Francesco Filomusi Guelfi
Il contributo originale di Filomusi Guelfi alla cultura giuridica nazionale consiste nell’aver rivisitato la tradizione enciclopedica, con il suo ambizioso «pensiero dei nessi e delle relazioni» (Del concetto della Enciclopedia del diritto, ora in Lezioni e saggi di filosofia del diritto, a cura di G. Del Vecchio, 1949, p. 169) fra i saperi, in vista della formazione di un canone eclettico della scienza italiana. La cosiddetta questione del metodo nel diritto e nelle scienze sociali, le citazioni dalla storia e dalla filosofia per leggere come problema apertissimo il diritto esistente, la scoperta della società da opporre all’«invadente marea del socialismo» (E. Bruni, Socialismo e diritto privato, 1908, p. 69), costituivano i passaggi obbligati per illustrare alle classi dirigenti uscite dall’unificazione le buone ragioni dell’interventismo dello Stato fra autorità e riforme nella lunga crisi dell’età liberale.
Francesco Maria Filomusi Guelfi nasce a Tocco da Casauria, presso Pescara, il 21 novembre 1842. Studia a L’Aquila, accostandosi alle scienze fisiche e alla matematica, in cui si licenzia nel 1861. A Napoli si trasferisce con l’intento di laurearsi proprio in quest’ultima disciplina, ma poi si iscrive a giurisprudenza, conseguendo il titolo il 25 agosto 1869.
In questi anni, la sua formazione si alimenta sia dell’universalismo della tradizione giuridica meridionale, a partire da Vico, teorico della 'mente comune a tutti i popoli' e dell’accordo tra diritto naturale e diritto positivo, sia delle letture dei classici della storia antica e della letteratura, ritenuti un complemento necessario all’educazione del buon giurista. Nella città partenopea frequenta i corsi hegeliani di Bertrando Spaventa, ed è allievo di Giuseppe Polignani, professore di pandette, e di Nicola De Crescenzio, insegnante di una rinomata scuola di diritto romano. Da questo fecondo apprendistato nasce la serie precocissima di studi sul processo civile romano (Il processo civile contumaciale nel diritto romano, 1873).
Superate con successo il 29 ottobre 1873 le prove del controverso concorso a straordinario di filosofia del diritto presso l’Università di Roma, dinanzi alla commissione composta, fra gli altri, da Angelo Messedaglia, Carlo Francesco Gabba e Filippo Serafini, inizia la sua lunga carriera di docente il 6 dicembre 1873, con una prolusione sui rapporti tra diritto naturale e diritto positivo (Del concetto del diritto naturale e del diritto positivo nella storia della filosofia del diritto, 1874). Professore di introduzione enciclopedica alle scienze giuridiche nel 1876, ordinario di filosofia del diritto nel 1878, è, infine, professore di diritto civile fino al collocamento a riposo nel 1918.
A questo tirocinio permanente si può assegnare la variegata sequenza di interventi pubblici e, dopo la nomina a senatore nel gennaio del 1910, l’impegno parlamentare, concepiti con il piglio teorico di chi intendeva ricondurre questioni anche minori e d’occasione al loro irriducibile nocciolo filosofico ed etico. Si alternano così lo studio sul matrimonio religioso e il diritto alla questione penalistica delle attenuanti generiche, il progetto sul contratto di lavoro dei giornalisti, in qualità di presidente dell’Associazione stampa periodica italiana, ai saggi sulla questione universitaria, gli studi su Dante Alighieri e su Cesare Baronio all’incarico svolto nel 1906 presso la Commissione giolittiana per la riforma della legislazione di diritto privato. Fra gli ulteriori interventi in veste di senatore si può menzionare la difesa dei monumenti d’arte italiana, con la compilazione di cataloghi completi dei beni storici e artistici, e, infine, l’idea di una revisione normativa per la giustizia nell’amministrazione. Muore nella città natale il 22 ottobre 1922.
Così scriveva da Roma nel 1873 Antonio Labriola a Bertrando Spaventa:
mio caro professore […] sono stato all’Università a sentire il concorso per la Filosofia del diritto. Miraglia e Filomusi hanno fatto tutti e due una prova infelicissima […] Ma pure quasi tutta la commissione li tiene per due geni, ed il Messedaglia va strombazzando che le dissertazioni sono due avvenimenti letterari. Uno di loro si dice avrà la cattedra. Lo spettacolo di questa università è davvero miserevole. Per persuadersene basta assistere a questo concorso (A. Labriola, Carteggio (1861-1880), a cura di S. Miccolis, 1° vol., 2000, pp. 347-49, nr. 200).
E ancora, in un’altra lettera: «Saprete dal Miraglia del suo concorso. Ma tutto quello che vi potrà dire sarà sempre al di sotto del vero [...]. Il Filomusi non l'hanno riconosciuto per hegelliano perchè i suoi libri non li avevano letti, e nella discussione si è comportato con prudenza […] Vi dirò poi a voce di tutti gli intrighi che ci sono stati» (A. Labriola, Carteggio (1861-1880), cit., pp. 355-56, nr. 205).
Con queste parole sferzanti, Labriola denuncia liberamente l’aria che si respira nell’università italiana. Qui si aggiravano, come fantasmi, concorrenti mediocri e stralunati commissari che, alla vigilia delle prove di concorso, non avevano ancora letto, neppure privatamente, le pubblicazioni dei candidati. Alla fine, il Consiglio superiore della Pubblica istruzione approvava, con una improvvisa accelerazione, i risultati della commissione. E Labriola osservava: «ed ora non c’è più niente da fare. Io per me confesso di non capirne niente» (Carteggio (1861-1880), cit., pp. 360-61, nr. 211).
La polemica cronaca di Labriola lascia però fuori campo proprio il presunto corpo del reato, il manuale di Enciclopedia giuridica, contraddittoriamente «mai letto dai commissari», come egli sostiene, oppure «l’opera migliore fra quelle presentate», come recitano i verbali della commissione. Viceversa, è proprio quella tradizione di studi, l’enciclopedismo, che il libro evocava a segnare, per molti versi, l’ideologia giuridica italiana tra Otto e Novecento. Al canone eclettico si deve, infatti, una pratica incessante di connessioni e analogie fra tradizioni culturali e modi (metodi) differenti di pensare il diritto, in una sorta di schema aperto di vasi comunicanti tra storia, filosofia e diritto.
Qualche tempo dopo, questo paradigma sarebbe divenuto irrappresentabile dal punto di vista del revisionismo orlandiano, che incitava ad andare a scuola dai cultori del diritto romano e del diritto privato attuale. Vittorio Emanuele Orlando esigeva enfaticamente una ricostruzione giuridica del diritto contro il confuso mosaico di ‘pezzetti’ di filosofia, storia, sociologia, economia e politica all’interno delle scienze giuridiche. A fronte della retorica imperiosa dei «criteri tecnici», metafora del rigore e della scientificizzazione di un diritto sempre più matematizzato (V.E. Orlando, I criteri tecnici per la ricostruzione giuridica del diritto pubblico, 1889, in Id., Diritto pubblico generale, 1940), il fiume carsico dell’enciclopedismo oppone piuttosto una percezione visuale e storica delle geometrie apertissime del giuridico. La stessa immagine delle scienze, che circola nell’Enciclopedia, al contrario della metafora orlandiana, non è un’«algebra» del diritto e dell’economia, ma piuttosto un laboratorio di sperimentazione e di osservazione (A. Messedaglia, L'economia politica in relazione colla sociologia e quale scienza a sé, 1891).
Nella nostra ipotesi, a costituire una parte cospicua dell’ideologia italiana in età liberale, con la sua medietà prudente, provvede il dispositivo dell’enciclopedismo e dell’eclettismo (Lacchè 2010). Filomusi denuncia, senza ipocrisie, le debolezze del genere letterario: «quanto diverso è il concetto, vario il contenuto dei libri che ai nostri tempi sono apparsi sotto questo titolo, opposte le opinioni sul metodo» (Del concetto della Enciclopedia del diritto, cit., p. 155), e, parallelamente, la sua contraddittoria utopia: il «troppo poco» della vocazione introduttiva a vantaggio dei novizi e il «troppo» di una «scienza finale» (Enciclopedia giuridica, 1873, p. 64), di una ambiziosa «scienza delle scienze», con la sua attitudine alla «conoscenza preventiva» dei fatti. Si imponeva allora una riscrittura dell’enciclopedia giuridica all’altezza del presente.
Le metafore e i paragoni disponibili nella lunga storia della testualità enciclopedica in Germania, in Francia e poi in Italia, erano molteplici: panorama, organismo, albero delle scienze, segnalibro nel viaggio di istruzione del giurista pellegrino, guida al labirinto del diritto, carta geografica, lingua, collezione, deposito, lanterna magica, sommità dell’osservatorio sul Paese sottostante. Esse restituivano tutte le asimmetrie dell’enciclopedia: l’illusione di completezza suggerita dal panorama, la sperimentazione circospetta del viaggio di scoperta, la piena conoscenza della costituzione materiale del Paese assicurata dalla padronanza della lingua, la descrittività, apparentemente neutra, della carta geografica. Ma, ciascuna a suo modo, queste figure mettevano a valore l’organo della vista per mostrare in tempo reale all’osservatore il paesaggio in movimento del diritto: «l’unità delle scienze e dei vari rami del diritto è un sistema» e il sistema è un «ordinamento», a cui è necessario «il pensiero delle relazioni e dei nessi [...] di tutte le cose» (Del concetto della Enciclopedia del diritto, cit., p. 169).
In particolare, la metafora dell’osservatorio illuminava la vera funzione del congegno enciclopedico: la «sommità della specola» non avvicina attraverso lo spazio il paesaggio circostante, ma piuttosto raggiunge attraverso il tempo nebulose e corpi celesti in movimento. Così il «pensiero dei nessi» non ripete la «filastrocca dei sistemi», ma mette a lavoro, secondo le circostanze e le necessità, questa o quella tradizione di studi, riducendo alcune di esse «a rudimenti e a fossili», e conferendo ad altre un nuovo valore d’uso (Enciclopedia giuridica, cit., pp. 63 e segg.).
È per l’appunto la cifra sperimentale dello sguardo enciclopedico sul diritto, la sua capacità virtuosa di evocare una scienza per frammenti, nella forma sdrammatizzata di citazioni utili, che accompagna ancora l’indagine di Filomusi sulla codificazione. Come già Gabba (Programma di un corso di diritto civile, 1861, pubbl. in P. Beneduce, Metafore e nomi dell'accordo, in La nozione di contratto, a cura di S. Cherti, 2010), non s'intende scegliere seccamente tra due modelli: l’esegesi del codice, articolo per articolo, alla francese, oppure il sistema dei concetti proprio della deutsche Wissenschaft. Se è vero che il codice civile deve restare invariato, («è bene che nella legislazione vi sia un punto fermo»), è necessario mettere a valore le rappresentazioni del diritto e dello Stato, poiché le loro «variazioni fondamentali», fino a oggi ignorate, «non sono estranee alla concezione di un Codice civile» (La codificazione civile e le idee moderne che ad essa si riferiscono, 1887, ora in Id., Lezioni e saggi di filosofia del diritto, a cura di G. Del Vecchio, 1949, p. 181). In questo modo, il campo del diritto privato non soltanto vede l’irruzione salutare di temi e questioni di diritto pubblico («si è posto il problema se la società sia o no un concetto giuridico»), ma di schiette domande filosofiche in salsa enciclopedica («primo: la società è un soggetto proprio di diritti, come lo Stato e l’individuo, e collocato in mezzo ad essi? Secondo, i rapporti dei gruppi sociali hanno una natura speciale che li differenzia essenzialmente dai rapporti individuali da un lato, dai rapporti di Stato o politici dall'altro?», p. 199).
Per Filomusi la società, con le sue «meravigliose» forme associative, è una «difficoltà nuova» da interpellare senza pregiudizi, «un terzo termine» tra l’individuo e lo Stato (La codificazione civile, cit., p. 199). Nel 1891, Biagio Brugi, nella sua Introduzione alle scienze giuridiche e sociali, osserverà come questa società consistesse in «fatti sociali, istituti, tendenze, sentimenti, bisogni economici, diritto legale e diritto in formazione», aggiungendo che i giuristi «per la tradizionale abitudine di concetti precisi e ben determinati, quali quelli dei rapporti e istituti giuridici», non scorgevano niente altro «di là della rigida cerchia giuridica» (pp. 230-31). Al contrario, la società non era derubricabile a ‘folla’ criminale, fantasma di un nemico interno che agitava da sempre il sonno dell’immaginario liberale, ma, anticipando gli enunciati di Santi Romano sulla crisi dello Stato, un «sistema di gruppi» che reclamavano una forma di associazione e un altro principio d’ordine. Ancora inclassificabile agli occhi dell’accademia tradizionale, quel concetto di società conservava l’unità della nazione in un tempo in bilico tra idee estreme e idee medie (A. Loria, Le idee medie, «Rivista di sociologia», 1895; poi in Id., Verso la giustizia sociale, 1908), imponendo di prendere partito per un’azione sociale di riforma dall’alto (F. Filomusi Guelfi, Sul programma di un partito conservatore riformista, 1908) in funzione antisocialista (E. Bruni, Socialismo e diritto privato, cit., pp. 7 e segg., 81 e segg.).
La storia semplice della questione del metodo si carica pertanto degli umori e delle ragioni di una più complessa questione sociale, dalla rivendicazione di un «autonomo punto di vista amministrativo» alle riforme economiche, fino alla cosiddetta legislazione speciale. Al tempo stesso, la questione del metodo con Filomusi chiama in causa tutte quelle varianti di pensiero sullo Stato interventista, che nella seconda metà del secolo verranno escogitate per fare argine al «socialismo esagerato» di Karl Marx e Ferdinand Lassalle: il cosiddetto socialismo cattedratico, giuridico, di Stato (V. Cusumano, Le scuole economiche della Germania in rapporto alla questione sociale, 1875). Questo 'socialismo' prudente, chiamato alle riforme «senza attriti o urti violenti, senza gravi collisioni» (E. Bruni, Socialismo e diritto privato, cit., p. 42) viene così riclassificato, attraverso Bernstein, soltanto come 'forza metodica con mezzi di compromesso'.
In questa rilettura della questione del metodo, una concezione scientifica del sistema del diritto civile consentiva di riannodare all’esposizione della materia già nota tutta una «serie di rapporti» inediti, che riguardavano ogni altro ramo della «vita giuridica». Filomusi interpella così questi nuovi rapporti sociali, personali ed economici, che «mal si adattavano alle categorie storiche del diritto pubblico e del diritto privato». Leggi nuove come quelle sul lavoro dei fanciulli o sul riconoscimento delle società di mutuo soccorso, i progetti sull’istituzione dei probiviri, i disegni sulla cassa nazionale per le pensioni degli operai e sulla responsabilità dei padroni in caso di infortunio sul lavoro, infine le forme collettive di un’altra proprietà esigeranno anche un’altra idea di Stato, provvidenziale, interventista, non più indifferente all’incandescenza del corpo sociale. La lezione storicistica autorizza il nostro autore ad affrancare lo Stato esistente dall’esclusività della norma positiva, per riassegnarlo alla storia del diritto e della cultura. La nota formula kantiana di Stato di diritto designava soltanto la forma di uno Stato – questa la ‘scoperta’ di Filomusi –, che per l’appunto garantiva «nella forma del diritto» le libertà dei suoi cittadini. Dopo Friedrich Julius Stahl e Robert von Mohl, Lorenz von Stein e Rudolf von Gneist, si era imposta infatti l’idea che quella espressione di Stato di diritto racchiudesse solo «una parte della moderna costituzione» e non il suo ‘scopo’ o il suo ‘contenuto’, i quali, sviluppandosi liberamente, raggiungevano la società nelle sue vene più segrete (La codificazione civile e le idee moderne che ad essa si 'riferiscono', cit., p. 196).
In tale prospettiva, anche la scrittura orizzontale dei libri di Filomusi «ad uso di lezioni» è fortemente coinvolta in questo nuovo lessico della statualità. Così, nei Diritti reali (19102, pp. 101-29) egli si soffermava sull’apparente anacronismo degli usi civici, nel secolo dei codici e della proprietà privata. Specchio delle consuetudini di una comunità, essi avevano mostrato, nonostante le ventate abolizionistiche dei secc. 18° e 19°, una grande vitalità storica, che legittimava senz’altro la loro inclusione nell’ordinamento. Allo stesso modo, trova ampio spazio l’idea, storicamente argomentata, di una ‘espansione’ crescente della demanialità nel diritto vigente.
L’intuizione della sua centralità nel nuovo Stato verrà ripresa nel 1912, quando Filomusi avrebbe provato a tratteggiare la fenomenologia dello Stato coloniale, l’altro lato dello Stato interventista che, dall’interno del Paese, replicava ora se stesso, proiettandosi nelle nuove province eritree e libiche. L’ordinamento avrebbe dovuto ispirarsi al modello romanistico dell’ager publicus. Spettava alla macchina coloniale provvedere alla disciplina della proprietà fondiaria, regolando con equità sia le pretese dei cittadini italiani al lavoro in quei territori, sia i diritti preesistenti dei sudditi del Paese vinto. Filomusi forzava disinvoltamente la natura del diritto musulmano alla ricerca di una efficace rassomiglianza fra la natura religiosa e pubblica propria di quel diritto («tutto è sacro e religioso e la proprietà spetta ad Allah e a Maometto […] un concetto offuscato, antico, ma che rimane nello Stato ottomano»), e la supremazia non meno sacrale del moderno leviatano sopra ogni altra dimensione privatistica. Su queste premesse, l’autore poteva correggere le imprudenti affermazioni del nuovo governatore della Cirenaica e della Tripolitania, circa una «vera e piena proprietà degli indigeni su giardini, orti, campi ed edificii» (Sull’ordinamento della proprietà fondiaria nella Tripolitania e nella Cirenaica, 1912-1913, pp. 95-97). Alle popolazioni indigene restava soltanto la disponibilità degli storici diritti di godimento dei fondi, trasferendosi, senza eccezioni, allo Stato occupante la proprietà e il governo dei suoli.
Nel mondo nuovo dei possedimenti in terra d’Africa, dischiuso dalle guerre di ‘conquista’, muoveva così i suoi passi un altro leviatano, in divisa sahariana del regio esercito, ispirato all’utopia alla Fichte della proprietà legittimata attraverso il lavoro, che si sarebbe però avverata «solo in un nuovo Stato coloniale» (p. 98). Le buone ragioni dell’’incivilimento’ si sostengono ora non più sulla vecchia retorica dell’individualismo proprietario, ma sulla narrazione del paradigma del lavoro e dei suoi doveri nello Stato, per il progresso della nazione ad altre latitudini. Di lì a qualche anno, il fascismo degli inizi, ambiguamente sociale e antidogmatico, metterà via via a regime queste disordinate geometrie interventiste sorte nelle pieghe della crisi liberale.
Enciclopedia giuridica, Napoli 1873.
Il processo civile contumaciale nel diritto romano per l’avv. F. Filomusi Guelfi, Napoli 1873.
Del concetto del diritto naturale e del diritto positivo nella storia della filosofia del diritto, Napoli 1874; ora in Lezioni e saggi di filosofia del diritto, a cura di G. Del Vecchio, Milano 1949, pp. 101-30.
Del concetto della Enciclopedia del diritto. Prolusione al corso di Enciclopedia del diritto, Napoli 1876; ora in Lezioni e saggi di filosofia del diritto, a cura di G. Del Vecchio, Milano 1949, pp. 153-80.
La codificazione civile e le idee moderne che ad essa si riferiscono, Roma 1887; ora in Lezioni e saggi di filosofia del diritto, a cura di G. Del Vecchio, Milano 1949, pp. 181-207.
I diritti reali, Roma 1901, 19102.
Sull’ordinamento degli insegnamenti giuridici, sociali, e politici nelle Facoltà giuridiche, «Rendiconti della R. Accademia dei Lincei. Classe di scienze morali storiche e filologiche», s. V, 1902, 9, pp. 295-308.
Sul programma di un partito conservatore riformista, «Rassegna nazionale», 1908, 162, pp. 3 e segg.
Filosofia del diritto parte storica (periodo moderno) appunti per lezioni, con note di C. Sandirocco, Roma 1910.
Sull’ordinamento della proprietà fondiaria nella Tripolitania e nella Cirenaica, «Atti della R. Accademia dei Lincei. Classe di scienze morali storiche e filologiche», s. V, 1912-1913, 21, pp. 95 e segg.
G. Tarello, La scuola dell'esegesi e la sua diffusione in Italia, in Scritti per il XL anniversario nella morte di P.E. Bensa, Milano 1969.
S. Lanaro, Nazione e lavoro, saggio sulla cultura borghese in Italia. 1870-1925, Venezia 1979, pp. 19 e segg., 89 e segg., 163 e segg.
N. Irti, Francesco Filomusi Guelfi e la crisi della scuola esegetica in Italia e Sull’opera di Francesco Filomusi Guelfi, entrambi in Scuole e figure del diritto civile, Milano 1982, rispettivamente pp. 33-47, 49-56.
P. Grossi, «La scienza del diritto privato». Una rivista-progetto nella Firenze di fine secolo (1893-1896), Milano 1988.
S. Torre, Filomusi Guelfi Francesco, in Dizionario biografico degli Italiani, Istituto della Enciclopedia Italiana, 47° vol., Roma 1997, ad vocem.
A. Marraccini, Sulla vita e le opere di Francesco Filomusi Guelfi. Elementi per una ricerca biografica, «Archivio giuridico Filippo Serafini» 2004, 224, pp. 153-237.
I. Birocchi, A. D’Angelis, Francesco Filomusi Guelfi enciclopedista convinto (con considerazioni sull’inedita “Enciclopedia giuridica”), in Manoscritti, editoria e biblioteche dal medioevo all’età contemporanea, a cura di M. Ascheri, G. Colli, 1° vol., Roma 2006, pp. 97-134.
L. Lacchè, Il canone eclettico. Alla ricerca di uno strato profondo della cultura giuridica italiana dell’Ottocento, «Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno», 2010, 39, pp.153-228.