Francesco De Sanctis
Francesco De Sanctis considerò la letteratura un’esperienza umana integrale immersa totalmente nel corso della storia. La sua ideologia romantica non prese una direzione sentimentale ma realistica, ricusando nell’arte e nella filosofia atteggiamenti contemplativi, fino a identificare l’impegno intellettuale con l’impegno morale e a sentire la necessità di conciliare i principi individuali con i principi sociali. Non solo la lingua ma l’intero mondo della cultura fu per lui connesso alle sorti della nazione in cui si esprime. La sua opera di critico letterario diventa così la storia della formazione della coscienza nazionale volta a volta incarnata negli scrittori, in una fittissima trama di contrapposizioni e antitesi.
Francesco De Sanctis nacque il 28 marzo 1817 a Morra Irpina (oggi Morra De Sanctis), un paese prossimo ad Avellino dove i genitori erano piccoli proprietari terrieri. Compì i suoi studi a Napoli, presso uno zio prete che aveva una scuola privata, ma già a diciotto anni diventò insegnante, sostituendosi al suo parente che si era gravemente ammalato. Frequentò anche le lezioni di Basilio Puoti (1782-1847), un professore di grammatica che difendeva la purezza della lingua italiana, diventandone collaboratore, soprattutto nella curatela di edizioni di testi trecenteschi. Grazie alle molte letture di letterati e filosofi, specialmente stranieri (Victor Hugo, George Byron, Friedrich e August Wilhelm Schlegel, i filosofi sensisti, Victor Cousin, Immanuel Kant, Georg Wilhelm Friedrich Hegel), superò la visione angusta del purismo, sostituendo all’obiettivo della purezza quello della proprietà linguistica. Con tutte queste esperienze precocemente acquisite, nel 1839 De Sanctis poté aprire una propria scuola privata, pur continuando la collaborazione con Puoti. I primi corsi vertevano sulla grammatica, sulla lingua e sullo stile, ma poi passarono allo studio dei generi letterari, dalla lirica alla narrativa e al dramma. Con la lettura di Hegel, nel 1844, l’orizzonte culturale si estese all’estetica, alla storia della critica e alla filosofia della storia.
I moti insurrezionali del 1848 videro De Sanctis partecipare attivamente. Dopo il fallimento della rivolta, fu rimosso dall’insegnamento e, anche per evitare altre persecuzioni, accettò di diventare precettore nella famiglia di un patriota calabrese, trasferendosi a Cosenza, dove rimase dalla fine del 1849 al dicembre dell’anno successivo. Una delazione che lo denunziava come affiliato al movimento mazziniano gli procurò la traduzione a Napoli e la detenzione a Castel dell’Ovo. Alla sua liberazione (agosto 1853), fu espulso dal Regno delle Due Sicilie, finendo in settembre a Torino. Considerato politicamente troppo progressista, non riuscì a ottenere alcun incarico pubblico, e trovò da vivere come insegnante e tenendo conferenze su Dante Alighieri.
La buona fama conseguita diede a De Sanctis una notorietà che gli consentì nel 1856 di essere invitato al Politecnico di Zurigo a insegnare letteratura italiana. Mentre svolgeva corsi su Dante, Francesco Petrarca, Ludovico Ariosto, Alessandro Manzoni, Giacomo Leopardi, il contatto con esuli tedeschi e francesi comportò l’allargamento dei suoi interessi, verso i poeti e i critici francesi, verso Heinrich Heine e Arthur Schopenhauer. Con queste aperture maturò la critica all’apriorismo di Hegel e della critica tedesca, insieme con il rifiuto dello psicologismo empirico dei francesi. Gli eventi politici e militari dell’Italia indussero però De Sanctis a interrompere questi studi, facendolo ritornare a Napoli nel 1860. Qui fu tra coloro che prepararono l’annessione al regno di Vittorio Emanuele II. Subito dopo la proclamazione dell’unità d’Italia, Camillo Benso conte di Cavour lo nominò ministro della Pubblica istruzione, carica che De Sanctis tenne dal marzo 1861 al marzo 1862.
Dopo vari mandati parlamentari in qualità di deputato per la Sinistra, la mancata rielezione del 1865 condusse di nuovo De Sanctis agli studi letterari, concretizzatisi nel 1866 nella pubblicazione dei Saggi critici e nell’avvio della stesura della Storia della letteratura italiana. Edita nel 1870-71, quest’opera si conclude con un capitolo sulla Nuova letteratura, destinato ad avere una sua ideale continuazione nei corsi tenuti all’Università di Napoli nella nuova veste di professore di letteratura comparata.
Fu quindi di nuovo diviso tra lo studio e l’attività politica, ma nel 1876 abbandonò l’università per dedicarsi interamente ai lavori parlamentari e, tra il 1878 e il 1881 (con una breve interruzione nel 1878-79), all’incarico di ministro.
Negli ultimi anni di vita, la sua formazione idealistica si confrontò con il positivismo e il naturalismo, ed egli stese, dopo la prolusione La scienza e la vita (1872), il saggio Studio sopra Emilio Zola (1878) e le conferenze Zola e l’Assommoir (1879) e Il darwinismo nell’arte (1883); allo stesso periodo risalgono le opere evocative, diaristiche e autobiografiche. La morte lo colse il 29 dicembre 1883, mentre stava lavorando a uno Studio su Leopardi, il poeta più amato.
Varcata la soglia dei cinquant’anni, De Sanctis ebbe a ricordare, con una punta di benevola ironia, i suoi primi esercizi di scuola, consistenti nel riempire i quaderni «di bei modi di dire», nel «rotondare» i periodi, nello «studiare con atteso animo grammatiche e rettoriche, trecentisti e cinquecentisti, pieni il petto di sacro orrore verso il forestierume» (Opere di Francesco De Sanctis, a cura di C. Muscetta, 1° vol., 1961, pp. 221-22). Eppure, di là dalle innegabili angustie di questo magistero, quei primi anni spesi nell’imparare le belle forme del dire non furono inutili, perché mostrarono nella purezza della lingua italiana l’esistenza di un’unità nazionale visibile nonostante la frantumazione politica. Una volta sbaragliata la componente dogmatica del purismo, quella che faceva dello scrivere non una produzione, ma un’imitazione secondo certi preconcetti o archetipi, quelle lezioni inculcarono nel giovane De Sanctis un amore profondo per la poesia, severo e rigoroso, per quanto ancora gretto. Soprattutto lo dotarono di una sensibilità empirica e tecnica derivatagli dall’abitudine di «notare più per esempli che per teoriche i pregi e i difetti degli scrittori» (p. 231), in un confronto diretto con i testi. Si direbbe quasi che, fin da quei primi esercizi linguistici, fosse già racchiuso in anticipo il rimedio delle determinazioni concrete con cui contrastare l’ideale astratto delle forme.
Le opere su cui si applicava l’analisi linguistica del purismo erano però sequestrate dalla realtà e dal presente, chiuse in una loro arcaica distanza che rendeva morta la lingua con cui si erano espresse. A poco a poco De Sanctis capì che a rendere vitali le parole non era la loro purezza ontologica, ma il loro valore funzionale, espressione del contenuto. A fare «bene scrivere» non erano le regole della grammatica e della retorica, ma «il ben pensare» (Opere, cit., 3° vol., 1975, t. 1, p. 454). Nei tardi ricordi della giovinezza la sostituzione del «dogma della purità» con il canone della «proprietà e della precisione» avvenne «volgendo l’attenzione più al contenuto che alla forma», con cui
veniva capovolta la base della grammatica e della lingua, e si riusciva a opinioni assolutamente diverse dalle correnti. Lo spirito, concentrato nella parola o nella frase, si avvezzava a guardare di sotto, a cercare il pensiero, a preferire non la frase più pura, ma la frase più propria e più esatta, che fosse […] lo specchio del pensiero (Opere, cit., 1° vol., p. 137).
A segnare il passaggio «dalle parole alle idee» (p. 116) furono le varie letture filosofiche provenienti dapprima dall’Illuminismo e dal sensismo che, nell’integrarsi con gli studi linguistici, dotarono il pensiero di De Sanctis della capacità di cercare dietro «il mare di irregolarità e di eccezioni» linguistiche «il simile e il regolare» (p. 120), fino a risalire alle strutture logiche fondamentali di una lingua. Nella dialettica «della idea e del fatto», nella diffidenza «delle teoriche non confortate da’ fatti», nella proclamazione dell’«intima unione della filosofia e della storia» (Opere, cit., 2° vol., 1975, p. 71), non è difficile scorgere in filigrana la lezione di Giambattista Vico, che per Fulvio Tessitore è stato «il protagonista della sua formazione, l’autore della sua vita intellettuale» (F. Tessitore, La filosofia di De Sanctis, 1984, p. 272), dalla cui Scienza nuova De Sanctis apprese per tempo a saldare insieme verum e factum, filosofia e filologia.
Inutile dire che Vico non fu l’unico autore a essere compreso nelle letture degli anni Trenta e Quaranta, sempre molteplici e stratificate. Il suo stesso nome ha il valore antonomastico e inclusivo dell’estesa cultura meridionale che nel primo Ottocento si era rifatta, sviluppandolo, al suo storicismo. A questa De Sanctis aggiunse la conoscenza della filosofia eclettica di Cousin e il pensiero cattolico di Vincenzo Gioberti, con cui arricchì i propri ideali risorgimentali, senza mai trascurare il versante letterario. A mettere ordine alle tante esperienze centrifughe provvide lo studio di Hegel, la cui estetica, pur parendogli nel corso di lezioni del 1845-46 «il più grande monumento di critica» (Opere, cit., 3° vol., t. 2, p. 1188), non fu che l’occasione per confermargli ciò che già aveva intuito per proprio conto, ossia che, se «lo scopo dell’arte è il bello ideale, eterno, immutabile, la forma dell’arte è reale, finita, mutabile secondo i tempi e la società» e deve quindi necessariamente rivestirsi «di quegli elementi che predominano nella società in cui vive» (pp. 1189-90).
L’enunciato romantico, risalente a Louis de Bonald (1754-1840), secondo cui la letteratura è l’espressione della società, acquista in De Sanctis un rilievo e una profondità estesi a ogni attività dello spirito. Se ogni fenomeno non si può sottrarre al movimento del tempo e della vita, la storia diventa un fattore imprescindibile anche per ogni analisi di natura culturale.
Appunto alla storia si richiamò De Sanctis quando, nel 1848, cominciarono le insurrezioni patriottiche, che coinvolsero anche Napoli. Nel suo Discorso a’ giovani pronunziato nel febbraio di quell’anno, nella cui nobile eloquenza si rivela l’intensa vocazione di educatore, si rifaceva proprio «a quella letteratura civile, a quella rigenerazione dantesca che porta in fronte il nome di Vittorio Alfieri, indiritta ad una Italia futura» (Opere, cit., 2° vol., p. 106). E su quell’abbrivo si fondava l’insegnamento morale rivolto a una gioventù la cui «generosità» doveva essere «preparazione alla sapienza civile», convertendo gli «individui» in una «classe», orgogliosa di sé e sollecita ai nuovi doveri richiesti dalla «libertà». Per quanto il suo appello fosse molto moderato nel richiamarsi all’«ordine» e alla guida di Pio IX, quando ancora il papa pareva seguire una politica liberale e avevano ascolto gli ideali politici di Gioberti, De Sanctis non riuscì a evitare la repressione, e dopo essersi allontanato per un anno da Napoli rifugiandosi a Cosenza, dove si dedicò all’introduzione dell’epistolario di Leopardi e alle versioni italiane di Johann Christoph Friedrich Schiller e di Hegel, fu imprigionato a Castel dell’Ovo.
Gli oltre due anni e mezzo di carcere furono impiegati in primo luogo nello studio più approfondito di Hegel, nell’ammirazione sempre più incondizionata verso Leopardi e nella maturazione della sua poetica realista, che portò De Sanctis a celebrare la drammaturgia di Schiller, i cui personaggi gli sembravano ritratti «con quelle gradazioni, con quelle contraddizioni, con quel misto di bene e di male, di debole e di grande, che ne fa non tipi astratti ed assoluti, ma uomini vivi in mezzo alle credenze, a costumi, e alle passioni dei loro tempi» (Opere, cit., 4° vol., 1972, p. 236). Da questo punto di vista decisivi furono poi, nel periodo torinese e nei primi anni del soggiorno a Zurigo, gli studi sulla Commedia dantesca, alla quale De Sanctis avrebbe voluto dedicare un libro intero, mai portato a termine.
Gli scritti su Dante sono paralleli all’approfondimento del metodo critico, che ha sempre trovato le sue pronunzie nel lavoro applicato e concreto dello storico. Polemico tanto contro la scuola francese, che indugiava sull’aneddotica e sulla biografia esteriore del poeta, quanto verso il dantismo tedesco, che vanificava la poesia vedendoci una filosofia desunta dall’interpretazione intellettualistica degli astratti elementi allegorici, De Sanctis coglieva in Dante una forma che non era da intendersi come una veste rappresentativa di un’idea da essa distinta, ma la sintesi dialettica di ideale e reale, attuata esemplarmente nella poesia della Commedia, dove si vede «la vita umana guardata dall’altro mondo», in grado di conservare tutta l’«inesauribile ricchezza» di «sensazioni, sentimenti, aspetti nuovi» (Opere, cit., 5° vol., 1955, p. 542).
In Dante la forma vivente è l’idea che assume un corpo e diventa una cosa. Anche nell’aldilà non c’è un «tipo» o una categoria a priori, ma un individuo, un «uomo vivo» che «porta seco tutte le sue passioni d’uomo e di cittadino, e fa risonare di terreni fremiti fino le tranquille volte del cielo: così ritorna il dramma, e nell’eterno ricomparisce il tempo» (pp. 538-39). Nell’epopea del divino si sviluppa l’epopea umana, «la storia e la società, in tutta la sua vita interna ed esteriore, religiosa, morale, politica, civile, intellettuale» (p. 539).
Negli anni zurighesi, in un ambiente in cui si respirava la cultura europea e a stretto contatto con la poesia dantesca, De Sanctis mise a fuoco la sua critica alla filosofia di Hegel e con lui all’intero idealismo tedesco. Da sempre insofferente delle astrazioni e degli asserti universali – «sono stanco dell’assoluto, dell’ontologia e dell’a priori» (Opere, cit., 19° vol., 1965, p. 403), confidava nel 1857 all’amico Camillo De Meis (1817-1891) –, si rese conto che l’eccesso di intellettualismo impediva un’autentica ricezione della letteratura perché la forma non è una categoria metafisica ma va ricondotta alla sua storicità. Per quanto Hegel avesse conciliato l’ideale con il reale, nel suo sistema l’iniziativa spettava all’idea. Nel metodo e nella critica desanctisiana passa invece «alla “cosa”, alla storia e alla psicologia»; e per «cosa» De Sanctis intendeva l’espressione di «interessi collettivi o di forze reali e ideali che operano nella base della società» (Guglielmi 1976, pp. 17 e 57).
La lettura zurighese delle opere di Schopenhauer, oggetto di un famoso saggio in cui la sua filosofia è messa a confronto con il pensiero di Leopardi (Schopenhauer e Leopardi, 1858), gli fece riconoscere il primato della volontà sul razionalismo di Hegel. Ne derivò il rifiuto di una concezione «fondata sopra concetti generali, come assoluta sostanza, Dio, infinito, finito, identità assoluta, essere, essenza» (Opere, cit., 13° vol., 1961, p. 464). Chi persistesse nel confondere in questo modo la metafisica con la logica, si sottrarrebbe «al libero gioco delle passioni» in cui consiste il reale (F. Tessitore, La filosofia di De Sanctis, cit., pp. 262-63). Diventò allora il «punto capitale» della sua indagine il criterio ermeneutico della «situazione», con cui l’ideale rinunziava alla sua astratta purezza segregata dalla materia e veniva a calarsi nella storia e nei suoi vivi fermenti sociali, i soli contesti in cui le regole generali dell’estetica hanno la loro verità. Principio genetico delle forme, la «situazione» fu la base di partenza per considerare la «cosa» non in maniera isolata, ma vivente «nello spazio e nel tempo, che formano la sua atmosfera, pigliando modo e colore da questo o quel secolo, da questa o quella società» (Opere, cit., 1° vol., p. 158). Non si tratta però di una semplice condizione temporale, essendo piuttosto un orizzonte culturale che esorta «all’unità del disegno, all’ossatura e al congegno delle parti» (p. 165).
Con l’affermazione del primato delle cose sulle idee, del vivente sull’astrazione, e con la rivendicazione del particolare, De Sanctis non crede alla morte dell’arte, purché vi sia un affetto, un sentimento, una patria da cantare. Anziché estinguersi, la poesia si volge alla destinazione sociale dell’uomo e del cittadino, dimostrando semmai che è nata a nuova vita. Avverso a tutte le generalizzazioni e ai sistemi costruiti meccanicamente su un determinismo teleologico, De Sanctis ricordava con lo sguardo retrospettivo degli anni senili che «a tale generalità di regole e di modelli» egli aveva sostituito «la particolarità di un contenuto determinato dalle condizioni esterne e dalle facoltà del poeta» (p. 211). A questa conclusione era giunto attraverso una personale rielaborazione del concetto di forma, non già intesa come «qualcosa che stia da sé e diversa dal contenuto, quasi ornamento o veste, o apparenza, o aggiunto di esso; anzi essa è generata dal contenuto, attivo nella mente dell’artista: tal contenuto, tal forma» (Opere, cit., 7° vol., 1965, p. 305). Con siffatto atteggiamento, che si appellava al realismo quale «antidoto» alla dissociazione della parola dalla cosa, era venuto il momento per De Sanctis di ripensare con una sintesi unitaria all’intera storia della letteratura italiana per intendere le ragioni della sua decadenza e al tempo stesso per vedere se la parola potesse ancora riprendersi la sua consistenza e ristabilire il suo rapporto con la vita.
Fino almeno dagli anni zurighesi De Sanctis si era posto il problema di come scrivere una storia letteraria impostata in modo radicalmente nuovo rispetto ai tentativi dell’erudizione settecentesca, privi di un fuoco prospettico, ma l’impulso che si rivelò decisivo nel muoverlo a questa impresa fu la forte insoddisfazione suscitata dall’uscita delle Storie di Cesare Cantù (1865) e di Luigi Settembrini (1869-70), tutte e due tendenziose, per opposte ragioni. Nel suo nuovo lavoro poteva farsi forte dell’esperienza cumulata con i corsi di Napoli, Torino e Zurigo e dell’attenzione costantemente riservata all’insegnamento e all’educazione, maturata nella scuola, nell’università, negli articoli per i giornali, nelle conferenze e, più recente, nella veste di ministro della Pubblica istruzione. All’indomani dell’unità d’Italia, l’intento era quello di dotare gli studenti liceali di un manuale che, destinato alla nuova classe dirigente, raccontasse attraverso la sua storia letteraria il farsi della nazione italiana. Trovava così compimento l’auspicio formulato nel lontano 1847 dall’allievo Luigi La Vista (1826-1848) che si augurava, scrivendo a De Sanctis, una storia della letteratura italiana che fosse una storia d’Italia, fatta cioè ripercorrendo il moto delle sue vicende civili e politiche (L. La Vista, Memorie e scritti, a cura di P. Villari, 1863, p. 183).
A fondamento di ogni valutazione anche estetica non è il bello, come annotò in una postilla a un saggio su Petrarca, ma «il vivente, la vita nella sua integrità» (Opere, cit., 6° vol., 1952, p. 11). Interpretata con una sensibilità didattica straordinaria e con una prosa altamente drammatica, la letteratura non è soltanto lo specchio di un’identità comune ma anche il fattore che ha contribuito più di altri a formarla. La ricostruzione organica dello sviluppo della letteratura italiana segue una partitura dialettica che, pur sensibile alle differenze, alle distinzioni e al pluralismo, individua un continuo contrasto tra una tradizione negativa, da respingere perché espressione dell’antico regime assolutistico, e una tradizione positiva, da prendere a riferimento perché ricca di valori morali e civili, oltre che espressione del pensiero moderno.
A fronte di una poesia e di una prosa d’arte indifferenti ai contenuti perché limitate a un culto esclusivo della forma applicata a referenti il più delle volte futili, De Sanctis, erede degli ideali del Risorgimento, mette in continuo risalto la resistenza che a questo decadimento fu opposta da un manipolo di pochi «eroi» del pensiero filosofico, politico e scientifico. «Se in questa Italia arcadica», si ripropone De Sanctis, «vogliamo trovare uomini, che abbiano una coscienza, e perciò una vita, cioè a dire che abbiano fede, convinzioni, amore degli uomini e del bene, zelo della verità e del sapere, dobbiamo mirare là, in questi uomini nuovi di Bacone, in questi primi santi del mondo moderno, che portavano nel loro seno una nuova Italia e una nuova letteratura» (Opere, cit., 9° vol., 1958, p. 743). Si tratta insomma di trovare una linea di sviluppo nazionale formata da uomini che «spoltrivano gli animi oziosamente cullati ne’ romanzi e nelle oscenità letterarie» (p. 773).
Per quanto la produzione più numerosa appartenga di fatto alla lirica, alla novellistica, all’epica, al romanzo, tutti generi coltivati all’ombra delle signorie di ancien régime, la costruzione desanctisiana dell’Italia letteraria valorizza una galleria di filosofi e di scienziati considerati i veri padri della nazione. Non c’è dubbio che anche gli altri Paesi tengano nel debito conto la grandezza dei loro maggiori intellettuali. Solo in Italia però la tradizione delle storie letterarie, volendo essere lo specchio della sua identità nazionale, accoglie con generosità opere che propriamente non sono di poeti o letterati, ma di politologi come Niccolò Machiavelli, di filosofi come Giordano Bruno e Tommaso Campanella, di storiografi come Paolo Sarpi e Pietro Giannone, di antropologi come Vico, di scienziati come Galileo Galilei, quasi per riscattare con la nobiltà del loro pensiero le presunte inezie di un’Italia che nel frattempo, come scrisse De Sanctis, «si trastullava ne’ romanzi e nelle novelle» (p. 585). Su questa antitesi si fonda l’opposizione tra «poeta» e «artista», o, che è quasi lo stesso, tra «uomo» e «letterato».
In questa serrata dialettica gli aspetti linguistici e stilistici si perdono, e il loro posto è preso dalla «storia morale e politica d’Italia» (C. Dionisotti, Geografia e storia della letteratura italiana, 1967, p. 32). Lo spirito della nazione italiana si affaccia per tempo nella civiltà alacre e fiera dei Comuni, ma sorge viziato da un «peccato originale», quello di una letteratura cavalleresca che non era «nata e formata con la vita nazionale, ma venuta dal di fuori per via di traduzioni» (Opere, cit., 8° vol., p. 30).
In linea con gli interessi del Romanticismo per le tradizioni popolari, De Sanctis fa esordire la sua storia letteraria con Cielo d’Alcamo, ma ben presto la sofisticata scuola siciliana interrompe il rapporto «fra i letterati (cioè gli intellettuali) italiani e il popolo-nazione» (Mordenti 1995, pp. 609-10), con la poesia elitaria che scade a «sollazzo», a mera «galanteria». Anche con lo Stil novo, il cui padre fu il bolognese Guido Guinizzelli, educatosi all’ombra dell’università, si prolungò la tradizione culta e non popolare, visto che «la scienza fu madre della poesia italiana» (Opere, cit., 8° vol., p. 31). A riunire «le due letterature», quella dotta e quella popolare, fu Dante, con il quale «la scienza esce dal santuario e si fa popolo», attingendo a quelle tradizioni e a quelle «forme popolari rannodate intorno al mistero dell’anima» (p. 167). Il realismo della Commedia crea personaggi e figure che non hanno più il carattere astratto e soltanto ideale della poesia precedente. Dal confronto con la lirica amorosa dei trovatori risalta con prepotenza Francesca da Rimini, la cui passione dispiega una «ricca e vivace personalità» che induce il gusto romantico di De Sanctis a ritenerla «la prima donna del mondo moderno» (p. 217).
Dante non ebbe però continuatori, e ad affermarsi nei secoli successivi fu il modello poetico di Petrarca, che segnò un nuovo distacco dal reale, diventando il paradigma dell’intellettuale freddo e distaccato, fragile e irresoluto, nel quale, con una delle tante definizioni lapidarie di De Sanctis, «l’uomo svanisce nell’artista», incapace di vivere tragicamente il suo amore infelice, fermandosi al livello inferiore dell’elegia, espressione snervata di «un’anima debole e tenera che si effonde malinconicamente in dolci lamenti» (p. 310). La sua sola passione si manifesta nell’ardore con cui ricerca la perfezione formale, in modo che l’arte si sostituisce alla vita, senza dialogare e misurarsi con essa. Seguendo la trattazione di una logica evolutiva, Petrarca appare il maestro delle successive generazioni, risultando «in abbozzo l’immagine anticipata de’ secoli seguenti, di cui fu l’idolo» (p. 310). I caratteri di fondo della sua poetica sono ritrovati da De Sanctis nella produzione idillica di Angelo Poliziano e negli altri umanisti, e ancora nei letterati delle corti signorili del Rinascimento, la cui raffinata civiltà prepara l’asservimento secentesco alla dominazione straniera, con cui muore anche la cultura, che pure, per quanto vuota, era stata splendida nel secolo precedente. Ne sono esempi Torquato Tasso e Giambattista Marino, quest’ultimo dotato di «nessuna profondità e serietà di concetto e di sentimento, nessuna fede in un contenuto qualsiasi» (Opere, cit., 9° vol., p. 722). Nemmeno con la reazione antibarocca dell’Arcadia la situazione migliorò, e si arrivò ai melodrammi di Pietro Metastasio, con cui, per citare un’altra delle più memorabili sentenze, «la letteratura moriva, e nasceva la musica» (p. 735).
Lentamente e per gradi, il popolo italiano risorge nei due capitoli finali della Storia, intitolati rispettivamente alla Nuova scienza e alla Nuova letteratura, con la ripetizione dello stesso aggettivo che connota il distacco dal passato più vicino che, con Marino, rappresenta la fase più acuta della decadenza. Ciò che preme maggiormente a De Sanctis, nella sua continua comunicazione del presente con il passato e con il futuro, è di guardare avanti, di riannodare quel filo spezzato, di portare a compimento la dialettica che dopo un Medioevo dei Comuni in cui l’opera di Dante conservò nella poesia tutte le sue passioni di uomo e di cittadino, manifestazione vivente di ideale e reale, e dopo l’umiliante declino dell’età rinascimentale e barocca in cui la letteratura si era rifugiata in una parassitaria vita di corte, possa infine approdare, nella dinamica di tesi antitesi e sintesi, a una nuova cultura, quella che, sulla linea di Machiavelli, attraverso Bruno, Campanella e Sarpi, giunge a Galilei, Giannone e Vico, simboli del risveglio della vena speculativa. Sono questi i veri padri della nuova Italia, «gli astri maggiori», capaci di muovere «schiere di uomini liberi, animati dallo stesso spirito» (p. 797).
Come si vede, il disegno della Storia ha un andamento rigorosamente temporale, che si sviluppa secondo un processo evolutivo entro cui tutti gli elementi, anche i particolari minori, seguono nella letteratura il progredire e l’istituirsi della coscienza nazionale, che per De Sanctis voleva anche dire la formazione di una coscienza politica capace di dialogare con l’Europa moderna. «La letteratura», è la ferma convinzione con cui esordisce il capitolo sulla Nuova scienza, «non poteva risorgere che con la risurrezione della coscienza nazionale» (p. 739).
Benché sorretta da una poderosa architettura argomentativa e da un’efficace esposizione narrativa, che l’ha fatta assomigliare a un romanzo appassionante o a un dramma travolgente, la Storia non ha tuttavia un andamento rettilineo. La sua pur robusta unità compositiva, proiettata sull’epifania dello spirito che reinterpreta genialmente la Phänomenologie des Geistes (1807) di Hegel, vive di contrasti, di conflitti, di ritorni al passato, di spinte e controspinte, giocate sul filo delle antitesi. Dante si oppone a Petrarca come un tempio gotico a un tempietto greco (Opere, cit., 8° vol., pp. 309-10); Giovanni Boccaccio, a sua volta, è autore di una commedia umana che si oppone a quella divina di Dante, rispetto alla quale, se per un verso si libera del soprannaturale medievale, per un altro verso manca di ogni coinvolgimento etico, realizzando un tipo di comico che, dopo essersi perpetuato in Luigi Pulci, Teofilo Folengo, Pietro Aretino, solo con Giuseppe Parini tornerà a rivestirsi di senso morale. In Ariosto la terzina, che in Dante esprime il linguaggio eroico e tragico del Medioevo, diventa nel Rinascimento il linguaggio della commedia e della satira, con un décalage che rispecchia l’indifferenza morale del suo secolo, avendo riservato la serietà soltanto alle ragioni formali dell’arte.
La narrazione è tutt’altro che lineare, e la dialettica tra la tradizione negativa dell’arte preziosa ma vuota e quella positiva dotata di valori morali non risponde al meccanico e uniforme Zeitgeist hegeliano, perché proprio nel Cinquecento, macchiato dalla corruzione e dal servilismo dei letterati di corte, risalta l’opera di Machiavelli, l’uomo dal quale può nascere il «mondo nuovo». Pur essendo come Boccaccio un borghese incredulo e beffardo, l’autore del Principe non scade nel comico perché la sua attitudine politica al servizio della cosa pubblica lo mette in contatto diretto con la realtà storica e umana, abbandonando le chimere e i sogni. I valori della vita terrena sono riabilitati da una visione immanentistica e antimetafisica. Al meraviglioso che domina nella novella e nel poema cavalleresco succede una logica vivente dei fatti. Il confronto anche duro con il reale obbliga a un’analisi fredda e spregiudicata, ritrovando nell’indagine un’autentica dimensione scientifica e una prosa funzionale e stringente. La cultura non vive più distaccata in un universo di contemplazione e di giochi intellettuali, ma diventa strumento di comprensione e di ordinamento della società, proprio mentre il contemporaneo Francesco Guicciardini, in un altro confronto radicalmente oppositivo istituito da De Sanctis, che ne fa il simbolo della fiacchezza morale e dell’opportunismo, coltiva l’individualismo e il particolare. E se Guicciardini, catafratto nel suo egoismo, «è un bel quadro, finito e chiuso in sé», con Machiavelli compare nella letteratura italiana il mondo moderno, e se l’Accademia della Crusca con il suo atteggiamento regolistico e le sue discriminazioni lessicali fu «il Concilio di Trento della nostra lingua», Machiavelli fu per l’Italia «il suo Lutero» (p. 486) che aprì al futuro, «un punto di partenza nella storia, destinato a svilupparsi» (Opere, cit., 9° vol., p. 619).
Il ruolo centrale di Machiavelli è confermato dal fatto che il capitolo in cui se ne tratta è il primo a essere intitolato a una singola personalità. Prima i riferimenti avevano riguardato delle coordinate geografiche (i siciliani, i toscani) oppure un periodo, preso nel suo insieme (il Trecento, la fine del Trecento, il Cinquecento), o ancora dei generi letterari (la lirica, la prosa, gli scritti di carattere religioso) o delle opere (la Commedia dantesca, il canzoniere petrarchesco, il Decameron, le Stanze di Poliziano, l’Orlando furioso, la «Maccaronea» di Folengo). Con Machiavelli comincia la serie di autori che nella loro individualità, come poi Ariosto e Aretino, impersonano figure reali e insieme simboliche o, secondo l’espressione di De Sanctis, delle «forme dello spirito italiano» (p. 646). Ognuno stabilisce un contatto o un contrasto con gli altri, e si finisce quindi per avere tutt’altro che una serie di medaglioni isolati. Nella disamina della Storia, come Machiavelli è la razionalità della scienza, così Ariosto è l’immaginazione e Aretino la dissoluzione morale, la perdita della «coscienza», un concetto chiave nella costruzione desanctisiana, in quanto significa «la consapevolezza, […] la razionalità responsabile che misura i fenomeni» (Raimondi 1998, p. 10). Ciascuno di loro, «ingrandito e condensato», stabilisce intorno a sé un tessuto di relazioni, per cui con Ariosto si schierano tutti i novellieri, romanzieri e comici che con l’immaginazione non prendono la vita sul serio; intorno a Machiavelli si stringono coloro che, storici, statisti e pensatori, «cercano la redenzione della scienza», mentre attorno all’Aretino, cinico nella sua totale indifferenza morale, si muove «tutto il mondo plebeo de’ letterati, istrioni, buffoni, cortigiani speculatori, e mestieranti» (Opere, cit., 9° vol., p. 646).
Tra un autore e l’altro, tra un’opera e l’altra, intercorre dunque un dialogo che rimanda sempre ad altro, creando a ogni pagina un senso dinamico di attesa e di integrazione intorno ai problemi di fondo, quelli che riguardano la letteratura, la coscienza, il reale e la vita. Ogni universo poetico è integrato da quello successivo: Dante si completa in Machiavelli, Machiavelli, scienziato dell’uomo, prepara Galilei, scienziato della natura, Carlo Goldoni, a sua volta, è il «Galileo della nuova letteratura» (p. 896), Tasso, per accontentarsi di un ultimo esempio tra i tanti, anticipa con lo spirito religioso della Gerusalemme liberata quel mondo che «rimpolpato e colorito e animato di vita interiore si chiamerà un giorno I Promessi Sposi» (p. 673). Tutto confluisce negli ultimi due capitoli, sulla nuova scienza e la nuova letteratura, con quel forte senso dell’attualità che al momento di scrivere il capitolo su Machiavelli costringe De Sanctis a interrompere la trattazione per immettere nel testo la notizia di cronaca delle campane che a Firenze sente suonare a distesa per annunziare l’entrata degli italiani a Roma, attraverso la breccia di Porta Pia (p. 607).
Questo sorprendente coup de théâtre è tutt’altro che gratuito, dal momento che De Sanctis si può considerare un critico militante che tende a risolvere l’intero corso della letteratura nel presente. Naturale quindi che vi risuoni «l’eco della vita contemporanea universale e nazionale» (p. 973).
Punti d’arrivo della Storia sono i due massimi scrittori del tempo, Manzoni e Leopardi, l’uno considerato l’espressione più alta della tradizione cattolico-liberale, l’altro il poeta più moderno per la sua critica radicale del passato. Nell’ultimo capitolo sulla nuova letteratura, giudicato «selvoso» da Gianfranco Contini (1968, p. 503) in quanto costituisce una rassegna molto compressa, manca il respiro necessario per trattarne distesamente. Con Manzoni e Leopardi si viene solo prefigurando «una nuova fermentazione d’idee»: sono indizi che attendono il loro compimento. L’Italia è in cammino verso la modernità, ma la coscienza identitaria è ancora in parte da conquistare. La ricerca appassionata di De Sanctis non vede realizzati i valori necessari per costituire una vera nazione. La Storia, arrivata alla pagina finale, non potendo consegnare ai lettori un bilancio del tutto positivo, deve guardare al futuro con una formula ottativa. Forse per questo le analisi più distese sugli autori che più davano speranze sono lasciate fuori, per le lezioni e i saggi degli anni Settanta.
Divenuto professore all’Università di Napoli all’indomani dell’uscita della Storia della letteratura italiana, De Sanctis tenne tra gli anni accademici 1871-72 e 1875-76 corsi su Manzoni, la scuola cattolico-liberale, Giuseppe Mazzini e la scuola democratica, Leopardi. Di Manzoni seguì il processo che dalle tragedie, dove l’ideale era trasferito in un altro mondo, con l’effetto dell’alienazione religiosa, culmina nei Promessi sposi, l’opera nella quale la religione compenetra l’ideale nel reale con la mistione manzoniana dell’invenzione e della storia, dopo che già negli Inni sacri si era spogliata del rigore del dogma in quanto la materia soprannaturale della Bibbia era fatta rivivere con gli occhi del popolo e quindi con il realismo della verità storica. Disceso «dalle cime più alte del più astratto ascetismo», che ancora predominava nella tragedia di Adelchi, il romanzo, trascurato nella Storia della letteratura italiana a vantaggio degli Inni sacri e del Cinque maggio, assurge nelle lezioni posteriori a «pietra miliare della nostra nuova storia» (Opere, cit., 10° vol., 1955, p. 79). Mentre in precedenza il romanzo era stato valutato da una prospettiva soprattutto etico-psicologica, adesso, visto dall’ottica del realismo e nel confronto oppositivo con le tragedie di Alfieri, appare calato pienamente «nell’esercizio della vita» (p. 27), non più esiliato dalla storia, che anzi risulta «vera causa generatrice, il fondamento e il motivo occulto che mette in moto gl’inconsapevoli attori» (p. 55).
A fare da pendant a Manzoni nell’ultimo De Sanctis è Leopardi. A prima vista nessuno potrebbe essere più alieno di lui da una poetica del realismo. Lo stesso critico ne sottolinea la predisposizione lirica a ripiegarsi in se stesso, a nutrirsi della propria soggettività con una lucidità razionale che lo distoglie da ciò che lo attornia. In effetti è questo solipsismo che emergerebbe nelle Operette morali, prive di quella prosa popolare e comunicativa che contraddistingue I promessi sposi. Il senso di freddezza parrebbe quasi inevitabile, in un’età in cui «la scienza si è infiltrata nella poesia, né la si può discacciare, perché ciò risponde alle presenti condizioni dello spirito umano» (Opere, cit., 13° vol., p. 400). Eppure, nei Canti, specialmente nelle ultime canzoni, De Sanctis rinviene nella desolata filosofia leopardiana un sentimento che estende la storia particolare a una dimensione universale. Il suo discorso lirico diventa antropologia e carattere di una morale integralmente umanistica. Nondimeno, nascendo dalla storia personale di Leopardi, la sua filosofia che riflette sull’infelicità degli uomini diventa poesia. A De Sanctis, che ha sempre amato l’attivismo, facendo di Machiavelli il modello dell’intellettuale realizzato nella vita pratica, piace in Leopardi la positiva dialettica tra cuore e ragione che lo porta a ribellarsi all’idea della vanità e all’illusorietà della vita, a cui pure approda la sua filosofia. La modernità risiede proprio in questa contraddizione, riassunta come al solito da formule epigrafiche:
ci è tutta la vita. La ragione non può uccidere il sentimento, e il sentimento non può cacciare la ragione. L’entusiasmo è pregno di scetticismo e lo scetticismo ha in sé il calore dell’entusiasmo (p. 147).
Pertanto Leopardi non è affatto poeta del nulla, perché non ne gusta la voluttà ma al contrario «ama e pregia e desidera la vita […] ed è perciò non solo poeta, ma uomo» (p. 148). Non sorprende che per chi come De Sanctis fece del realismo e dell’«uomo intero» un valore estetico, Leopardi sia stato, come si legge nelle sue memorie, un «beniamino» (Opere, cit., 1° vol., p. 185). Né può sorprendere che alla fine della vita si sia confrontato con il positivismo e il naturalismo di Émile Zola, non già per condividerli, perché ne intese subito la natura monistica e contraria alla sua dialettica di ideale e reale, ma perché la vocazione militante lo sospingeva a interrogare ogni segno del moderno. La scienza è un prodotto del presente, ma la sua formazione idealistica gli dice che da sola non basta. Essa «può dare un nuovo contenuto, quando trova materia che lo riceva; altrimenti è un sole, che irradia nel vuoto senza poter formare attorno a sé il suo sistema» (Opere, cit., 15° vol., 1960, p. 325). Per essere «produzione attiva» è come ogni altra cosa «impregnata di tutti gli elementi e le forze e gli interessi della vita» (p. 331). All’indomani della vittoria tedesca di Sedan (1870), a vincere quella battaglia epocale non fu la scienza, ma l’integrità delle forze sociali che resero forte la Germania. Anche di fronte alla scienza, l’umanesimo di De Sanctis non poteva abdicare ai suoi principi civili e morali.
Le Opere di Francesco De Sanctis, da cui qui si sono tratte tutte le citazioni, sono state pubblicate in 22 volumi, più uno fuori collana e uno di Appendici e indici, a cura di C. Muscetta, Torino 1951-1993, secondo la seguente suddivisione:
1° vol.: La giovinezza, a cura di G. Savarese, 1961, 19722.
2° e 3° vol.: Purismo, Illuminismo, storicismo, a cura di A. Marinari, 1975.
4° vol.: La crisi del romanticismo, a cura di M.T. Lanza, 1972.
5° vol.: Lezioni e saggi su Dante, a cura di S. Romagnoli, 1955, 19672.
6° vol.: Saggio critico sul Petrarca, a cura di N. Gallo, 1952, 19832.
7° vol.: Verso il realismo, a cura di N. Borsellino, 1965.
8° e 9° vol.: Storia della letteratura italiana, a cura di N. Gallo, 1958, 19906.
10° vol.: Manzoni, a cura di C. Muscetta, D. Puccini, 1955, 19832.
11° vol.: La scuola cattolico-liberale e il romanticismo a Napoli, a cura di C. Muscetta, G. Candeloro, 1953, 19722.
12° vol.: Mazzini e la scuola democratica, a cura di C. Muscetta, G. Candeloro, 1951, 19612.
13° vol.: Leopardi, a cura di C. Muscetta, A. Perna, 1961, 19832.
14° vol.: L’arte, la scienza e la vita, a cura di M.T. Lanza, 1972.
15° vol.: Il Mezzogiorno e lo Stato unitario, a cura di F. Ferri, 1960.
16° vol.: I partiti e l’educazione della nuova Italia, a cura di N. Cortese, 1970.
17° vol.: Un viaggio elettorale, a cura di N. Cortese, 1968.
18° vol.: Epistolario 1836-1856, a cura di G. Ferretti, M. Mazzocchi Alemanni, 1956.
19° vol.: Epistolario 1856-1858, a cura di G. Ferretti, M. Mazzocchi Alemanni, 1965.
20° vol.: Epistolario 1859-1860, a cura di G. Talamo, 1965.
21° vol.: Epistolario 1861-1862, a cura di G. Talamo, 1969.
22° vol.: Epistolario 1863-1869, a cura di A. Marinari, G. Paoloni, G. Talamo, 1993.
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De Sanctis e il realismo, Atti del Convegno internazionale di studi, Napoli 1977, a cura di G. Cuomo, 2 voll., Napoli 1978.
Francesco De Sanctis nella storia della cultura, a cura di C. Muscetta, 2 voll., Roma-Bari 1984.
Francesco De Sanctis: un secolo dopo, Atti del Convegno internazionale di studi, Napoli, Firenze e Roma 1984, a cura di A. Marinari, 2 voll., Roma-Bari 1985.
Per Francesco De Sanctis nel centenario della morte, Atti del Convegno di studi, Zurigo 1984, Bellinzona 1985.
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