vita. Nuovi saggi critici, conferenze e scritti vari, a cura di M.T. Lanza, Torino 1972.