DELLA TORRE, Francesco
Nacque nel 1519 da Giovanni Febo detto il Giovane (1462-1547) - a sua volta figlio di quel Febo il Giovane più volte capitano di Gorizia al quale il conte di questa, Giovanni, aliena, nel 1460, per 1.000 fiorini d'oro, il castello di Vipulzano (F. Di Manzano, Annali del Friuli..., VII,Udine 1879, p. 66) - e da Orsina di Leonardo Orzone.
A scanso d'equivoci, altrimenti permanenti, e di confusioni, altrimenti fuorvianti, il D. va subito distinto dal coevo conte di Valsassina Francesco Della Torre di Guido o Veit (questi combatté contro Venezia, venendo fatto prigioniero a Pordenone nel 1514;attorno al 1523-24 è rappresentante arciducale presso la Serenissima e commissario, per l'Impero, alle restituzioni concordate da Worms), il quale acquista, nel 1547,la giurisdizione, rimasta vacante di Villesse e, a metà del Cinquecento, capitano di Gorizia e quindi si trasferisce in Boemia acquistando la signoria di Deutschlrod e in Moravia quella di Wastiz, morendo nel 1586;suo figlio di primo letto, il Giorgio capitano di Tolmino e poi di Gorizia, mentre suo figlio di secondo letto è quell'Enrico Mattia (1567-1640) che capeggerà la ribellione antiasburgica della nobiltà boema e che passerà, con sdegno di Vienna, al servizio della Serenissima (H. von Zwiedineck-Südenhorst, Graf HeinrichMatthias von Thurnin Diensterichte der Republik..., in Arch. für Gesch. Österr., LXVI [1884], pp. 257-76).
Il padre del D., già al servizio dell'ultimo conte di Gorizia Leonardo che lo nomina prefetto di Belgrado in Friuli e quindi amministratore della contea, è quel "Zuan Febus" Della Torre che, con altri sei nobili goriziani, il 9 maggio 1508giura "fidelità" alla Serenissima e stabilisce i relativi "pati cum lo senato", come riferisce un cronista udinese (G. e L. Amaseo e G. A. Azio, in Diarii udinesi...,a cura di A. Ceruti, Venezia 1884, p. 42),è, quindi, uno dei sette "oratori" di Gorizia presentatisi, come precisa Sanuto, in Collegio "far reverentia" al doge, "volendo esser boni subditi e vasalli" (Diarii, VII,col. 456).Una sottomissione di corta durata ché, aggredita Venezia, Giovanni Febo, cui per ritorsione viene incendiato il castello di Vipulzano, si schiera dalla parte di Massimiliano d'Asburgo. Antiveneziani pure i due figli natigli dalla prima moglie Paola di Pagano Savorgnan; ché Chiara (la quale muore nel 1546), sposa al capitano di Duino Giovanni Hofer, non solo condivide l'avversione del marito per la Repubblica, ma, rimasta vedova, la trasmette al figlio, pur egli capitano di Duino, Mattia; e Lodovico (1492-1516) combatte contro la Serenissima rimanendo ferito, il 22 ott. 1516, in uno scontro presso Budrio o Buri, gravemente alla testa. Consegnato allo zio materno Girolamo Savorgnan (che, al contrario del cognato, è invece fautore della Repubblica), questi lo fa medicare "con ogni diligentia"; invano, ché il giovane "di lì a pochi dì morite" (Diariiudinesi, p. 249).
Quanto ai due figli di secondo letto di Giovanni Febo, mentre Febo, che muore nel 1568, diventa canonico d'Aquileia e sarà sfortunato aspirante al titolo di abate commendatario dell'abbazia di Moggio (cui rinuncia, trattenendo, però, la relativa pensione), il D., col corredo d'una buona cultura letteraria e con una spruzzatura di nozioni giuridiche, tenta la carriera politica, distinguendosi - come appare anche da una valutazione positiva del medico e storico di Ferdinando, Wolfgang Lazius - negli ambienti di corte. E vi acquista una certa autorità come si può desumere dal fatto che a lui si rivolge dal carcere con ben ventitré lettere, scritte tra il 7 marzo 1549 eil 19 luglio 1550, il nipote Mattia Hofer imputato d'omicidio e angosciato per l'andamento non favorevole del processo. E certo si deve alle sue pressioni, oltre che all'abile difesa del giurista friulano Cornelio Frangipane e alle insistenze dello stesso Carlo V, se Ferdinando alfine accondiscese al perdono.
Consigliere di corte, barone dell'Impero, consigliere, nel 1550-56, di reggenza dell'Austria Inferiore, il D., il 5 ag. 1557 viene designato ambasciatore cesareo presso la Serenissima.
Una nomina che lo trova riluttante, cui, cedendo alle continue insistenze, acconsente solo il 25 apr. 1558. Erede del lontano parente Niccolò Della Torre, il capitano di Gradisca scomparso nel maggio del 1557, il D. reagisce con disappunto al conferimento del reggimento gradiscano a Giovanni de Hoyos, così risarcito del forzato allontanamento dal capitanato di Trieste. Da un lato quest'ultimo pretende "il governo libero", dall'altro il D., che, in virtù dell'eredità, accompagna prerogative di "iurisdiction", lo contrasta opponendosi a quanto ritiene "pregiudichi le sue ragioni". Donde, come informa il rappresentante veneto a Vienna Leonardo Mocenigo nelle sue lettere del 6 maggio, 10 e 22 giugno 1558, la "causa" tra i due, "espedita" a favore del D. e la successiva soluzione compromissoria, per cui ad Hoyos viene garantita la carica "nel mondo" del predecessore, mentre il D., grazie ad "altra ricompensa più utile", non fa valere, pel momento, i suoi riconosciuti diritti ereditari.
Sgombrato il campo da siffatte "cause sue particolari", il D. si porta finalmente a Venezia, subito sperimentandovi come "ordinario stile" del Senato sia quello "di trarre tutte le cose a lungo e di dimandare sempre quello che è di suo vantaggio et utile". Breve, comunque, la permanenza lagunare iniziata nel maggio del 1558, ché Ferdinando - in previsione della prossima fine del malandatissimo Paolo IV, il papa ostinatamente restio a riconoscere la legittimità del suo titolo imperiale - gli giunge, il 10 luglio 1559, "mox rebus omnibus relictis, maximis quam poteris itineribus diesque noctesque terra marive", di recarsi a Roma, facendogli successivamente pervenire le relative credenziali ed istruzioni datate 15 luglio.
Non appena informato della morte del pontefice, il D., la notte del 21agosto, s'imbarca e giunge a destinazione il 28, mentre fervono i preparativi del conclave che inizia il 5 settembre. Delicata la sua posizione d'"orator" straordinario di Ferdinando, che non ha, presso la S. Sede, "ordinarium oratorem" e che, nel contempo, vuole - ad affermazione della pienezza della sua successione imperiale, pur da Roma discussa e contestata - che egli s'imponga con tutto quel prestigio atto "ad sustinendam et tutendam existimationem nostram caesaream", ottenga la precedenza nelle occasioni ufficiali, abbia, da parte del Collegio cardinalizio, i riguardi spettanti al rappresentante, a pieno titolo, appunto, della maestà imperiale. Suo compito, durante il conclave, nel quale, scrive il D. il 3 novembre, "duae principales sunt factiones", una che "Mantuano", il cardinale Ercole Gonzaga cioè, "favet", l'altra che "autem Carrafium Farnesiumque sequitur", sollecitare, in sintonia coll'ambasciatore spagnolo Francisco de Vargas, nel mero interesse della Cristianità, una rapida conclusione. Per suo tramite, infatti, pur riserbandosi il diritto d'esclusiva, ma non accampando - assai più guardingo, in questo, del nipote Filippo II - quello di nomina o d'inclusione, Ferdinando s'accontenta d'auspicare - e sta naturalmente al D. valorizzare tanta moderazione nel rinunciare a "praescribere" o "digito ostendere" un'esplicita preferenza (ma, a dire il vero, anche dietro suggerimento del D., il 14 ottobre Ferdinando aveva raccomandato ai cardinali Cristoforo Madruzzo, Otto Truchsess von Waldburg e Giovanni Girolamo Morone d'appoggiare il Gonzaga) - l'elezione d'una personalità dalla vita integra, dalla buona preparazione teologica e dotata, insieme, d'equilibrio e di senso dell'opportunità. Ci sia, insomma, una scelta ponderata, responsabile. All'uopo il D. provvede a sensibilizzare i conclavisti, fa loro intendere che "tam immensum onus" - il papato - non va affidato "cuipiam ... qui sit in sacra scriptura et eius doctrina rudis et imperitus". Ed è implicito che la preferenza non va accordata ad elemento affetto da diffidenza verso l'imperatore.
Svanite, nel frattempo, le speranze del cardinale Alfonso Carafa, viene eletto, il 25 dicembre, col nome di Pio IV, non senza soddisfazione di Vienna, il cardinale Gian Angelo de' Medici, cui il D., il 26, "inalbescente coelo ... conclave ingressus", prima del trasferimento a S. Pietro, bacia i piedi e manifesta "summam laetitiam" di Ferdinando verso il quale, come appura nell'udienza privata del 28, il neopontefice è "in ... bona opinione". Ed è, in effetti, gratificante per Ferdinando il decreto (originario, di per se, da una lite di precedenza tra il senatore dell'Urbe e il rappresentante spagnolo), del 6 genn. 1560, stabilente che "tantummodo" l'oratore cesareo "senatori precedere debet". In merito al riconoscimento del titolo imperiale da parte di Pio IV, che sin dal 30 dic. 1559 aveva manifestato al D. la sua disponibilità, essa resta, però condizionata: Ferdinando deve scusarsi della provvisione dei vescovadi inglesi, del patto di Passavia, di varie delibere-dietali; deve assicurare il massimo impegno pel recupero di Clissa; deve garantire il rientro nella più completa ortodossia del figlio Massimiliano.
Arduo per il D., cui, nel gennaio del 1560, il cardinale Ottaviano Reverta fa avere il sommario di "quae per defunctum pontificem" al non riconosciuto imperatore "obiecta fuerant", fugare vischiose diffidenze, estese perplessità e smussare i rigori, cui non è estranea la diplomazia spagnola, d'una intransigenza presente in tanti cardinali indignati, più o meno sinceramente, per le concessioni - riguardo al calice e al matrimonio dei preti - cui Ferdinando è stato costretto. Rigidissimo soprattutto il vescovo d'Augusta, il cardinale von Waldburg, gli fa avere una confessio di totale ripulsa e poi una seconda ove proclama roboante l'intenzione - se ci saranno ammorbidimenti e compromessi - d'andare a morire a Gerusalemme. Ciò non toglie che il D. riesca ad ottenere l'agognata conferma dal papa, sì che Prospero d'Arco, il 26 giugno, possa, senza preoccupazione esibire le sue credenziali d'ambasciatore ordinario dell'Impero, mentre il D., che il 3 giugno comunica a Vienna la proclamazione della riapertura del concilio tridentino, data via via per sempre più probabile nei suoi antecedenti dispacci, lascia, il 10 luglio, Roma con una punta d'amarezza ché il papa rilutta a concedere al fratello Febo la commenda dell'abbazia benedettina di Moggio già del cardinal Carafa. E in effetti - malgrado il D., il 14 settembre, si rivolga all'imperatore perché appoggi l'aspirazione del fratello - ne diverrà abate commendatario il nipote del papa cardinale Borromeo; al che il D., il 25 luglio 1561, protesterà vibratamente ottenendo per Febo il compenso surrogatorio d'una pensione di 500 ducati.
Non immediato, ultimata la missione romana, il reinsediamento a Venezia: dapprima si trattiene in Toscana, forse per verificarvi la situazione di Siena, quindi, nell'ottobre del 1560, risulta di passaggio a Vipulzano, ove ha fatto ricostruire il castello, e nel dicembre è a Vienna.
Di nuovo, a partire - al più tardi - dal marzo del 1561, a Venezia, il D. da un lato esagera la validità delle disposizioni imperiali contro gli Uscocchi, dall'altro minimizza le piratesche azioni di costoro e le giustifica come reazioni a presunte provocazioni turche; e, in ogni caso, protesta per ogni ritorsione veneziana in terra arciducale. Indebita, a suo avviso, la dogana veneta di Monfalcone, paralizzante le merci dirette da Gorizia a Duino. E, insofferente della giurisdizione adriatica e vagheggiante in cuor suo un avvenire di libera navigazione, intuisce la potenzialità portuale dell'allora modestissima Trieste. Spinosa la "materia di confini", incentivo ad una miriade di vicendevoli dispetti, intralci, violenze specie tra il conte veneziano di Grado e il capitano di Gorizia Iacopo de Attimis: quest'ultimo distrugge "pantiere" e "casoni", quello si rifà sui sudditi arciducali.
E il D., nell'agosto del 1563, è, appunto, col luogotenente di Gorizia Vito Dorimberg, delegato alla restituzione di quanto distrutto in concomitanza colla revoca degli editti contro sudditi austriaci.
La situazione confinaria, riconosce il D. il 27 apr. 1565 nel chiedere venga revocato un bando del provveditore di Cividale, è tale da alimentare continuamente le controversie, specie laddove. "li confini erano così intricati" che quasi "intravano l'uno nell'altro". Ma decisa è la sua opposizione alla permuta ventilata dalla Serenissima, grosso modo proponente lo scambio tra i possessi veneti a sinistra dell'Isonzo (anzitutto Monfalcone) e le terre arciducali (quindi anche la sua amata Gradisca) a destra di questo. Il D. subodora, dietro l'apparente razionalizzazione volta ad eliminare il contenzioso, la malizia di chi, con poca spesa, ambisce ad incamerare una settantina di villaggi e giurisdizioni e soprattutto ad insediarsi in quella fortezza gradiscana che, grazie ai lavori voluti da Niccolò Della Torre, è divenuta un temibile baluardo. E addirittura sdegnata è la sua ripulsa dell'ipotesi, avanzata col pretesto della minaccia turca e col sottinteso che le forze austriache (per fornire alle quali ingegneri, esperti d'artiglieria, professionisti delle armi il D. si prodiga, arruolando soprattutto effettivi destinati all'Ungheria) non sono in grado di contrastarla colla stessa efficacia e tempestivita della Serenissima, di vender a Venezia Fiume, Segna, Trieste e Gradisca. L'Austria - s'insegna d'argomentare un patrizio veneto che sonda in proposito il D. - potrebbe così godere d'un saldo antemurale marittimo, l'Impero non dovrebbe più temere, da questo lato, gli assalti della Porta. Il D., senza ribattere, lascia che l'interlocutore - ignaro che la Dieta ha concesso i sussidi richiesti, ignaro che il D. sa falsa la notizia d'un attacco turco a Segna per poi penetrare ulteriormente nei domini arciducali - si diffonda, si scopra sempre più. Quindi s'affretta a scrivere, il 5 e il 14 maggio 1566, del colloquio a Massimiliano II, il quale gli risponde il 24 lodando la dissimulazione dettata dall'intento di cogliere i più segreti "consilium et institutum" della Repubblica e autorizzandolo, nel contempo, a ricacciare sul nascere l'affiorare di siffatte brame "ne homines isti in spem aliquam erigantur".
In merito ad Aquileia, il D., ancora nel 1559, erede d'un atteggiamento già di Niccolò Della Torre, s'oppone alla volontà del capitolo di procedere al rinnovo d'alcune affittanze gradiscane e pretende una sorta d'inamovibilità dei coloni della zona; si giunge, comunque, al compromesso, per cui il capitolo, in quanto proprietario, può sì licenziare, purché motivatamente, e purché ricorra, nel nuovo affitto, a sudditi arciducali. Sempre vigile il D., attento ad ogni spiraglio favorevole al consolidamento della presenza austriaca.
Quando, incautamente, il patriarca aquileiese si lamenta, nel 1565, con lui del mancato cardinalato varie volte promessogli - gli è stato preferito, nell'elezione del 7 settembre, il nunzio apostolico a Vienna Zaccaria Dolfin (del che il D., il quale ne aveva scritto favorevolmente da Roma il 1º luglio 1560 come di "servitore sviscerato" dell'imperatore, non può che rallegrarsi) - il D. si premura di suggerire a Massimiliano d'afferrare l'occasione della caduta in disgrazia di Giovanni Grimani, il patriarca appunto, per non riconoscerlo più per tale e per puntare - schivando la successione dell'eletto Daniele Barbaro - alla nomina d'una figura di suo totale gradimento. Un suggerimento che l'imperatore fa proprio incaricando il proprio rappresentante a Roma Prospero d'Arco di tastarvi il terreno in questa direzione. Nel contempo il D., il 24 ottobre, scrive all'arciduca Carlo di Stiria d'adoperarsi, nella prossima Dieta imperiale, perché il patriarca d'Aquileia sia considerato membro dell'Impero, sì da togliere, così, alla Repubblica ogni spazio di intervento nelle successive elezioni e da eliminare la possibilità di condizionamento e controllo. Ma la proposta - nella appurata certezza d'un diniego romano" - viene lasciata cadere. Altro suggerimento del D. in merito ad Aquileia è quello, fatto all'arciduca Carlo vagheggiante, nel 1565, lavori di bonifica in quel territorio, di ricorrere, per incrementare la popolazione, agli ebrei, specie a quelli provenienti dai domini veneti.
Sempre durante la rappresentanza veneziana il D. è, altresì, coinvolto nella questione del calice che sta turbando il settore orientale dell'Impero: contemporaneamente all'arcivescovo di Praga Antorio Bruss von Müglitz verificante le tesi degli ambienti utraquisti, egli sottopone una sorta di questionario agli antistes della nutrita comunità greca lagunare ottenendo una puntuale risposta redatta, in greco e in italiano, dal prete Zaccaria. Ed il testo - la traduzione latina dell'originale greco - fornito dal D. il 3 giugno 1564 concorre, con quello inviato dall'arcivescovo praghese, alla stesura, da parte del vescovo di Vienna e Gurk Urban Pfaffstetter, del 14 giugno, del Modus administrandi communionem sub utraque specie.
Ancora nel 1564 l'arciduca Ferdinando gli scrive, il 30 maggio, da Praga riguardo ai "5 quaderni" del Vangelo di S. Marco "di mano propria di S. Marco" (naturalmente non si tratta dell'autografo, ma d'una copia latina su pergamena, del V o VI sec., eseguita sulla correzione gerolimina, l'ultima parte della quale era finita nella cattedrale di Praga, mentre la parte antecedente veniva successivamente collocata nel santuario della basilica marciana; si veda sulle vicende di questo codice, a suo tempo della metropolitana d'Aquileia, R. Gallo, Il tesoro di S. Marco..., Venezia-Roma 1967, pp. 204 ss.) chiedendogli poi - dopo che il D., coll'aiuto d'un procuratore di S. Marco", li ha identificati col "libro ... in carta bergamena, ... talmente consumato dal tempo" da essere illeggibile - d'ottenerli in dono "per special amicitia, honore e compiacenza". Un desiderio, obietta il D., "impossibile". L'arciduca, perciò, deve accontentarsi della "copia e disegno d'un foglio del libro di S. Marco", riprodotto in "grandezza" originale e "imitato al più...possibile" nel "color della scrittura", che il D. - agevolato, in via eccezionale, dal procuratore di S. Marco "che ha in custodia i quaterni" - gli spedisce il 28 ottobre.
Nel luglio del 1566 (anno in cui acquista Sagrado dagli Strassoldo) il D. interviene ad una riunione di giureconsulti patavini consultati a proposito dell'acutissima frizione tra Casale e il duca di Mantova Guglielmo Gonzaga (in questa il Collegio dei giuristi di Padova pare avere una funzione di valutazione e giudizio; tant'è che, il 3 ag. 1565, aveva citato il duca; R. Quazza, Emanuele Filiberto ... e Guglielmo Gonzaga..., in Atti e mem. della R. Acc. Virgiliana...,n.s., XXI [1929], p. 49) poco riguardoso con le autonomie cittadine. Il 30 il D., in un allarmato intervento in Collegio, richiama l'attenzione della Repubblica sulle norme dell'armata turca. Il 3 agosto il segretario del D. Alfonso Soldanerio si reca, al suo posto, in Collegio e ne scusa l'assenza, ché "aggravato nel letto con un poco di febbre". Ma questa - informa il Collegio, il 10, Soldanerio - si fa poi violentissima, mentre i medici non riescono a debellarla. Si che il D., l'11 ag. 1566, muore a Venezia avendo poi sepoltura all'esterno della chiesa goriziana di S. Francesco.
Già omaggiato in versi latini dal comasco Publio Francesco Spinola, il D. viene celebrato come "summa charitate, religione ac pietate insignis", ché ha sempre operato, "iuste" e "sancte", nell'orazione funebre pronunciata dal pubblico lettore di lettere latine e gia membro della soppressa Accademia della Fama Bernardino Regazzola detto Feliciano.
Sposatosi, attorno al 1550, con Laura (che muore nel giugno del 1566), figlia del conte Paolo d'Arco (cugina quindi di Prospero e Scipione figli del fratello del padre Niccolò), ne aveva avuto un figlio, Raimondo, e cinque figlie: Eleonora sposa al capitano della Croazia Giorgio Lenković; Caterina accasatasi con Arcoloniano Arcoloniani; Orsina maritatasi con Sigismondo Della Torre (figlio di Girolamo di Luigi del ramo udinese della famiglia, è il luogotenente della contea di Gorizia che muore nel 1606 dopo essere stato inviato dall'arciduca Ferdinando al papa), il quale, dopo la sua morte prematura, si risposa con Margherita Lenković; Emilia monaca nel convento viennese di S. Giacomo; Maria sposa al luogotenente generale della Croazia e Schiavonia Giuseppe Lenković.
Fonti e Bibl.: Vienna Oesterreichisches Staatsarchiv, Staatskanzlei, Venedig, fasc. 5-9; Arch. di Stato di Venezia, Collegio. Esposizioni principi, filza 1, alle date 22 marzo 1561, 27 apr., 5 giugno e 16 ott. 1565, 13 maggio, 30 luglio e 3 ag. 1566; copia delle lett. relative al presunto autografo di S. Marco in Venezia, Bibl. del Civico Museo Correr, Mss. P.D.,C,115, I, cc. 15r-17v; dedicata al D. la silloge di Carmina ... in obitum … del parente Niccolò Della Torre, a cura di G. Cavalli, Patavii 1557; Docc. ... delle famiglie Strassoldo e della Torre...,Venezia 1864, pp. 39-53; Zur Gesch. des Concils von Trient. Actenstücke aus östern. Archivem..., a cura di T. Sickel, Wien 1872, pp. 1-101 ss. passim; Venetianische Depeschen vom Kaiserhofe...,s. 1, a cura di G. Turba, III, Wien 1895, pp.25 n. 5, 47, 50, 106 ss., 142, 144, 146, 162 n. 1,167, 174 n. 4, 175, 282 n. 2, 523 n. 1; Nuntiaturberichte aus Deutschland... 1560-72…,II, a cura di S. Steinherz, Wien 1897, pp. XXXIX s., 317 e IV, a cura dello stesso, ibid. 1914, pp. 300, 319 (concerne, invece, l'omonimo del D., ibid., VI, a cura di I. O. Dengel, ibid. 1899, p. 337); Libri commemoriali...,a cura di R. Predelli, VI, Venezia 1904, pp. 304 s.; Concilii Tridentini diariorum pars secunda, a cura di S. Merkle, Friburgi Brisgoviae 1911, pp. CXLI, 338 n., 341 n. 1, 521, 522 n. 1, 529 n. 2, 532 s., 576, 610, 616 (ma confuso, nell'indice, a p. 960, col Francesco Della Torre veronese, segretario del vescovo Gioberti, per il quale valgono i rinvii alle pp. XXI, XXIV); Nunziature di Venezia, VIII,a cura di A. Stella, Roma 1963, p. 207; P. F. Spinola, Opera, Venetiis 1563: al D., già nominato nella dedica della sezione Poematon al re dei Romani Massimiliano, sono indirizzati i versi alle pp. 1-6 (è, invece, un omonimo milanese figlio di Gaspare il destinatario dei versi alle pp. 33 s. della sezione Epodon; questi è uno dei dodici gentiluomini di Milano discorrenti nel dialogo Il duello di Giovanni Vendramin, di cui in E. A. Cicogna, Delle inscrizioni veneziane..., II, Venezia 1827, pp. 252 s.); P. Sarpi, Istoria del concilio tridentino, a cura di G. Gambarin, II, Roma 1935, pp. 244 s.; P. S. Pallavicino, Istoria del concilio di Trento, XIV,Roma 1846, pp. 378 ss.; G. Capodagli, Udine illustrata, Udine 1665, pp. 232 ss.; F. Piccinelli, Ateneo dei lett. mil., Milano 1670, p. 461; Ph. Argelati, Bibl. script. Mediol. …,Mediolani 1745, p. 1432; G. B. Giovio, Gli uomini della comasca diocesi..., Modena 1784, p. 475; G. de Renaldis, Memorie... d'Aquileia..., Udine 1888, pp. 279, 295; C. 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