FILELFO, Francesco
Nacque a Tolentino, nell'odierna provincia di Macerata, il 25 luglio 1398.
Fu ben presto inviato a studiare a Padova, dove, fra gli altri, seguì i corsi di retorica di Gasparino Barzizza e di filosofia dell'eremitano Paolo Veneto, con un profitto tale che, appena diciottenne, fu aggregato al corpo insegnante come professore di retorica. Nel 1417 passò a Venezia, dove tenne scuola ai giovani appartenenti alle famiglie più illustri, come Bernardo Giustinian. Allo stesso tempo strinse amicizia con altri maestri veneziani, fra cui Guarino Veronese a Vittorino da Feltre, veri animatori della cultura cittadina; si legò anche con Francesco Barbaro, che poi sarebbe stato suo protettore. Dissuaso da un amico, Bartolomeo Fracanzani, a farsi monaco benedettino nel convento di S. Giorgio Maggiore, finché rimase a Venezia - ma nel 1419 fu a Vicenza come insegnante - il F. trovò sempre un ambiente a lui favorevole e propizio, al punto di essere onorato, il 13 luglio 1420, della cittadinanza veneziana. Nello stesso 1420 fu eletto segretario del bailo di Costantinopoli e poté quindi partire per l'Oriente, impiegando poi circa cinque mesi per il viaggio a Costantinopoli.
Qui studiò la lingua e la letteratura greche sotto la guida di Giovanni Crisolora, fratello di Emanuele, con grande profitto, ma senza trascurare anche i compiti amministrativi per i quali da Venezia era stato inviato a Costantinopoli. Presto conseguì un notevole successo, che trovò sanzione nella nomina, nel 1422, che gli pervenne da parte dell'imperatore Giovanni VIII Paleologo, a suo segretario e consigliere. Per conto di Venezia, e così pure dell'imperatore, fu più volte incaricato di affari e missioni diplomatiche: da Venezia, ad esempio, fu inviato presso il sultano turco Murad II; dal Paleologo fu mandato come ambasciatore a Buda presso l'imperatore Sigismondo del Lussemburgo, e da lì, nel 1423, a Cracovia come rappresentante dell'imperatore alle nozze del re di Polonia Ladislao II Iagellone: il giorno del matrimonio, il quarto del sovrano polacco, celebrato il 12 febbr. 1424, il F. recitò un'orazione epitalamica. Inviato dal Paleologo (allora in Italia) a Costantinopoli, il F., per evitare i pericoli conseguenti all'attraversamento di territori turchi, fu costretto ad intraprendere un lungo e faticoso viaggio che, fra continue difficoltà, lo portò in Transilvania e in Valacchia e poi in Moldavia: al punto che si ritrovò a raggiungere Costantinopoli, insieme con l'imperatore, dopo sedici mesi.
Qui poté nuovamente attendere ai suoi studi, anche raccogliendo testi di autori greci che formarono il primo nucleo della sua biblioteca; sposò, quindi, la figlia del Crisolora, Teodora, appena quattordicenne, la cui famiglia era imparentata sia con la famiglia imperiale sia con quella dei Doria. Morto il suocero, il F. continuò lo studio del greco con Giorgio Crisococca, la cui scuola era frequentata anche dal futuro cardinale Bessarione, del quale divenne amico. Nel luglio del 1426 nacque il suo primo figlio, a cui fu dato il nome di Giovanni Mario Giacomo; avrebbe poi avuto - da tre mogli - ventiquattro figli, dodici maschi e dodici femmine.
Rimasto in contatto epistolare con gli amici veneziani, Francesco Barbaro e Leonardo Giustinian, il F. non seppe rifiutare le loro lusinghiere proposte di tornare a Venezia come professore di greco. Così, il 27 ag. 1427, partì da Costantinopoli; giunse a Venezia il 10 ottobre successivo, quasi sette anni e mezzo dopo che ne era partito. Ma l'arrivo fu assai deludente: a causa dell'infuriare della peste il F. non trovò gli amici che tanto avevano insistito per il suo ritorno.
Si aprì, così, per lui un periodo di crisi e di profonda insoddisfazione: il perdurare della peste impediva sia il normale ripristino dell'insegnamento, sia il rientro in città degli amici. A casa del Giustinian il F. aveva fatto recapitare i libri e le vesti preziose della moglie, ma i bagagli non potevano essere recuperati per motivi di sicurezza. È ben nota una lettera ad Ambrogio Traversari in cui il F. enumera i codici che si era portato da Costantinopoli (Traversarii Latinae epistolae, a cura di P. Canneti-L. Mehus, Florentiae 1749, II, col. 1010): libri che, probabilmente, non riebbe più, dopo anni di insistenti ma vane richieste e sollecitazioni, mentre Poggio Bracciolini, come giustificazione di queste vicende, adduce il fatto che il F. avrebbe frodato il Giustinian, il quale in cambio dei libri gli avrebbe prestato del denaro (Opera, Basileae 1538, f. 172r).Il 13 febbr. 1428, con la famiglia, il F. partì da Venezia diretto a Bologna, per poi raggiungere Firenze. Egli racconta che il giorno stesso del suo arrivo a Bologna fu salutato dai professori dello Studio e dalla città intera, mentre l'indomani fu invitato a presentarsi al cardinale Louis Aleman, legato pontificio a Bologna. Accettò subito la proposta dell'Aleman di entrare nello Studio bolognese come professore di eloquenza e di filosofia morale, col ricco stipendio di 450 zecchini, di cui 150 sborsati dallo stesso cardinale.
Ma la tranquillità del soggiorno bolognese durò pochi mesi. In seguito alla rivolta antipapale del 1º ag. 1428 venne chiusa l'università e furono sospesi i pagamenti; alle difficoltà generali della città si aggiungeva, per il F., la preoccupazione per la gravidanza della moglie. Scrisse a Niccolò Niccoli di mandargli sei muli per trasferire a Firenze la moglie e i libri (Ep., f. 7r). E la scelta di Firenze fece cadere le offerte che gli erano venute da Roma e da Ferrara da parte di più persone. Anche uscire da Bologna gli fu difficile; fra l'altro dovette chiedere aiuto a Firenze a Leonardo Bruni (Ep., f. 8rv). Dapprima gli fu negato il permesso, e poi neppure il cardinale Domenico Capranica, che assediava Bologna, gli rilasciò il salvacondotto pensando che, una volta risolta la crisi, per la città sarebbe stato più utile conservare la presenza del Filelfo.
Al Bruni, già nel 1428, il F. aveva indirizzato la traduzione latina del De Ilio non capto di Dione Crisostomo: dedica a cui il Bruni rispose con una lettera piena di amichevoli espressioni di stima (Epistolarum libri, a cura di L. Mehus, Florentiae 1741, II, pp. 30 s.), e in cui - era l'autunno del 1428 - spiegava al F. che al momento non poteva essere chiamato nello Studio a causa della crisi economica in cui versava Firenze, colpita dalle difficoltà della guerra contro Milano. Ma dopo l'elezione dei nuovi ufficiali dello Studio - avvenuta ai primi di novembre dello stesso 1428 - la situazione parve sbloccarsi, grazie soprattutto a Palla Strozzi, uno dei nuovi eletti, e al generale consenso verso il F. da parte delle più importanti personalità della cultura e della politica fiorentina: Cosimo de' Medici, Niccolò Niccoli, Ambrogio Traversari e, non ultimo, il Bruni stesso, cancelliere della Repubblica.
All'inizio del mese di aprile del 1429 il F. arrivava finalmente a Firenze per iniziare l'insegnamento nello Studio, come successore di Giovanni Aurispa, e questo di Firenze sarebbe stato il suo periodo più intenso e fecondo dal punto di vista didattico.
Aprì il corso di lezioni, con molta probabilità, con un'enfatica prolusione De laudibus eloquentiae, mentre il 24 ott. 1429 tenne una praelectio, poi rimaneggiata nel 1467 dal figlio Giovanni Mario, De laudibus historiae, poeticae, philosophiae, forse introduttiva ad un corso su Cicerone. Il programma didattico esposto al Traversari costituisce, comunque, un impegnativo ma volutamente propagandistico piano di lavoro, non esaurito, certo, nel 1429, ma ripreso anche negli anni successivi, prevedendo la lettura di opere e di autori assai diversi: dalle Tuscolane alla Retorica e alle Epistole di Cicerone, da Livio a Terenzio, dall'Iliade a Tucidide, fino alla Monarchia di Senofonte: autori, in specie alcuni, che perfettamente rispondevano anche alle suggestioni culturali, repubblicane ed oligarchiche, della classe dominante a Firenze. Qui il F. trovò una gran folla di studenti e di dotti e uno straordinario consenso di pubblico, di cui più volte ebbe modo di compiacersi (ad esempio in Ep., f. 9rv). E di questo compiacimento è testimone anche l'entusiasmo con cui il F. dedicò allo Strozzi le sue prime traduzioni greche realizzate a Firenze, anch'esse assai significative in rapporto alla politica culturale cittadina: l'orazione di Lisia per gli Ateniesi caduti combattendo contro Corinto, e quella contro Eratostene.
In seguito allo scoppio della peste in città, avvenuto nell'estate del 1430, il F. nell'autunno tornò a Bologna, forse col segreto intendimento di trovarsi un nuovo lavoro, ma anche perché i suoi contrasti a Firenze con gli altri umanisti stavano accentuandosi sempre più nonostante i tentativi di mediazione e di rappacificazione del Traversari. Tuttavia nell'ottobre il F. rientrava nuovamente a Firenze. Si apriva, allora, una nuova e non sempre facile fase del soggiorno fiorentino, destinata a concludersi nel 1434, caratterizzata, però, da una fervida attività intellettuale e didattica: fra l'altro completò la traduzione della Retorica di Aristotele, con l'idea di procedere ad una versione integrale delle opere del filosofo, ed iniziò a scrivere le Satyrae. Nel 1431-32 lesse e commentò - primo fra gli umanisti - Dante nello Studio, come palese atto di omaggio per il figlio più illustre di Firenze, in ossequio ad una politica culturale della fazione oligarchica dominante nella Repubblica, che proprio dalla riscoperta di Dante traeva, allora, uno dei principali motivi di affermazione civica: e per questa Lectura Dantis il F. si scontrò con la fazione medicea che, pretestuosamente, cercò di ostacolarlo in vari modi. In generale, però, conobbe momenti di grande consenso, anche se il successo crescente del "forestiero" F. non poteva continuare ad essere tollerato dai suoi colleghi fiorentini, primo fra tutti il Marsuppini, che aspirava allo stesso incarico ricoperto dal F., e che era legatissimo alla famiglia Medici, in progressiva ascesa politica nella Firenze degli anni Trenta. Alla decisione, ispirata dal Marsuppini, di ridurre lo stipendio dei professori - decisione che, in realtà, nascondeva il tentativo di far rinunciare il F. all'ufficio - il F. reagì con vigore e vinse la causa. Fu, questo, il primo dei maneggi contro il F. per indurlo a lasciare la cattedra fiorentina al quale egli rispose, fra l'altro, con una violenta satira contro il Marsuppini (Sat. I, 5).
Dopo nuove manifestazioni di ostilità, il F. ottenne un notevole successo quando fu autorizzato a tenere lezione nello Studio e pure in S. Maria del Fiore, o in altra chiesa. In un'orazione tenuta nel dicembre in S. Maria del Fiore, alla ripresa delle lezioni, il F. si scagliava violentemente contro i suoi nemici, primo fra tutti Niccolò Niccoli. Ancora il 30 dicembre pronunciava un'altra orazione, che ripeteva vari concetti della precedente, inaugurando il corso di filosofia morale nello Studio con la lettura dell'EticaNicomachea: un'ulteriore e precisa scelta di campo, nella Firenze repubblicana ed oligarchica - dove già il Bruni aveva tradotto la stessa opera aristotelica - di adesione ad Aristotele. Tutte queste vicende provocarono però aspre reazioni da parte dei nemici del F., che venivano nuovamente sconfitti.
Il contrasto fra il F. e i suoi avversari, centrato senza dubbio su questioni culturali, riguardava, però, anche altri aspetti, di carattere squisitamente politico, e che dipendevano dalle contrapposizioni partitiche che turbavano Firenze con crescente insistenza a partire dal 1432. Cogliendo lo spunto da un presunto oltraggio arrecato dal F. alla Repubblica di Venezia in un suo discorso tenuto all'oratore veneto, la Signoria, guidata da Dosso Spini, di fedele osservanza medicea, infliggeva al F. un bando di tre anni dalla città. Ma egli - sicuramente appoggiandosi alla coalizione opposta - riusciva a far revocare la condanna, e nel momento del successo indirizzava una delle sue satire più violente proprio contro lo Spini (Sat. I, 1).
Il progressivo acuirsi delle polemiche e delle tensioni, nonostante il costante successo nell'attività didattica, portò all'organizzazione di un attentato contro il F., perpetrato il 18 maggio 1433, mentre egli era appena uscito di casa - abitava in Oltrarno nel chiasso dei Ramaglianti - per recarsi allo Studio. Fu ferito al volto con un coltello da Filippo Casali, del contado di Imola, e la cicatrice gli sarebbe rimasta per sempre. Nel successivo processo lo stesso rettore dello Studio, Girolamo Broccardi - col quale il F. già in precedenza aveva avuto violenti scontri - si accusò come mandante, ma il clamore del fatto e il clima di generale conflittualità portarono a vedere, dietro il sicario, Cosimo de' Medici.
La situazione cambiò radicalmente quando, il 7 settembre, Cosimo e i suoi partigiani venivano esiliati dopo l'affermazione, che sembrava definitiva, della parte oligarchica. Al F. non mancò di partecipare al successo dei vincitori scrivendo una violenta satira contro i Medici, nella quale sosteneva la necessità di un intervento radicale contro di loro, temendone la possibile rivincita (Sat. IV, 1). Ein questa continua preoccupazione il F. visse il breve periodo, undici mesi, in cui i Medici furono in esilio. Tuttavia il 27 giugno 1434 ebbe grande successo leggendo l'orazione Defelicitate al papa Eugenio IV, appena arrivato a Firenze in fuga da Roma. Ma l'opera che meglio testimonia l'adesione del F. al clima culturale, politico ed ideologico della Firenze di questi anni sono le Commentationes Florentinae de exilio.
Con l'arrivo della Curia pontificia a Firenze giungeva nella città anche uno dei più fieri nemici del F., Poggio Bracciolini, legatissimo ai Medici, che contro di lui scagliò ben tre invettive (Opera, ff. 165-187). Il ribaltamento della situazione politica si compiva il 6 ott. 1434 col definitivo rientro di Cosimo a Firenze, e, quindi, con le conseguenti purghe che colpirono gli esponenti della fazione oligarchica, primi fra tutti Rinaldo Albizzi e Palla Strozzi, cioè gli amici più vicini al F., il quale, temendo che anche contro di lui si rivolgesse la vendetta dei Medici, si decise a lasciare la città pur con forte rammarico e commozione (Sat. IV,10): sentimenti, questi, che avrebbe malinconicamente portati con sé per tutta la vita.
Così, alla fine di dicembre arrivò a Siena; la nuova città - che il 29 ottobre lo aveva già chiamato come professore nello Studio per due anni e con lo stipendio di 350 fiorini - appariva al F. come temporaneo ma sicuro rifugio: vi sarebbe rimasto fino al 1438 con soddisfazione, più volte testimoniata (ad esempio in Ep., f. 140v).
Al consenso e agli onori accademici che il F. trovava a Siena - si hanno notizie specifiche di suoi corsi su Giovenale, su Cicerone, su Virgilio - faceva eco, però, un ulteriore progressivo peggioramento dei suoi rapporti con Firenze, dove sempre più prevaleva uno spirito di rivalsa contro gli esuli antimedicei. Così, al F., che in una satira dell'aprile 1436 (Sat. V, 1) chiedeva al duca di Milano di intervenire in armi contro i Medici, i suoi avversari risposero inviando a Siena un sicario: lo stesso che aveva attentato contro di lui a Firenze. Per una serie di favorevoli circostanze il F. poté far arrestare il sicario, il quale confessò il nome del mandante in quel Girolamo Broccardi, che già a Firenze aveva agito contro il Filelfo. Dopo una prima assai mite sentenza, orchestrata con la controparte, e dopo un nuovo appello del F., l'attentatore venne condannato al taglio della mano.
Una rissa che coinvolse gli esuli fiorentini e lo stesso F. provocò una dura risposta da parte della Signoria fiorentina il 20 ag. 1436: in essa si chiedevano provvedimenti restrittivi contro i fiorentini rifugiati a Siena ed esplicitamente contro il Filelfo. Questi cercò di reagire con gli stessi metodi degli avversari, tentando di assoldare un sicario, un greco di Atene, che attentasse alla vita del Broccardi, del Marsuppini e pure di Cosimo de' Medici. Il risultato di tutte queste trame, che coincise con la tenuta del palio di agosto, fu dapprima il taglio delle mani al sicario ingaggiato dal F. e poi una condanna di espulsione dalla città e dallo Stato comminata l'11 ottobre contro lo stesso F., il quale, se fosse stato catturato, avrebbe subito l'amputazione della lingua. Il suo rapporto con Siena era così decisamente compromesso.
Mentre si trovava a Siena - oltre all'invito a fare il traduttore fra greci e latini durante il concilio di Basilea, rivoltogli, fra gli altri, da Enea Silvio Piccolomini - il F. continuò a ricevere molte proposte di trasferimento in altre località. Accettò infine, quelle di Bologna e di Milano.
Arrivò a Bologna il 16 genn. 1439, ma il momento non era favorevole, essendo la città turbata da lotte intestine che portarono al predominio di Niccolò Piccinino per conto del duca di Milano, Filippo Maria Visconti. Di questa situazione il F. lasciò testimonianza in alcune Satyrae; a tale periodo risale anche l'importante lettera a Federico Corner, De legibus, che testimonia, fra l'altro, gli interessi del F. per il diritto romano.
Di fronte ad ulteriori insistenze del Visconti di trasferirsi senza più indugio presso di lui, il F. lasciò Bologna e, dopo aver superato varie incertezze, si recò a Milano intorno alla metà del giugno del 1439. Nei mesi successivi, attendendo sia all'insegnamento sia al disbrigo di commissioni assegnategli dal duca, visse fra Milano e Pavia, finché, l'11 febbr. 1440, tornò definitivamente a Milano, iniziando un nuovo e proficuo periodo di lavoro e di studio che si sarebbe protratto per più di quarant'anni. Ottenuta la cittadinanza milanese, per il F. si apriva una lunga stagione di vita profondamente diversa dalle precedenti: all'impegno profuso nel passato per città in cui vigeva l'ordinamento repubblicano e "democratico" era ora subentrata l'adesione a una corte principesca e tirannica quale era quella di Milano; alla passione ideale che aveva contraddistinto i soggiorni di Firenze e di Siena, e anche di Bologna, succedeva una piatta manifestazione di consenso cortigiano, cui il F. non si sarebbe sottratto negli anni avvenire. Ne risentirono non solo la sua forza polemica, ma anche, e soprattutto, il suo stesso insegnamento e i suoi studi, nonché la scelta degli autori da leggere e da tradurre.
Nel primo anno di insegnamento gli furono corrisposti 500 fiorini, nel secondo 700; lo stipendio gli fu nuovamente aumentato anche quando, lasciata la cattedra nel 1446, il F. divenne ancora più intimo del Visconti. Sul piano politico, da Milano partecipò alle trame degli esuli fiorentini contro Cosimo de' Medici e fece opera di convinzione presso il duca di Milano perché si impegnasse in una guerra di liberazione e restituisse la libertà alla Repubblica di Firenze.
La morte della moglie Teodora, avvenuta il 3 maggio 1441 (fu sepolta in S. Eustorgio), rattristò profondamente il F., che fece rientrare in Italia da Costantinopoli il figlio Giovanni Mario, anche per seguire gli altri figli: due maschi e due femmine. Cercò pure, scrivendo direttamente al papa Eugenio IV, di prendere gli ordini religiosi; ma, superato un primo smarrimento, si fece convincere dal Visconti a sposare Orsina Osnaga, che gli portò una ricca dote.
Negli anni milanesi - contraddistinti ancora da un preciso interesse per Aristotele, del quale fece copiare opere e cercare manoscritti - accanto all'insegnamento il F. espletò numerosi incarichi pubblici, soprattutto la recita di orazioni in elogio o in memoria di personaggi illustri dalle quali prese più volte spunto per ampliare il discorso a temi di più vasta portata.
Nel 1446 il panegirico del duca Filippo Maria Visconti, ancora vivente, che gli fu commissionato dal Senato milanese, offrì la possibilità al F. - al di là delle inevitabili forme di encomio e di adulazione - di delineare l'immagine ideale del principe.
La morte improvvisa, il 13 ag. 1447, del Visconti e i conseguenti sovvertimenti istituzionali milanesi che portarono alla Repubblica Ambrosiana, aggravati dallo stato di guerra con Venezia, spinsero il F. a prendere in considerazione la possibilità di lasciare Milano.
Nel frattempo, mortogli piccolissimo il figlio Olimpo Flavio, al F. morì pure la seconda moglie il 6 genn. 1448: anche per questo rimase a Milano, dove, nel frattempo, Francesco Sforza, cui era stato assegnato il comando delle truppe milanesi, a grandi passi poneva le basi sulle quali poi avrebbe edificato la sua signoria. Il F., con una lettera alle magistrature fiorentine (Ep., ff. 44v-45v), denunciò questa situazione, invitandole ad intervenire contro le mire dello Sforza: ma la politica medicea si muoveva in direzione esattamente contraria ai desideri del Filelfo. Quando poi Carlo Gonzaga, in opposizione allo Sforza, fu eletto capitano del popolo nel corso del 1449 il F. recitò in sua lode un'orazione; un altro discorso in appoggio alla politica dei nuovi governanti recitò ancora poco dopo, legandosi così a metodi di governo che portarono - come poi avrebbe ammesso egli stesso - a gravi turbolenze e degenerazioni.
Quando i Milanesi decisero di chiamare a capo della città Francesco Sforza, il F. fu inserito nella delegazione di dodici cittadini incaricati di recarsi dallo Sforza. Il 26 marzo 1450 questi entrò in Milano; presso di lui il F. trovò festosa ospitalità che lo spinse a rifiutare le offerte di altre città, fra cui Siena, che nel frattempo gli erano pervenute. Forse allo stesso 1450 - ma è possibile anche una data posteriore di due anni - risale il terzo matrimonio del F., questa volta con Laura Maggiolini; ma anche dopo la seconda vedovanza il F. aveva ripetuto la richiesta al papa di essere autorizzato ad entrare in un Ordine religioso nonché quella di essere eletto vescovo per avere maggiori possibilità di sostentamento. Rimase pertanto saldo il suo rapporto con Milano, in un crescente interesse filosofico per Platone, del quale, come già per Aristotele, fece cercare e copiare le opere. E quando il F. pensò di dedicare al re di Napoli, Alfonso d'Aragona, l'Hecatostica, e quindi di trasferirsi alla corte aragonese, lo Sforza gli impedì di partire. Solo in occasione della peste, esplosa a Milano nell'estate del 1451, fu autorizzato a lasciare la città; trovò rifugio a Cremona l'11 sett. 1451 e quindi a Pavia. Tuttavia la propagazione dell'epidemia creò ulteriori problemi che il F. poté superare grazie all'aiuto dell'amico Giovanni Paleologo, marchese del Monferrato. Il 31 dic. 1431, ormai esauritosi il pericolo del contagio, rientrò a Milano. Si portò subito a Lodi, dove si trovava lo Sforza, anche per farsi accordare il permesso di recarsi a Napoli; ma la promessa di un aumento di stipendio lo convinse a rimanere a Milano.
Il desiderio di trasferirsi a Napoli rimaneva sempre vivo nel F., che tuttavia non esitò a rivolgersi, nel frattempo, per aiuti e sovvenzioni anche ad altri signori come Alessandro Sforza, fratello di Francesco e signore di Pesaro (Ep., f. 76v), Ludovico Gonzaga, marchese di Mantova, e Galeazzo Visconti, vescovo di Mantova. Ottenne, finalmente, l'autorizzazione a lasciare Milano e giunse a Roma il 18 luglio 1453, con l'idea di ripartire l'indomani mattina per Napoli, dove era atteso da Iñigo d'Avalos, segretario del re. Visitato prima da Flavio Biondo e poi da Pietro da Noceto, fu ricevuto dal papa, Niccolò V, che volle leggere il volume delle Satyrae predisposto per Alfonso d'Aragona. Il pontefice lo invitò a rimanere a Roma con lo stipendio di 600 ducati d'oro e l'impegno a tradurre opere greche in latino (avrebbe poi tradotto gli Apoftegmi laconici di Plutarco); al momento del congedo gli dette 500 ducati d'oro per il viaggio a Napoli.
Qui giunse il 1º agosto, e subito fu accolto da re Alfonso, il quale, poco dopo, mentre si trovava a Capua, lo creò cavaliere dell'Ordine della stola e gli concesse le insegne gentilizie; anche in altre occasioni gli avrebbe dimostrato la sua stima proponendogli perfino la incoronazione poetica. Il F. cercò anche di attuare un tentativo di riconciliazione fra il duca di Milano e lo stesso re di Napoli, il quale inizialmente si era dichiarato disponibile. Ma la questione venne tralasciata quando si diffuse la notizia dell'arrivo in Italia di Renato d'Angiò, aiutato dallo Sforza, intenzionato a recuperare il Regno napoletano. Il F. ripartì da Napoli il 24 agosto e tornò nuovamente a Roma dal papa, che lo nominò segretario papale. Poi raggiunseTolentino, dove compì opera di pacificazione fra la sua città e San Severo, finché, il 21 settembre, partì nuovamente alla volta di Milano.
La notizia della caduta di Costantinopoli, avvenuta il 29 maggio 1453, provocò grande costernazione nel F., che aveva parenti della famiglia della prima moglie prigionieri dei Turchi. Altri dolori lo colpirono in questi anni: la morte di Francesco Barbaro, avvenuta nel gennaio del 1454, al quale era stato legato da fedele e premurosa amicizia per tutta la vita, e poi quella di Niccolò V, il 24 marzo 1455, con cui era stato in affettuosa e proficua collaborazione culturale e che continuò anche in seguito a ricordare e a elogiare.
L'elezione, il 27 agosto 1458, del nuovo pontefice, Enea Silvio Piccolomini col nome di Pio II, riempì di gioia il F.: il nuovo papa era stato, infatti, suo discepolo a Firenze fra il 1429 e il 1430 e da allora era rimasto con lui in grande amicizia.
Questa si rafforzò nella nuova situazione: oltre al regalo di un codice plutarcheo, già di sua proprietà, il papa fece assegnare al F. una pensione di 200 zecchini annui senza alcun obbligo. Ma poiché dopo il primo versamento il pagamento della pensione fu interrotto il F. decise di recarsi a Roma. Il 19 dic. 1458 partì da Milano; il giorno successivo fu a Mantova e lì passò il Natale con Ludovico III Gonzaga; andò poi a Ferrara, dove fece visita a Borso d'Este, e il 31 dicembre partì per Bologna, finché il 4 gennaio fu a Cesena da Malatesta Novello, quindi il 6 a Rimini da Sigismondo Pandolfo Malatesta, e poi a Fossombrone, dove fu visitato da Niccolò Piccinino, che lo accompagnò verso Roma. Qui fu ricevuto dal papa, ma poco dopo, essendo questi partito da Perugia, anche il F. si rimise in viaggio per tornare a Milano. Quando, nel maggio del 1459, il papa andò a Mantova per organizzarvi un congresso con i principi della cristianità per decidere un intervento contro Costantinopoli, il duca di Milano portò con sé il F., che poi recitò un'orazione ufficiale di encomio per l'iniziativa del pontefice e di stimolo per la sua realizzazione.
Anche per far fronte alla continua necessita di denaro il F. compose e recitò, a partire dal 1458, numerose orazioni, spesso nuziali; compose pure uno scritto consolatorio indirizzato al veneziano Iacopo Antonio Marcello in occasione della morte del figlio Valerio: qui il F., ricordando anche le circostanze della scomparsa del proprio figlio appena nato, consola l'amico spiegando come il pensiero dell'immortalità dell'anima e della vicinanza di Dio possa mitigare il dolore umano.
Più tardi, quando seppe che Pio II - il quale nel luglio del 1463 lo aveva nominato segretario papale: titolo che fu solo onorifico, come già al tempo di Niccolò V - stava organizzando, da Ancona, la partenza della crociata contro i Turchi, si offrì, pur avendo sessantasei anni, di porsi al suo servizio, adducendo la grande conoscenza della Grecia risalente agli anni giovanili. La morte del papa, il 14 ag. 1464, vanificò ogni sua speranza di inserimento nella corte pontificia. Al nuovo papa, Paolo II, il cardinale Pietro Barbo eletto il 31 agosto, il F. inviò, il 15 settembre, una lettera gratulatoria nella quale non lesinava critiche e calunnie al pontefice appena scomparso. E in lettere a destinatari diversi confermava queste sue accuse, che però provocarono le rimostranze, presso lo Sforza, di molti cardinali, tanto che il duca ordinò al F. di non parlare più di Pio II o di parlarne con rispetto; lo stesso F. si pose in trattative di riconciliazione con i nipoti del papa. Nel corso di questi eventi, l'8 marzo 1466, moriva lo Sforza: il giorno successivo, nel duomo di Milano, il F. ne recitò l'orazione funebre, che fu un vero e proprio panegirico del defunto.
Il successore Galeazzo Maria Sforza ridusse lo stipendio del F., il quale denunciò, in una lettera al Simonetta (Ep., f. 192v), le difficoltà che incontrava nella relativa riscossione e le sue limitate risorse economiche. Ma in seguito alla traduzione della Ciropedia di Senofonte, dedicata a Paolo II, poté beneficiare, nel 1468, di un compenso di 400 zecchini. Nel 1469 partì per Siena per riportarvi due suoi nipoti, Giovanni Maria e Arminia - nati dal matrimonio di sua figlia Pantea, sposata con Girolamo Bindotti e assassinata nel 1454 - che erano vissuti con lui a Milano. A Siena si fermò solo due giorni, lasciando la nipote Arminia, perché Giovanni Maria non volle allontanarsi da lui. Lì ottenne un salvacondotto per recarsi a Firenze, dove andò anche a trovare Piero de' Medici.
Nel 1471, per volontà del duca, tornò all'insegnamento, che aveva lasciato nel 1446, iniziando a leggere la Politica di Aristotele. L'elezione, il 9 ag. 1471, di Sisto IV, il cardinale Francesco Della Rovere, dette al F. l'occasione di indirizzare al nuovo Pontefice elogi e celebrazioni non disinteressate, con la speranza di essere chiamato a Roma. Analoga situazione si verificò con Ferrara, quando a Borso, scomparso il 19 ag. 1471, successe Ercole d'Este: ma le speranze del F. non ricevettero soddisfazione, nonostante una lettera da Roma gli comunicasse il desiderio del papa di averlo in Curia con lo stipendio di 500 ducati d'oro. In attesa della chiamata, che però non venne, il F. scrisse a Lorenzo de' Medici chiedendo un salvacondotto per passare da Firenze. Più tardi, nel 1473, chiese di essere inserito fra i professori dello Studio, aperto a Pisa l'anno precedente ma invano: a Firenze il F. continuava ad essere considerato "ribelle" per i fatti di quarant'anni prima.
Pur in queste circostanze, proprio scrivendo a Lorenzo (Ep., ff. 259v-262r), il F. portò un suo contributo sulla questione della lingua italiana, assai più importante di quello sviluppato in una lettera del 1451 al giovanissimo Sforza Secondo, figlio di Francesco (Ep., ff. 61v-62v), in cui discuteva non tanto della lingua volgare quanto di quella parlata dai Romani. Ora, invece, il F. si proponeva come garante e difensore della lingua dotta, e in particolare ciceroniana, istituendo un rapporto specifico fra il latino degli umanisti e il volgare italiano, distinguendo gli scopi funzionali e trascurando l'elemento morfologico. E per evidente intento encomiastico non solo nella corrispondenza coi Medici privilegiò l'uso del volgare quale atto di omaggio a Firenze e alla sua storia culturale (così come nella lettera, oggi perduta, De ideis, rivolta nel 1473 allo stesso Lorenzo, si adeguava alla teoria platonica delle idee per compiacere la dominante cultura neoplatonica fiorentina), ma anche elaborò un catalogo di poeti esemplari testimoni di lingua parlata, tutti fiorentini: Guido Guinizzelli, Guido Cavalcanti, Dante, Petrarca, cui aggiunse Cecco d'Ascoli, a dire il vero estraneo agli interessi laurenziani, ma forse inserito dal F. anche per rivendicare l'apporto venuto da un poeta della sua regione all'elaborazione della lingua italiana.
L'ulteriore delusione fiorentina spinse il F. a rivolgersi nuovamente al papa, e a minacciare, addirittura, di scrivere contro di lui dal momento che non si decideva a chiamarlo. Nell'ottobre del 1474 arrivò l'invito formale del papa per l'insegnamento a Roma con stipendio di 600 fiorini: il F. rispose assicurando il suo arrivo a Roma per il successivo Natale. Il 21 novembre iniziò il viaggio per Roma; si fermò il 25 a Mantova per salutare Ludovico Gonzaga, quindi passò poche ore a Ferrara e da lì giunse a Firenze, dove rimase due giorni senza, però, poter incontrare Lorenzo dei Medici, che era a Pisa. Finalmente raggiunse Roma, dove, ricevuto dal papa, lesse un'orazione di ringraziamento e di encomio per il pontefice, ottenendone in cambio favori e privilegi, fra cui, ancora una volta, l'incarico di segretario papale.
Il 12 genn. 1475 tenne la prima lezione romana con grande plauso degli ascoltatori; ma l'ambiente accademico non era fra i più congeniali al F. dal momento che vi insegnavano personalità come Pomponio Leto e Domizio Calderini, assai lontani da lui per metodo e finalità didattiche. Si sa che oggetto, almeno parziale, del corso furono le Tusculanae disputationes di Cicerone, autore che proprio a Roma godeva ancora di una notevole fortuna e che tornava ad interessare il F. dopo gli anni fiorentini, quando aveva commentato le Tusculanae e Virgilio.
Ottenuto l'assenso del papa a rientrare a Milano, finite le lezioni, per riprendere la famiglia, il 19 giugno 1475 partì da Roma. Dopo una sosta di cinque giorni a Firenze, passò per Bologna e, arrivato a Milano, raggiunse a Pavia lo Sforza, anche per il disbrigo di alcune questioni di carattere diplomatico. Questo periodo felice della sua vita, dopo la sistemazione a Roma, venne interrotto dalla morte di due figli giovanissimi: Cesare Eufrasio, di sette anni, e Federico Francesco, di otto. Per di più la moglie fu a lungo ammalata. Solo sul finire dell'anno il F. poté riprendere il viaggio di ritorno a Roma, ove giunse il 4 genn. 1476; venne ricevuto dal papa, al quale recitò un'orazione, accolta con grande benevolenza e ricevendone doni preziosi. Alla fine delle lezioni di quell'anno, e dopo ulteriori traversie economiche, lasciò Roma, dove incominciava a diffondersi la peste, il 24 apr. 1476, per rientrare a Milano. Passò il 1º maggio a Urbino, dove si fermò da Federico da Montefeltro, che lo onorò e lo beneficò; il 6 fu a Rimini, il 13 giunse a Mantova dal Gonzaga; finalmente il 6 giugno arrivò a Milano (un editto del duca vietava l'accesso in città a chi proveniva da Roma e il Gonzaga dovette interporre i suoi buoni uffici). Solo due giorni prima era morta la moglie, e ciò determinò nel F. grande rammarico e dolore, anche perché dei sette figli avuti da lei i quattro maschi erano tutti morti.
Nel luglio dello stesso 1477 - ormai chiusi i rapporti con Roma - scrivendo a Lorenzo de' Medici il F. si dichiarava soddisfatto delle nuove condizioni che gli erano state offerte da Milano. L'anno dopo, in occasione della congiura dei Pazzi, scriveva di nuovo a Lorenzo per esprimergli la sua solidarietà e la sua disponibilità a porsi al servizio della famiglia Medici.
Passati altri anni d'attesa, e di nuovi contatti epistolari con Lorenzo de' Medici, finalmente, in una lettera del 17 marzo 1481 ad Antonello Petrucci, il F. comunicava di aver ricevuto da Firenze l'incarico di insegnare greco nello Studio: una decisione, questa, che, presa quando il F. era in età così avanzata, potrebbe apparire quasi come una certezza che assai limitata sarebbe stata la sua incidenza se non la sua stessa permanenza a Firenze. Intrapreso comunque il viaggio, arrivò a Firenze intorno alla metà di luglio. Ma dopo pochi giorni, in seguito alle fatiche del trasferimento e al gran caldo estivo che gli avevano procurato una forte dissenteria, moriva il 31 luglio 1481, senza aver potuto prendere possesso della nuova cattedra che gli era stata predisposta.
Con grande pompa ed onori, voluti, sembra, dallo stesso Lorenzo, il F., il 1º agosto, fu sepolto nella basilica della Ss. Annunziata, appartenente all'Ordine dei serviti: nel suo testamento, steso nel 1473, aveva espressamente chiesto di essere sepolto, se morto a Milano, nella chiesa di S. Maria dei Servi. Si era portato a Firenze alcuni dei suoi libri: questi passarono poi nella biblioteca medicea; altri, rimasti a Milano, erano destinati nel testamento alla biblioteca del capitolo della chiesa metropolitana.
Il F., anche se esponente non di altissimo livello della cultura del suo tempo, fu, sicuramente, fra i più versati umanisti del sec. XV, e indubbio punto di riferimento e di richiamo per i contemporanei. Lo testimoniava, già alla fine del Quattrocento, Paolo Cortesi nel De hominibus doctis, dove, accanto alla constatazione dei non pochi difetti umani del F., gli riconosceva pregi intellettuali, e soprattutto il ruolo di straordinario mediatore fra Occidente ed Oriente, fra cultura latina e cultura greca.
Proprio questi appaiono essere i meriti maggiori della lunga vicenda culturale e letteraria del F., un uomo fortemente immedesimato nel suo tempo. Egli fu, infatti, suggestionato da una prepotente volontà di affermazione, che lo pose in polemica con molti altri umanisti, caratterizzando, spesso con grandi tensioni, il suo soggiorno nelle città in cui visse ed operò. E se si scagliò contro politici ed intellettuali che in qualche modo si opponevano alla sua irruenza e alla sua carica polemica, dovette allo stesso tempo subire gli attacchi, spesso altrettanto violenti, dei suoi avversari: dal Bracciolini al Decembrio, da Galeotto Marzio a Lodrisio Crivelli. Ma il F. inoltre, e contemporaneamente, usò le sue indubbie capacità intellettuali in un mero e adulatorio servizio cortigiano: mutevole e scaltro nell'individuare ogni possibile fonte di onore e di lucro. Si capisce così la valutazione negativa che per secoli è stata data sul F., e che spesso ha prevalso su un'oggettiva considenazione del valore dei suoi scritti.
Nella scelta della lingua predilesse il latino e il greco, ma utilizzò ampiamente anche il volgare, seppure - in conformità alla diffusa mentalità umanistica - formalmente disprezzato, come appare da alcune ben precise testimonianze. Così, in una lettera a Marco Aureli, ad esempio, confessa di servirsi della lingua volgare per quegli argomenti di cui riteneva non essere necessario tramandare il ricordo ai posteri ("utimur iis in rebus quarum memoriam nolumus transferre ad posteros": De Rosmini, II, p. 304).
A più di cento opere arriva la produzione letteraria del F. in latino, in greco e in volgare secondo l'elenco da lui stesso lasciato in un testo autografo, conservato nell'Archivio di Stato di Milano, Autografi. Filelfo. Sembra essere andato perduto, invece, l'Inventario dei libri di messer F. F. (su cui De Rosmini, III, p. 53 n. 1), che riportava anche una cinquantina di autori, quasi tutti greci, posseduti, appunto, dal Filelfo. Gli scritti del F., in gran parte dispersi già al tempo della morte dell'autore, solo in numero limitato dispongono di un'edizione critica moderna: anzi sono per lo più inediti o non hanno avuto altre ristampe dopo le prime edizioni apparse sul finire del Quattrocento e nei primi del Cinquecento, quando la fortuna del F. fu di un certo rilievo, mentre nei secoli successivi alla morte sarebbe stata assai ridotta: almeno fino alla biografia di Carlo De Rosmini apparsa a Milano nel 1808.
Fra gli scritti del F. grande spazio occupano le orazioni da lui pronunciate. Il notevole numero e la diversità dei loro argomenti testimoniano senza dubbio la grande fama che circondava il F., nonché la sua capacità retorica, disponibile, in pratica, ad ogni richiesta, indubbiamente basata su una cultura poliedrica, manifestata con notevole abilità, e quindi paludata di grande enfasi. Al F. sono state anche attribuite non poche orazioni risultate poi spurie.
Frutto del lungo impegno didattico sono - oltre alle numerose prolusioni ai corsi universitari - i suoi commenti, rimasti, però, in quantità assai esigua: quello a Giovenale e quello alle Institutiones oratoriae di Quintiliano; altri commenti che andavano sotto il suo nome (come quelli al De officiis di Cicerone, all'Achilleide di Stazio e alle Bucoliche di Virgilio) non sono suoi. Dalla produzione superstite è, comunque, possibile conoscere il metodo di lavoro, critico e filologico del F., che appare legato ad un'impostazione primoquattrocentesca, rimasta poi estranea al rinnovamento portato dalla filologia umanistica del secondo Quattrocento, impegnata nel recupero della tradizione manoscritta e quindi delle lezioni testuali. Il F., invece, trascura ogni rapporto col testo, fondando le sue riflessioni sulla sola interpretazione culturale, sia pure supportata da una straordinaria dottrina e da altrettanto straordinarie risorse linguistiche, grammaticali, retoriche e prosodiche. All'insegnamento è legato anche un altro gruppo di opere, che testimonia proprio la grande preparazione tecnica del F.: le Exercitatiunculae, un glossario greco-latino, una grammatica greca.
Fra i commenti del F. si distingue quello del Canzoniere del Petrarca, composto fra il 1444 e il 1447 ma rimasto interrotto dopo la rima 136. Quest'opera, voluta da Filippo Maria Visconti, ebbe una discreta diffusione manoscritta (sono autorevoli testimoni, ad esempio, i manoscritti berlinesi Hamilton 496 e 501 e i fiorentini Laur. Strozzi 176 e Riccard. 1089) prima della stampa avvenuta nel 1476 a Bologna per i tipi di Annibale Malpighi.
Ampia fu l'attività del F. anche come traduttore dal greco, ma non sempre felice non tanto perché egli mancasse di una profonda conoscenza della lingua, quanto perché spesse volte si accinse alle traduzioni con negligenza e trascuratezza, come fu già notato da alcuni contemporanei, quali Antonio Cassarino, che criticò la versione degli Apoftegmi laconici di Plutarco, dal F. dedicata nel 1453 a Niccolò V. Fra le altre traduzioni del F.: la Rhetorica ad Alexandrum regem dello pseudo Aristotele, dedicata al cardinale Niccolò Albergati e che fu una delle più lette traduzioni del F., l'Orazione in lode degli Ateniesi e quella Contro Eratostene di Lisia, dedicate a Palla Strozzi, il De vita solitaria di Basilio, dedicato nel 1445 al frate Alberto da Sarteano, per il quale aveva tradotto anche il De sacerdotio Domini nostri Iesu Christi apud Iudeos, che poi, trent'anni dopo, avrebbe offerto a Sisto IV nella stampa romana del 1476 (l'opera fu quindi tradotta pure in italiano), il De passionibus corporis e il De flautibus di Ippocrate, dedicate a Filippo Maria Visconti, il De eo quod iuxtum est e tre epistole di Platone, le vite plutarchee di Licurgo e di Numa Pompilio, dedicate all'Albergati, quelle di Galba e di Ottone per Malatesta Novello, quelle di Dione e Cassio per Francesco Barbaro, le Lodi di Agesilao di Senofonte per l'Albergati, gli Apoftegmi a Traiano di Plutarco dedicati a Filippo Maria Visconti, il De republica Lacedaemoniorum di Senofonte.
Ad interessi etico-filosofici - in parte già evidenti nella stessa scelta delle opere tradotte - si ispirano alcuni trattati, generalmente di non ampia estensione, quali il De iustitia, il Della liberalità e di sua lode, il Sermone trattando de libertà, non datati, forse legati in parte al soggiorno fiorentino del F., allora esponente intellettuale della consorteria oligarchica antimedicea, culturalmente suggestionata dagli ideali teorici degli scrittori della Roma repubblicana. Da un afflato morale e religioso derivano, invece, il De morali disciplina, scritto nel 1475, e l'Instructione del ben vivere, composta per Filiberto di Savoia.
Particolare importanza riveste il De morali disciplina, iniziato nel 1473, dedicato a Lorenzo de' Medici con la dichiarata intenzione che l'opera (divisa in cinque libri, ma incompiuta nell'ultimo), trattando di questioni essenziali per la formazione della personalità umana, potesse servire a lui e all'educazione dei suoi figli. Pur attingendo a teorie ben sperimentate della filosofia classica e medievale e quindi cercando un ulteriore accordo fra Aristotele e Platone, il F. dichiara di non attenersi specificamente ad un preciso insegnamento, ma di volersi fondare sulle sue più diverse conoscenze e sulle sue personali meditazioni. L'opera venne tradotta in volgare da un autore ignoto nel sec. XVI nel manoscritto Laur. 76, 69.
Ad interessi biografici e celebrativi risalgono altri scritti in prosa e in poesia, su vari personaggi; fra i primi la vita di Niccolò V e la vita di Francesco Sforza, andate perdute o rimaste incompiute; fra i secondi la Vita di S. Giovanni Battista, scritta per Filippo Maria Visconti nel 1445 in quarantotto canti in terza rima, e la Vita di Niccolò Piccinino, composta in esametri latini, e quindi la Sphortias.
Poema epico in onore di Francesco Sforza, la Sphortias (tramandata dai manoscritti Ambros. H. 97 sup., R. 12 sup., Laur. 33, 33 e altri) non godette di una buona considerazione da parte dei contemporanei, e fu valutata con indifferenza, se non con aperta ostilità. Nel giugno del 1451 il F. aveva già terminato il primo libro dell'opera (Ep., f. 65r); nel 1455 venivano pubblicati i primi quattro libri, mentre nel 1463 altri quattro erano terminati; ma dopo il positivo avvio, il F. cambiò più volte il piano del poema e quindi la sua struttura e composizione: nel 1472 aggiungeva ancora vari versi dopo l'incompiuto libro undicesimo. L'opera avrebbe dovuto celebrare la vita di Francesco Sforza, specialmente nei suoi rapporti con le vicende dello Stato di Milano, ma essa, mentre tende ad un'inevitabile finalità encomiastica, mostra anche di basarsi su specifica documentazione d'archivio - alcune lettere del F. testimoniano le ricerche da lui effettuate - nonché su diretti ricordi e testimonianze anche personali. La narrazione del F. viene a costituire una prima e primaria fonte di notizie su una figura e su un periodo di fondamentale importanza nella storia politica e sociale dell'Italia del Quattrocento: lo riconosceva già Leodrisio Crivelli, autore di una più ampia biografia dello Sforza. Ne risulta, infatti, un quadro di singolare ampiezza, che in certi punti è quasi una cronaca di situazioni e di vicende, raccontate con spirito critico e selezionate in riscontri oggettivi che ne accrescono l'interesse. Lo Sforza emerge sempre come assoluto protagonista degli eventi, come eroe vittorioso nelle più diverse circostanze, ma spesso vi è anche analizzato nella sua umana personalità che, pur nell'enfasi retorica e propagandistica, non si distacca, ma anzi fortemente si inserisce, nel mondo circostante.
Opera fondamentale per la comprensione della personalità del F. sono le Commentationes Florentinae de exilio, dedicate a Vitaliano Borromeo e composte forse prima del 1440, con una retroattiva valutazione delle vicende fiorentine del 1433-34 (il più autorevole manoscritto è il II.II.70 della Biblioteca naz. di Firenze, che però non è autografo, come'in certi casi è stato ritenuto), composte dopo che, nel 1437, il F. aveva scritto una violenta Oratio in Cosmum Medicem ad exules optimates Florentinos. Strutturate a dialogo, le Commentationes avrebbero dovuto comprendere dieci libri - ma il F. non andò oltre il terzo -, rivolti tutti all'esame dei mali e delle negative conseguenze dell'esilio; argomento delle tre parti compiute sono rispettivamente: "de incommodis", "de infamia", "de paupertate". I vari temi sono dibattuti da interlocutori come Palla e Nofri Strozzi, Rinaldo Albizzi, Giannozzo Manetti, Leonardo Bruni, Niccolò Della Luna: membri tutti, autorevoli, della consorteria oligarchica fiorentina costretta a subire, col ritorno di Cosimo de' Medici a Firenze all'inizio dell'ottobre del 1434, la violenta reazione della fazione vincente, intenzionata ad eliminare e a bandire dalla città gli oppositori al nuovo regime. Ma al di là delle preminenti motivazioni politiche, le Commentationes portano anche un contributo nell'ambito retorico, in quanto si presentano pure come un'opera consolatoria (dove viene, fra l'altro, dibattuto il problema della vita attiva e di quella contemplativa), e non solo come uno scritto ricco di contenuti politici.
Opera qualificante il lungo soggiorno milanese del F. sono i Convivia Mediolanensia, del 1443, poi pubblicati più volte a partire dal 1477, distribuiti in due libri, di grande erudizione, dedicati a Tommaso Tebaldi, autografi nel manoscritto Laur. 53, 6. Il primo dei due "conviti" - lo scritto del F. è modellato sul De placitis philosophorum di Plutarco - si immagina tenuto in casa di Giovanni Antonio Rembaldo con la partecipazione di numerosi interlocutori; il secondo in casa di Arasmino Trivulzio con vari altri personaggi. Nella grande varietà delle concezioni esposte - che denunciano evidenti forme di enciclopedismo di stampo preumanistico - non mancano, come del resto in altre opere del F., passi in cui vengono criticate tesi di tradizionali e personali oppositori, quali il Bracciolini, il Niccoli, il Decembrio: naturalmente accanto ad altri di encomio e di apprezzamento di amici, come il Barbaro e il Giustinian.
Nell'intera produzione del F., particolare risalto hanno le Satyrae, la cui composizione, avvenuta dal 1431 al 1449, accompagnò la vicenda umana ed intellettuale del F. in anni per lui cruciali e relativi ai soggiorni di Firenze, di Siena e di Milano. L'opera, in sette libri, fu dedicata al re di Napoli, Alfonso d'Aragona, nel manoscritto ora 772 della Biblioteca universitaria di Valencia (ma importanti sono anche, fra gli altri, il Vat. Reg. lat. 1981, miniato da Ambrogio da Marliano e donato a Pio II dopo la sua elevazione al pontificato e con limitati adattamenti testuali, il G.II.9. della Biblioteca dell'Escorial, che tramanda pure annotazioni marginali dello stesso autore). Il F. iniziò le satire (poi stampate a Venezia nel 1476) poco dopo il suo arrivo a Firenze, quando, già nel corso del 1430, presero corpo le prime polemiche con quell'ambiente fiorentino non troppo favorevole nei suoi riguardi: per lui fu questo, allora, un mezzo contingente di diffusione e di difesa delle sue idee, e quindi anche di invettiva e di lotta letteraria e politica contro le prevaricazioni della parte medicea vincente dopo il 1434.
Con le Satyrae si collegano strettamente, a partire dal 1449, le Odae, nelle quali, al di là delle contingenze polemiche, si esprime lo spirito poetico del F. formatosi soprattutto sulla base di un'assidua ed erudita frequentazione della letteratura classica greca e latina, particolarmente oraziana, ripresa anche nelle variazioni delle forme metriche che contribuiscono a sottolineare la grande novità dei virtuosismi poetici del F. e quindi la raffinatezza e la complessità della sua tecnica, che non trova paralleli ed analogie nelle composizioni in versi del suo tempo. Il F. aveva dapprima offerto, nel 1457, quest'opera al cancelliere di Carlo VII, Guglielmo Orsini, al quale già aveva inviato un codice delle Commentationes Florentinae; poila dedicò a Francesco Sforza. Il piano era quello di strutturare le Odae in cento carmi di diecimila versi suddivisi in dieci libri, e col proposito di dedicare il primo ad Apollo e gli altri ciascuno ad una delle nove Muse; l'opera - dalla quale il F. sperava di ricavare la gloria maggiore presso i posteri - si fermò a cinque libri, composti entro il 1454-55, e venne stampata una prima volta nel 1497 a Brescia da Angelo Britannico e poi, intorno al 1507, a Parigi da Giovanni Granjon; l'esemplare di dedica è il manoscritto Lat. 8127 della Bibliothèque nationale di Parigi, ma importanti sono anche il XXIII;5 della Biblioteca Malatestiana di Cesena e gli autografi Laur. 33, 34 e Vat. Urb. lat. 701. Scritte negli anni delle lotte intestine milanesi, queste poesie riflettono i vari stati d'animo del F., sostanzialmente lontano dall'impegno civile e politico, e più attratto dall'aspirazione al rifugio e all'isolamento letterario, che si traduce in un'aperta e sofferta denuncia della situazione corrente.
Contemporanea alla stesura delle odi è quella degli epigrammi raccolti nel De iocis et seriis, l'ultima silloge di poesie latine del F., alla quale egli continuò a lavorare fino al 1465, ma avendo già diffuso i primi quattro libri a partire dal 1458. Testimone più completo di quest'opera è il manoscritto G.93 inf. della Biblioteca Ambrosiana di Milano; autorevoli sono anche il codice Landi 131 della Biblioteca comunale di Piacenza e il XXIII.4 della Biblioteca Malatestiana di Cesena: quest'ultimo è il codice di dedica della raccolta, offerta appunto a Malatesta Novello. Si tratta di "nugae" contingenti ed occasionali, legate a fatti e questioni isolate e frammentarie e a situazioni quotidiane, da cui non è possibile delineare un quadro d'insieme organico ed omogeneo nonostante il permanere dell'artificiosa strutturazione in libri, dieci di mille versi ciascuno, già seguita in precedenza dal Filelfo.
Ancora legata agli interessi poetici del F. è la raccolta di liriche, in lingua greca, Phychagogia, in tre libri, composta fra il 1457 e il 1465, ma lasciata incompiuta e conservata autografa nel Laur. 58, 15, in redazione più elaborata rispetto ad una anteriore. L'importanza di questa silloge - quasi del tutto inedita, come la stragrande maggioranza delle opere precedenti - consiste soprattutto nell'essere il primo scritto in poesia greca, tecnicamente ineccepibile per la grande padronanza linguistica, non scevra talvolta di forti spregiudicatezze, composto da un umanista italiano. Ma il contenuto complessivo della Phychagogia è piuttosto povero: paludato da enfasi retorica, è spesso determinato da scopi esclusivamente cortigiani, che si mischiano all'ostentata presentazione di motivi e teorie filosofiche e didascaliche raramente organiche e piuttosto confuse. Al F. è stata pure attribuita, nel codice Clm. 5309 della Bayerische Staatsbibliothek di Monaco, una Comedia de amore Phebi et Philogeniae, 1468.
Nell'enorme produzione del F. un valore del tutto speciale ha il suo Epistolario che - variamente diffuso in esemplari manoscritti, fra cui il n. 873 della Biblioteca Trivulziana di Milano, non autografo ma appartenente alla sua biblioteca - fu stampato più volte negli ultimi trent'anni del Quattrocento, prima di avere un'edizione definitiva nel 1502. È uno dei più ampi, se non il più ampio, dell'età umanistica, in quanto le sue lettere in latino sono più di duemila, oltre a quelle in greco ed in volgare; ma certamente è anche uno dei più preziosi per ricostruire la storia culturale del sec. XV. Il F. stesso iniziò a raccogliere e recuperare le proprie missive a partire dal 145 1, e già nel 1473 fece stampare a Venezia una prima edizione che riuniva 1557 lettere distribuite in trentasette libri; ma ne fu pubblicata solo una parte (ottocentosettantasei lettere, cioè i primi sedici libri), che ebbe uno straordinario successo di edizioni successive, ben quindici fino al 1500.Gli altri libri, andati smarriti per varie vicende, sarebbero riapparsi, e quindi stampati, solo nel 1502,mentre il F., dopo le disavventure tipografiche, aveva ripreso a raccogliere nuovamente le sue lettere nel manoscritto Trivulziano 873, che rappresenta sicuramente la sua volontà. Le lettere complessivamente edite vanno dal 1427 al 28 maggio 1477; ma oltre a queste esistono, disperse in biblioteche ed archivi italiani e stranieri (come quelle conservate nell'Archivio di Stato di Firenze, Mediceo avanti il principato, ad Indices), numerose lettere extravaganti, soprattutto in volgare, che attendono ancora di essere censite ed individuate. Naturalmente questo epistolario consente di ricostruire momenti fondamentali nella biografia del F. e meglio comprenderne prese di posizione e scelte intellettuali e personali, ma soprattutto offre un vasto e straordinario quadro d'insieme sulla civiltà umanistica nel suo complesso. All'interno dell'epistolario del F. hanno particolare rilevanza centodieci lettere greche tramandate, oltre che dal Trivulziano 873, anche dal manoscritto 657 della Herzog August Bibliothek di Wolfenbüttel, pubblicate fra il 1890 e il 1892.
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