DOLFIN, Francesco
Appartenente alla nobile famiglia veneziana, era figlio di Giovanni (Zuanne) del fu Gregorio del fu Dolfin. Ignoriamo la data della sua nascita, che solo in via presuntiva può essere collocata intorno al periodo 1340-1345. La prima notizia a lui relativa contenuta nelle fonti a noi note risale al 1370, quando egli era capitano di Romano, nella marca trevigiana, e il 26 febbraio inviò un dispaccio ai rettori di Treviso Giovanni Dandolo, podestà, e Donato Tron, capitano, comunicando di non aver potuto adempiere che in parte agli ordini ricevuti perché completamente impegnato nei lavori di riedificazione della bastita di quel luogo.
In quel momento Venezia, dopo la recente acquisizione della marca trevigiana, era impegnata a fronteggiare e a prevenire colpi di mano contro quella regione. Già da questo episodio, relativo ad uno dei primi incarichi pubblici svolti, vediamo apparire il D. quale resterà per tutta la sua vita: un uomo d'azione capace e determinato, presente soprattutto sul teatro degli scontri che videro impegnata Venezia, dalla seconda metà del Trecento agli inizi del Quattrocento, a respingere gli attacchi delle limitrofe potenze della Terraferma.
Le fonti ricordano nuovamente il D. ai primi di luglio del 1378, durante la seconda guerra di Chioggia, quando reparti padovani ed ungheresi avevano occupato Borgo San Lorenzo, a Mestre, e posto l'assedio al castello da lui difeso validamente: "Era in quel tempo provedador in Mestre ser Franceschin D. chiamado el sbirfo" scrive infatti il cronista Daniele di Chinazzo e narra come avesse dato in quella occasione critica buona prova di sé. Ricevuti dalla Signoria soccorsi in armi ed il rinforzo di trecento uomini, il provveditore non solo riuscì a respingere l'attacco in forze compiuto il 1º agosto dagli assedianti, ma costrinse questi ultimi, dopo otto giorni di combattimenti, ad abbandonare il campo e a ripiegare su Padova.
Creato podestà di Asolo (Treviso), l'anno successivo dovette fronteggiare un violento attacco dei Padovani: l'11 marzo fu costretto ad abbandonare il borgo al nemico e ad asserragliarsi con i suoi nella rocca. Tuttavia, dopo quasi cinquanta giorni di assedio, non potendo sostenere ulteriormente i continui attacchi e un pesante bombardamento, cui gli avversari sottoponevano la rocca, si acconciò suo malgrado a trattare. Il 29 aprile uscì dal castello, che consegnò al nemico, ma, giuste le capitolazioni di resa, poté lasciare Asolo con i resti delle sue truppe e con quanti vollero seguirlo, e ripiegare a Venezia. In seguito, quando il borgo venne riconquistato dalla Repubblica, il D. vi fece nuovamente ritorno come podestà.
Appartiene al periodo della podesteria asolana un importante dispaccio, che egli inviò il 28 dic. 1380 al Senato e che ci è stato conservato.
In esso il D. trasmetteva preziose informazioni sulla consistenza delle forze nemiche presenti nella bastita e nella rocca di Castelfranco. Comunicava inoltre i nomi di dodici dei quattordici responsabili della consegna di quella località ai Padovani e precisava l'ammontare delle somme in denaro e le condizioni da loro pattuite per il tradimento. Sollecitava infine, e soprattutto, urgenti provvedimenti sul piano militare e l'invio di rinforzi in suo aiuto, perché, riferiva, i Padovani si preparavano a cingere nuovamente d'assedio Asolo, il cui possesso egli considerava decisivo dal punto di vista strategico: "questo luogo è clave dela campagna" concludeva.
Terminata la guerra, il 24 ott. 1382 il D. fu eletto provveditore a Mestre per il periodo di un mese e per il compenso di 25 ducati. Si trattava di un incarico provvisorio, affidatogli dal Senato per risolvere il problema della supplenza del podestà e capitano allora in carica, che non godeva in quel momento di buona salute. L'anno successivo il D. entrò a far parte del Senato. Il 28 ott. 1384 era nuovamente a Mestre, questa volta in qualità di podestà e capitano. Il 26 apr. 1386 il Senato lo elesse capitano del "Paisanatico" a Grisignana, in Istria.
In quel periodo i possessi veneti in Istria erano governati da due capitani del "Paisanatico", con sede l'uno a Grisignana e l'altro a San Lorenzo. La giurisdizione del primo si estendeva sui territori a settentrione del fiume Quieto, la città di Capodistria esclusa; quella del secondo, sui territori a meridione del Quieto. Il capitano del "Paisanatico", il cui mandato durava un anno, ricopriva di norma anche la carica di podestà della terra ove risiedeva: riceveva dunque due stipendi, l'uno dal governo veneto, per il capitaniato, l'altro dalle autorità locali, per la podesteria. Al capitano del "Paisanatico" spettava anche il comando militare delle truppe di stanza nel territorio di sua competenza e l'ufficio di dirimere tutte le questioni e le liti che fossero insorte tra le terre comprese nella sua giurisdizione.
L'8 maggio 1386, quando era in procinto di partire per assumere il suo incarico in Istria, il D. fu nominato dal Senato a far parte, in qualità di "sindico", di una commissione composta dall'appena scaduto capitano del "Paisanatico" di Grisignana Paolo Zulian, da Donato Moro e da Bernardo Marcello - capitani del "Paisanatico" di San Lorenzo, smontante l'uno, montante l'altro -, e dal podestà di Montona Antonio Bembo. La commissione doveva avviare, per conto del governo veneto, trattative con i rappresentanti del duca d'Austria Leopoldo II d'Asburgo in vista di una soluzione della vertenza di confine che contrapponeva, in Istria, la Repubblica di S. Marco ed il Comune di Montona al Comune di Pisino.
Da quando erano entrati a far parte dei territori di dominio asburgico nel 1374 la contea di Pisino con le sue pertinenze e nel 1382 la città di Trieste, i duchi d'Austria erano divenuti tra i più temibili rivali della Repubblica di S. Marco. L'antagonismo tra le due potenze si manifestò soprattutto in Istria, dove i confini dei territori appartenenti all'una e all'altra, mal definiti o, spesso, non delineati, furono da allora motivo di continue dispute e di attriti, destinati ad aggravarsi periodicamente in occasione delle ricorrenti crisi internazionali. La controversia, che il D. ed i suoi colleghi erano stati chiamati a comporre, fu una delle prime della lunga serie; e la soluzione, che essi raggiunsero nel corso dei colloqui con i rappresentanti del duca d'Austria, dovette essere del tutto provvisoria, se già due anni dopo, nel 1388, Venezia dovette inviare al dinasta asburgico una nuova ambasceria per risolvere un'altra questione di confine insorta di recente.
Durante il periodo del capitaniato in Istria il D. pose mano alla riparazione delle mura di Grisignana. Sul piano militare riportò un discreto successo, eliminando una banda di predoni che infestava il territorio da lui amministrato. Il suo operato e, soprattutto, i suoi metodi di governo si prestarono tuttavia a critiche, suscitando proteste e contestazioni, che non tardarono a concretarsi in esplicite denunzie alle autorità centrali. Comunque al suo rientro a Venezia, nel 1387, venne nuovamente eletto senatore e, nell'estate, fu per un breve periodo inviato a Mestre, in qualità di provveditore: per tale incarico chiese ed ottenne di non ricevere compenso alcuno. Già il 12 agosto di quello stesso anno, tuttavia, fu autorizzato dal Senato a rientrare in Venezia per poter badare ai propri affari. Eletto per la seconda volta capitano e podestà di Mestre nel 1388, dovette poco dopo rispondere in tribunale del suo governo istriano: furono ben otto i capitoli di accusa contestatigli dagli avogadori di Comun, capitoli d'accusa tutti riconducibili ai reati di peculato, concussione e abuso di potere. Il processo, che si concluse il 3 marzo 1388 con una condanna relativamente mite (esclusione perpetua da incarichi di governo in Istria e a Mestre; pagamento di una penale di 1.000 lire di piccoli), se evidenziò i gravi limiti della condotta del D. come amministratore, non intaccò tuttavia la fama di valoroso combattente da lui guadagnata nel corso delle precedenti campagne: dobbiamo infatti ritenere che la stima di cui il D. godeva non era stata scalfita dalla vicenda giudiziaria, se il Senato, al riaccendersi della guerra contro i Padovani, gli affidò l'incarico di capitano di Noale.
Il D., alla testa di una flottiglia fluviale di battelli sui quali erano stati imbarcati reparti di balestrieri, conquistò Aquileia e il castello di Borgoforte; quindi, risalendo il corso della Livenza, si portò a Santo Stino (Venezia), entro le cui mura si erano raccolte le milizie padovane. Il D. investì con i suoi quel fortilizio che, pur validamente munito e strenuamente difeso, finì col cedere all'assalto dei Veneziani, che se ne impadronirono e lo rasero al suolo.
Queste vicende, che vengono ampiamente narrate nella cronaca ancora inedita di Piero Dolfin (cfr. s. v.), trovano riscontro in un decreto del Senato dell'11 ott. 1388.
Il D., al suo ritorno a Venezia, in un rapporto alla Signoria aveva riferito che nel corso delle operazioni intorno a Santo Stino gli uomini ai suoi ordini si erano offerti di espugnare il castello, chiedendo - secondo l'uso - una paga doppia. Solo il suo personale impegno a far loro ottenere un premio di 100 ducati li aveva indotti a rinunziare a tale pretesa. Il Senato, come riconoscimento sia del valore dimostrato dalle truppe e dal comandante nel corso dell'operazione, sia del buon esito di quest'ultima, non ebbe difficoltà ad accordare la somma promessa.
Nel 1389, al termine delle ostilità, il D. venne nominato podestà di Rimini da Carlo Malatesta, che, alleato dei Veneziani nella vicenda bellica appena conclusa, aveva avuto evidentemente modo di conoscerlo di persona o, comunque, di essere informato della sua valentia. Con "parte" del 24 agosto di quel medesimo anno il Maggior Consiglio, in deroga a propria deliberazione del 1356 e come del resto già accordato in precedenza per casi analoghi, concesse al D. la necessaria autorizzazione ad accettare l'incarico e a recarsi a Rimini per ricoprirlo.
Poco sappiamo dell'ultima parte della vita del D.: dopo il periodo trascorso nella città romagnola, dove la sua presenza è documentata dal gennaio al giugno del 1390, più nulla ci dicono le fonti a noi note sino al 1397, quando, già provveditore a Treviso, venne eletto in Senato alla carica di capitano del Polesine, con la possibilità di rifiutare o di accettare la nomina entro otto giorni. Il testo della "commissione" del Senato del 14 sett. 1401 diretta al D., da cui si evince la sua nomina a provveditore in Rovigo, in un momento particolarmente delicato per i domini di S. Marco nel Polesine, documenta con ogni probabilità l'ultimo servizio da lui reso allo Stato veneziano.
Il governo della Repubblica, sulla base dei rapporti ricevuti dai propri informatori circa i preparativi ed i movimenti delle truppe che da circa una ventina di giorni venivano effettuati lungo i confini dei territori veneziani nel Polesine di Nicolò III marchese d'Este e vicario in Ferrara per la S. Sede, aveva tratto l'impressione che quest'ultimo si accingesse ad attaccarla proprio in quel settore. Aveva perciò provveduto ad inviare sul luogo una persona esperta e capace, qual'era appunto il D., che fronteggiasse ogni eventualità.
I compiti affidati al nuovo provveditore di Rovigo erano molteplici, come si trae dalla citata "commissione" del 14 sett. 1401. Doveva innanzitutto recarsi ad ispezionare la torre di Camponovo e il castello di Venez; doveva quindi provvedere a farvi affluire non solo le truppe già inviate a Rovigo dal governo, ma anche un numero adeguato di balestrieri come rinforzo. Doveva poi controllare l'addestramento e, soprattutto, la lealtà degli uomini, curando che venissero allontanati tutti gli elementi infidi, massime se originari del territorio o della città di Ferrara. Fatto questo, doveva portarsi a Rovigo, a Lendinara, ad Abbazia, ad Arquà per ispezionarne le fortificazioni e riscontrare la consistenza dei depositi di munizioni ivi costituiti. Gli si dava inoltre l'autorità di prendere tutti i provvedimenti che avesse ritenuto utili, sentiti i rettori locali, l'ultima parola in ogni caso spettando al D.; unica eccezione Rovigo, per la quale, in caso di divergenza di vedute tra il D. e i rettori di quella città, le decisioni sarebbero state prese a maggioranza. Si sottolineava che avrebbe dovuto curare con la massima celerità il restauro dei passaggi di ronda, dei corridoi di manovra e delle bertesche della torre di Abbazia, impiegando il materiale già colà trasportato: altro gliene sarebbe stato inviato, se ne avesse avuto bisogno. Per accelerare al massimo queste operazioni di restauro e di rafforzamento delle difese fisse, si suggeriva al D. di coinvolgere nei lavori anche la popolazione locale, ma trovando il modo di non sollevare malumori: ove non fosse riuscito in tale intento, avrebbe dovuto ricorrere allora all'opera di maestranze specializzate, che sarebbero state pagate dal governo della Repubblica.
Nella "commissione", inoltre, si informava il D. che a Rovigo avrebbe trovato, pronta per essere impiegata, una flottiglia di dieci battelli, ciascuno dei quali armato di una bombarda e con due balestrieri a bordo oltre al normale equipaggio. Con essa avrebbe dovuto assicurare la costante vigilanza, giorno e notte, del territorio a lui affidato. Gli si ordinava di verificare attentamente, di concerto coi rettori delle località da lui ispezionate, anche le disponibilità di viveri, di munizioni, di armi, e di far pervenire al governo rapporti esaurienti in proposito. Allo stesso modo avrebbe dovuto inviare al governo elenchi dettagliati sia dei quantitativi di biade a disposizione, sia degli uomini atti alle armi, sia delle bocche esistenti all'interno e all'esterno delle fortezze.
Gli veniva infine raccomandato di tenere costantemente aggiornato il governo di quanto egli avesse via via fatto e disposto, e di fornire con precisione e rapidità ragguagli sui movimenti e sulle attività dei Ferraresi a Castel Guglielmo e lungo l'argine di Lagoscuro.
Il D. morì pochi anni dopo la nomina a provveditore di Rovigo, tra la fine del 1403 e gli inizi del 1404. Sappiamo infatti che dettò le sue ultime volontà il 24 dic. 1403, mentre sua moglie viene qualificata vedova in un documento del 20 febbraio dell'anno successivo.
Quando morì, il D. dimorava con la famiglia a Venezia, nella parrocchia di S. Canciano. Aveva sposato, ignoriamo esattamente quando, una Orsola (Orse) di cui le fonti non ci riferiscono il casato. Da lei aveva avuto sei figli: Giovanni, Nicolò, maggiorenni quando testò, Giorgio, Giacomo, Vittore e Barbarella, invece minorenni. Il Barbaro ricorda anche un Orso, al quale peraltro il D., nel suo testamento, non fa alcun cenno.
Nel testamento del 24 dic. 1403 - di grande interesse perché contiene tutte le notizie a noi note sulla sua famiglia - il D. nominò come esecutori testamentari la moglie, i figli, il nipote Niccolò Coppo e Paolo Tiepolo. Lasciava ai figli la porzione spettante a ciascheduno dei beni paterni e dava ordine ai propri esecutori di curarne il trasferimento. Stabiliva inoltre che se il suo primogenito Giovanni avesse cercato di recare molestia ai fratelli minori, doveva essere privato della porzione spettantegli dell'eredità a beneficio degli altri figli, e che se uno dei figli minori fosse morto prima di aver compiuto i quindici anni, la relativa parte di eredità spettava alla vedova Orsola. Ordinava infine che dopo la sua morte tutta la sostanza mobile da lui posseduta in Venezia e fuori di Venezia venisse venduta per pagare tutti i debiti da lui contratti: il residuo doveva essere diviso equamente tra i figli. Nessun legato il D. dispose per la sua unica figlia.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Venezia, Archivio notarile, Testamenti, b. 1072 (Notaio Andrea Cristiano), Protocollo, cc. 107rv; lbid., Avogaria diComun, Raspe, reg. 3644, p. I, c. 38v; p. II, cc. 24v-25r; Ibid., Cancelleria inferior, b. 42 (Notaio Andrea Cristiano), Protocollo, a. 1392, c. 46r; b. 44 (Idem), Prot., a. 1398, c. 37r; b. 45 (Idem), Prot., a. 1401, c. 22v; b. 46 (Idem), Prot., a. 1403, c. 56v; b. 47 (Idem), Prot., a. 1405, c. 3 (gli ultimi due atti riguardano la vedova del D., Orsola); Ibid., Commemoriali, reg. 8, c. 36v; Ibid., Maggior Consiglio, Deliberazioni, reg. 21 (Leona), cc. 32rv; Ibid., Miscell. codd., I, Storia veneta 19: M. Barbaro-A. M. Tasca, Arbori de' patritii veneti, III, c. 291; Ibid., 26: G. Priuli, Genealogie delle famiglie nobili, III, c. 2100; Ibid., III, Codici Soranzo 32: G. A. Cappellari Vivaro, Il Campidoglio veneto…, II, c. 69; Ibid., Segretario alle voci, Misti, reg. 3, cc: 25, 33, 35v, 45v; Ibid., Senato, Deliberazioni miste, reg. 37, c. 117v; reg. 40, cc. 26, 47v, 66v, 79, 85v, 106rv, 133v; reg. 44, c. 16; Ibid., Deliberazioni segrete, reg. 1, cc. 17v-18; Ibid., Materie miste notabili, n. 179: P. Dolfin, Cronaca, c. 468; Ibid., Sindicati, reg. I, c. 158; Rimini, Biblioteca Gambalunga: M. A. Zanotti, Collezione di atti, V, 2, p. 157; VI, 2, pp. 16, 25 s., 28.
Cfr. inoltre R. Caresini Chronicon Venetum, in L. A. Muratori, Rer. Ital. Script., XII, Mediolani 1728, col. 479; M. Sanuto, Vitae ducum Venetorum..., ibid., XXII, ibid. 1733, col. 767; G. B. Verci, Storia della marca trivigiana e veronese…, XIV, Documenti, Venezia 1789, n. 1638, p. 53; XV, Documenti, ibid. 1790, n. 1737, pp. 51 s.; I Libri commemoriali della Repubblica di Venezia. Regesti, a cura di R. Predelli, III, Venezia 1883, p. 145; Senato Misti. Cose dell'Istria, in Atti e memorie della Società istriana diarcheologia e storia patria, V (1889), pp. 265 s., 268 s.; Daniele di Chinazzo, Cronica de la guerra da Veniciani a Zenovesi, a cura di V. Lazzarini, Venezia 1958, pp. 34, 170; S. Romanin, Storia documentata di Venezia, III, Venezia 1855, pp. 265 s., 322 s.; L. Tonini, Storia civile e sacra riminese, IV, Rimini 1880, p. 268; E. Musatti, Venezia e le sue conquiste nel Medio-Evo, Verona-Padova-Lipsia 1881, p. 371; G. Vesnaver, Grisignana d'Istria. Notizie storiche, in Atti e mem. della Soc. istriana di archeol. e storia patria, III (1887), pp. 300, 340; H. Kretschmayr, Geschichte von Venedig, II, Gotha 1920, p. 231; B. G. Dolfin, I Dolfin (Delfino) patrizii veneziani nella storia diVenezia dall'anno 452 al 1923, Milano 1924, p. 280; C. Argegni, Condottieri, capitani, tribuni, I, p. 302.