DONÀ (Donati, Donato), Francesco
Nacque a Venezia, in rio Terrà a Cannaregio, nel 1468, da Alvise del dottore e cavaliere Andrea e da Camilla Lion di Marino di Andrea. Nonostante la prematura morte del padre, che apparteneva al ramo detto "dalle Rose", il D. ebbe modo di conseguire una solida cultura umanistica, indispensabile presupposto per affermarsi nel mondo politico veneziano; fu probabilmente lo zio Antonio ad occuparsi di lui, il cui corso di studi - sorretto da intelligenza vivace, ottima memoria, indole riflessiva - se non sfociò in un regolare dottorato (come avvenne per il cugino Girolamo) gli consenti di allacciare qualificate amicizie (in primis con Pietro Bembo) e crearsi fama di oratore colto ed elegante, secondo la concorde testimonianza delle fonti.
Nel secondo semestre del 1492, raggiunta l'età legale, fu subito eletto savio agli Ordini; due anni dopo - afferma il Barbaro - sposò una figlia di Alvise Da Mula di Alessandro, ma di queste nozze non rimane traccia nei documenti ufficiali, mentre è certo che nel 1496 contrasse matrimonio con Maria Giustinian di Antonio di Nicolò, dalla quale ebbe una figlia che si fece monaca, Vittoria, ed un unico maschio, Alvise. Nuovamente savio agli Ordini nel 1496, nel '98 fu auditor vecchio e ancora savio agli Ordini tra l'ottobre 1500 ed il marzo 1501, sostenendo efficacemente la proposta del savio del Consiglio Nicolò Trevisan di imporre un'imposta straordinaria di 5 soldi per "campo", nell'intento di finanziare la guerra contro il Turco. Una presa di posizione, questa, apparentemente in contrasto con una testimonianza, di poco precedente, di Marin Sanuto, che riporta come nell'agosto 1499 il podestà di Piove di Sacco avesse accusato il D. ed un suo fratello di violenze e prevaricazioni nei confronti dei contadini ("fá manzarie contra villani et usure"): a meno che non si voglia pensare che lo zelo dimostrato dal savio agli Ordini non avesse proprio lo scopo di far dimenticare il precedente grave episodio.
Va detto inoltre come il Sanuto, che costituisce pur sempre la principale fonte per la vita e l'attività del D., non appaia molto benevolo nei suoi confronti: rari e costantemente dosati gli elogi ("parlò ben", "fè bona renga"), che quasi mai scendono nel merito dell'analisi politica; ampiamente presenti, invece, le riserve e le prese di distanza, anche se apparentemente motivate da ragioni di ordine contingente o caratteriale. Certo al diarista dovettero spiacere, oltre alla ricchezza, alla cultura, al prestigio del D. (donde le accuse di avarizia e alterigia), anche una condotta politica certamente filofrancese, antispagnola, anticuriale, purtuttavia sostanzialmente moderata, prudente, opportunistica: ben lontana, insomma, dall'ampia ed eroica visione innovatrice che di li a poco, nel processo di ricostruzione seguito ad Agnadello, sarebbe stata vigorosamente interpretata dai dogi L. Loredan e A. Gritti. Un profilo basso, dunque, quello che ci offrono i diari del Sanuto, fatto di annotazioni frequenti, ma rapide, generiche, incolori; senonché anche il silenzio talvolta può risultare non meno eloquente della parola.
Certamente però, nonostante l'età ancor giovane, il D. doveva essersi conquistato un ruolo di primo piano in Senato, come provano le elezioni (peraltro puntualmente rifiutate) ad ambasciatore presso la Corona di Francia (23 giugno 1500), di Portogallo (11 apr. 1501), di Ungheria (19 ag. 1501) e ancora di Francia (20 nov. 1501); dopo aver nuovamente ricoperto la carica di auditor vecchio, accettò infine, il 18 marzo 1504, la nomina alla legazione di Spagna, dove giunse, attraverso il Milanese e la Savoia, il 15 dicembre di quello stesso anno.
Presso Ferdinando il D. si trattenne a lungo: pure sappiamo poco di questa missione, dal momento che non ci sono stati conservati né le commissioni, né i dispacci, né la relazione conclusiva; la nostra unica fonte restano perciò le notizie riportate dal Sanuto, che della relazione letta in Senato il 24 sett. '506 ci ha fornito anche un breve riassunto. Due sostanzialmente i compiti affidati al D.: ottenere agevolazioni per il commercio veneziano, allora pericolosamente minacciato dai progressi portoghesi nel rifornimento delle spezie provenienti da Calicut, e cercare di stornare dalla Repubblica la minaccia rappresentata dagli accordi di Blois. Si occupò anche del Valentino, prigioniero di Ferdinando, e difeso dagli Albret, delle spedizioni navali contro i Morì di Orano, degli accordi tra il re ed il figlio Filippo; riusci bene nell'intento di favorire i traffici veneziani (e l'aggradimento del sovrano si tradusse nel conferimento del titolo di cavaliere), ma non poté evitare che il 10 nov. 1505 venisse stipulata la lega con la Francia; nella relazione letta a Venezia difese il proprio operato, disse che Ferdinando "è gracioso; mai l'ha visto turbato ni aliegro in le felicità; ama la Signoria nostra; la reina bruta e zota", e concluse - riferisce il Sanuto - "senza dir quello havia speso, né scusarsi, si mal si havia portato .... Fo laudato de more dal principe".
Ancora presso Ferdinando, in occasione del suo arrivo a Napoli, fu eletto oratore il 6 apr. 1507, ma "vene in colegio, et si scusò non potervi andar per sue facende private"; ottenne dunque la dispensa dall'incarico, ma l'anno successivo, il 23 luglio, venne nominato podestà a Vicenza. Si trovò così rettore in Terraferma nella primavera del 1509, mentre la Repubblica si preparava ad affrontare i collegati di Cambrai: nel marzo l'Alviano fu a Vicenza, "et sgrandisse la terra, fa cavar fossi, fa repari, bastioni et altro ... ; et li rectori atendeno a questo". Fu tutto inutile, però, giacché il 14 maggio, ad Agnadello, Venezia perdeva l'esercito ed i suoi domini padani; il 3 giugno, per ordine della Signoria, il D. ed il collega Gabriele Moro consegnavano la città ai commissari imperiali e tre giorni dopo erano nuovamente in patria.
Incolpevole, date le circostanze, la condotta del D.; tuttavia per molti mesi non fu più eletto ad alcuna carica, forse perché la sua indole moderata e prudente, aliena dall'attività militare, non era la più adatta a farsi valere in momenti così drammatici ed intensi. Nell'ottobre del 1510 fu chiamato però a far parte della zonta del Consiglio dei dieci e un anno dopo (9 ott. 1511) venne eletto provveditore sopra i Beni dei ribelli, col compito di realizzare le vendite delle proprietà confiscate ai sudditi che si erano schierati con i vincitori. Passò l'estate del '12 in Friuli, "a scuoder le intrade del q. Antonio Savorgnan rebello, et veder minutamente tutti i soi beni"; tornato a Venezia, in ottobre venne nominato ambasciatore a Firenze, per congratularsi con i Medici del ripristino della loro signoria sulla città, e nel maggio 1513 fu eletto avogador di Comun. A questo punto, e per un certo periodo, il D. sembra sfumare il suo impegno politico e rinunciare a partecipare in prima persona all'ultima fase della laboriosa riconquista della Terraferma, che sarebbe culminata con gli accordi di Noyon: nell'ottobre del '13 appare tra i patrizi che si rifiutano di finanziare la difesa di Padova e Treviso; un mese prima era stato eletto consigliere a Cipro, ma il 5 sett. 1514 preferi rinunciare all'incarico per accettare l'ambasceria in Inghilterra; senonché il 15 dicembre accusò "certo acidente apopletico" e ottenne la dispensa anche da questa nuova missione. Solo nell'ottobre del 1515, quando ormai l'alleanza tra la Repubblica e la Francia aveva brillantemente superato la prova di Marignano, il D. acconsenti a lasciare Venezia per assumere la podestaria di Rovigo, dove però giunse solo un anno più tardi, dopo aver ricoperto (marzo-settembre 1516) la carica di savio di Terraferma.
Nel Polesine il D. rimase sino all'ottobre del 1517, dedicandosi prevalentemente a restaurare il palazzo pretorio, gravemente danneggiato dalla guerra. L'anno seguente venne nominato ancora savio di Terraferma, e in tale veste, tra il 16 ed il 18 maggio, fu inviato ad Abano per onorare il duca Alfonso d'Este, quindi (4 luglio 1518) fu chiamato a far parte della commissione incaricata di delimitare le proprietà dei frati di Correzzola; agli inizi di ottobre entrò nel Consiglio dei dieci e il giorno 8 partecipò con Giovan Battista Egnazio ad una lezione di umanità (queste attestazioni di sensibilità verso il mondo della cultura si ripeterono più volte, ad esempio il 2 nov. 1524, allorché presenziò nella chiesa di S. Bartolomeo all'apertura del corso di studi filosofici, ed il 2 febbr. 1526, quando intervenne ad una disputa del lettore di filosofia, Sebastiano Foscarini).
Il 20 marzo 1519 optò per la luogotenenza ad Udine, rinunciando in tal modo a ricoprire l'incarico di ambasciatore presso la S. Sede, cui era stato eletto qualche mese prima; nel Friuli si occupò soprattutto di rintuzzare le provocazioni degli Arciducali, che appoggiavano i fuorusciti, e continuò l'opera di ripristino delle fortificazioni di Cividale e Monfalcone, duramente provate dagli eventi militari; ebbe inoltre forti contrasti con i Savorgnan, e a queste preoccupazioni si aggiunse il dolore per la perdita della moglie. Lesse in Senato la relazione conclusiva il 12 apr. 1521, "et referite - così il Sanuto - come nel suo tempo non havia fato morir alcun", a riprova di temperamento alieno dalla violenza e rispettoso della giustizia.
Eletto inquisitore sopra il defunto doge L. Loredan, nell'estate '21 appoggiò tiepidamente ("non se ne impaza") l'azione del collega Alvise Priuli, che ottenne la condanna degli eredi al pagamento di una grossa multa per violazione delle leggi; fu poi del Consiglio dei dieci e nel luglio '22 si recò capitano a Padova, dove è documentata la sua presenza al conferimento di numerosi dottorati; rientrato in anticipo a Venezia per esser stato chiamato a far parte dell'ambasceria straordinaria inviata ad onorare il nuovo papa Clemente VII, il 9 marzo 1524 riusci ad evitare la missione optando per la nomina a provveditore dell'Arsenale. Negli anni che seguirono fece parte costantemente del Consiglio dei dieci e fu anche consigliere ducale per il sestiere di Cannaregio (1525, 1528, 1531) e savio del Consiglio (settembre 1525-marzo '26; aprile-giugno '27; marzo-settembre '29; giugno-dicembre '30; gennaio-giugno '32; marzo-settembre '33), a conferma dell'indiscusso prestigio di cui ormai godeva, nonostante l'atteggiamento filofrancese, che mantenne anche in occasione della presenza dell'imperatore al congresso di Bologna. Amicizia con la Francia, diffidenza verso lo strapotere spagnolo, cautela e moderazione nei confronti della potenza ottomana: questi i cardini di una visione politica che non fu smentita neppure in occasione della guerra veneto-turca del 1537-39, allorché in qualità di savio del Consiglio si batté più volte in favore della pace, sostenendo l'opportunità di accettare le condizioni proposte da Solimano; solo in una circostanza egli rifiutò questo atteggiamento ispirato a cautela, e ciò accadde riel giugno '39, quando si oppose al rientro della squadra navale nell'Adriatico, ma fu unicamente per non lasciare agli Spagnoli di Andrea Doria il merito della difesa di Castelnuovo.
Alla morte del doge A. Gritti egli era certamente uno dei più autorevoli senatori della Repubblica: per due anni, nel 1531 e '32, aveva ricoperto l'incarico di provveditore sopra le Acque, magistratura istituita pro tempore dal Consiglio dei dieci, con poteri eccezionali non solo sulle lagune, ma sull'intero territorio padovano e trevisano; in seguito (27 ott. 1532) aveva ottenuto la nomina a , procuratore di S. Marco de ultra; nel gennaio '39, quindi, avrebbe potuto essere eletto doge, ma preferi far convergere i propri voti su Pietro Lando, ufficialmente per non procrastinare il periodo di sede vacante mentre era in corso la guerra contro il Turco, in realtà perché in disaccordo sulla condotta stessa del conflitto. Sali tuttavia al trono ducale qualche anno più tardi, il 24 nov. 1545, e l'elezione fu salutata da letterati, uomini di cultura, fautori del rinnovamento religioso come l'inizio di un'epoca di pace e sviluppo civile, dopo tre dogati segnati dalla guerra. In effetti, quelli che seguirono furono anni tranquilli, almeno sul fronte dell'impegno militare: dichiaratasi neutrale in occasione del conflitto seguito tra Carlo V ed Enrico II, Venezia istitui, con decreto 23 marzo 1551, le cosìddette "scuole dei sestieri", ossia scuole elementari pubbliche e gratuite ad uso dei ceti meno abbienti, le cui finalità furono espresse dall'umanista bresciano Giovita Rapicio in un libro dedicato allo stesso D.: De liberis publice ad humanitatem informandis (Venetiis 1551); ma soprattutto venne portata a termine quella renovatio architettonica che era stata promossa dal doge Gritti: fu completata l'ala orientale del palazzo ducale, elevata la Libreria Marciana, finita la Zecca; svanirono invece le speranze di quanti - a cominciare da P. P. Vergerio, che gli indirizzò un'entusiastica orazione, scandita da toni biblici - avevano creduto di scorgere nell'elezione del D., di cui erano note le posizioni anticuriali e l'aspirazione ad una Chiesa povera e fedele allo spirito delle Scritture, un segno della volontà divina, in grado forse di suscitare l'auspicato rinnovamento del popolo cristiano.
In realtà, dopo un primo periodo di relativa tolleranza verso i filoprotestanti, le istanze di Paolo III perché si procedesse contro gli eterodossi, particolarmente numerosi nel Bergamasco e nel Vicentino, trovarono parziale accoglimento, e col fattivo appoggio dello stesso D. si giunse (22 apr. 1547) ad istituire la nuova magistratura dei savi sopra l'Eresia; tuttavia, nonostante la sconfitta della Lega di Smalcalda avesse fatto volgere decisamente a favore di Roma l'atteggiamento degli Stati cattolici nei confronti dei focolai ereticali, il giurisdizionalismo rimase pur sempre una costante della politica veneziana ed ebbe nel D. uno dei suoi più convinti interpreti, come dimostrano il risoluto contegno tenuto nei confronti della corte di Roma circa la controversia sulla giurisdizione del vescovato di Ceneda, e, più tardi (1550), la difesa del patriarca d'Aquileia, Giovanni Grimani, accusato d'eresia.
Giunto all'età di ottant'anni, il D. provvide a testare; tranne qualche esiguo legato, lasciò tutta la sua sostanza ai nipoti Domenico, Francesco e Piero, ignorando l'unico figlio Alvise, che nonostante il matrimonio e la numerosa prole (oltre ai maschi, tre figlie, tutte convenientemente maritate), "non ha voluto alcun carego in questo mondo, attendendo cum tutto el spirito a salvare l'anima sua e fa vita da heremito"; e si trattava di patrimonio cospicuo, le cui rendite provenivano pressoché in parti uguali dagli immobili veneziani e dalle campagne del Padovano e del Trevisano (nonostante il Valier affermi che il doge non incrementò i suoi beni, un manoscritto del Correr documenta l'acquisto di diverse proprietà a Piove di Sacco).
Nel '50, ormai gravemente infermo e reso inabile all'espletamento delle più impegnative incombenze, volle rinunciare al dogato, ma non gli fu concesso; mori, "amalato longamente", a Venezia, il 23 maggio 1553, accompagnato da una quantità di scritti che ne sottolineavano le virtù dell'animo, quasi in un processo volto ad identificare nell'uomo le ragioni del mito nascente di uno Stato marciano difensore della pace e della giustizia: significativamente l'oratore ufficiale che celebrò il doge scomparso nella chiesa di Ss. Giovanni e Paolo, Giovanni Donà dalle Renghe, lo defini, con suggestiva formula, "dignus longiori vita, nisi dignus fuisset aeterna". Fu sepolto nella chiesa di S. Maria dei Servi, alla cui demolizione, avvenuta nel 1816, i discendenti ne trasportarono le ceneri in un oratorio campestre presso Maren. nel Trevigiano.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Venezia, Misc. codd., I, Storia veneta 19: M. Barbaro-A. M. Tasca, Arbori de' patritii..., III, cc. 299, 301, 303, 334 s.; Ibid., Avogaria di Comun. Libro d'oro nascite, schedario 192, sub voce; Ibid., Sezione notarile. Testamenti, b. 1210/601; Ibid., Avogaria di Comun, b. 159/1 Necrologi di nobili, ad diem; Venezia, Bibl. naz. Marciana, Mss. It., cl. VII, cod. 16 (= 8305): G. A. Cappellari Vivaro, Il Campidoglio veneto..., II, cc. 33rv; Venezia, Biblioteca del Civico Museo Correr, Codd. Cicogna 3781: G. Priuli, Pretiosi frutti..., I, cc. 254v-256r; Ibid., Mss. P. D. C 1334/10, c. 79 (sull'acquisto di proprietà nel Padovano); Ibid., Codd. Cicogna 3526: G. P. Gasperi, Catalogo della Biblioteca veneta..., pp. 44 s.; P. Bembo, Delle lettere, in Opere del cardinale Pietro Bembo..., III, Venezia 1729, pp. 95, 164, 464 s.; M. Sanuto, Diarii, Venezia 1879-1903, II-IX, XI-XXIII, XXV-LVIII, ad Indices; Acta graduum academ. Gymnasii Patavini ab anno 1501 ad annum 1525, a cura di E. Martellozzo Forin, Padova 1969, p. 354.
Cfr. inoltre: F. Sansovino, Venetia città nobilissima et singolare..., Venetia 1663, pp. 160, 598 s.; G. Palazzi, Fasti ducales, Venetiis 1696, pp. 204 s.; P. Bembo, Historiae Venetae, in Degl'istorici delle cose veneziane…, II, Venezia 1718, p. 467; A. Morosini, Historia Veneta.... ibid., V, ibid. 1719, pp. 456, 492, 554-557, 565, 615; VI, ibid. 1719, p. 62; A. Valier, Dell'utilità che si può ritrarre dalle cose operate dai Veneziani..., Padova 1787, pp. 304, 324, 332; E. A. Cicogna, Delle inscrizioni veneziane, I, Venezia 1824, pp. 60 ss., 354; III, ibid. 1830, pp. 504, 512; VI, ibid. 1853, pp. 99, 104 ss., 568, 604, 695, 745; Id., Saggio di bibliografia veneziana, Venezia 1847, pp. 210, 322, 329; R. Battistella, Il Comune di Treviso e la cavalleria, in Nuovo Archivio veneto, n. s., VIII (1904), p. 291; A. Da Mosto, I dogi di Venezia nella vita pubblica e privata, Milano 1960, pp. 199, 201, 248, 250-254, 517 s.; B. Nardi, La scuola di Rialto e l'umanesimo veneziano, in Umanesimo europeo e umanesimo veneziano, a cura di V. Branca, Firenze 1963, pp. 117, 121; Relaz. di ambasciatori veneti al Senato, I, Inghilterra, a cura di L. Firpo, Torino 1965, p. XI; C. Schwarzenberg, Motivi vecchi e nuovi del giurisdizionalismo veneziano dall'elezione del doge F. D. (24 nov. 1545) all'elezione del doge Nicolò Da Ponte (18 marzo '78), in Il Diritto eccles., LXXVIII (1967), I, pp. 285-295; A. Stella, Dall'anabattismo al socinianesimo nel Cinquecento veneto. Ricerche stor., Padova 1967, pp. 54 s.; Id., L'orazione di Pier Paolo Vergerto al doge F. D. sulla riforma della Chiesa (1545), in Atti dell'Ist. veneto di scienze, lettere ed arti, CXXVIII (1969-70), pp. 1-39; G. Gullino, La politica scolastica venez. nell'età delle riforme, Venezia 1973, pp. 69, 72 s.; G. Cozzi, D. Bollani: un vescovo veneziano tra Stato e Chiesa, in Rivista stor. ital., LXXXIX (1977), p. 578; P. Grendler, The "Tre savii sopra eresia" 1547-1605: a prosopogr. study, in Studi veneziani, n. s., III (1979), pp. 283 s.; Relazioni di ambasciatori veneti al Senato, VIII, Spagna (1497-1598), a cura di L. Firpo, Torino 1981, p. V; P. Grendler, L'Inquisizione romana e l'editoria a Venezia. 1540-1605, Roma 1983, pp. 56, 65, 70; M. Fassina, Le chase sparpanade. Marcon, secoli XVI-XVIII, Dosson di Casier (Treviso) 1985, p. 94; M. Tafuri, Venezia e il Rinascimento, Torino 1985, pp. 113 s., 148; G. Moroni, Diz. di erudiz. storico-ecclesiastica ..., XCII, pp. 352-358.