Francesco Fiorentino e Felice Tocco
«La maggiore felicità, a cui l’uomo possa arrivare, è di essere cittadino di uno Stato libero»: queste parole di Francesco Fiorentino descrivono perfettamente la sua tempra etico-politica, evidenziando una tensione civile che ha innervato dall’inizio alla fine la sua vicenda culturale, ma che nello stesso tempo ha segnato anche la distanza rispetto al suo migliore e più caro allievo, Felice Tocco. Si tratta di due generazioni a confronto su un tema importante, che nel corso degli anni assume un profilo nettamente diverso: dalla passione diretta, impegnata di Fiorentino si passa al fervore erudito, pacato di Tocco; dall’attenzione per la storia della filosofia italiana si approda allo studio dei sistemi filosofici sì come specchio della nazionalità, ma inseriti nella storia dell’umanità.
Il filosofo nasce a Sambiase (l’attuale Lamezia Terme) il 1° maggio del 1834. Inizialmente viene avviato alla filosofia da due zii preti, che gli danno un’educazione religiosa e patriottica, tesa alla costruzione, mai tradita, di una vita retta («non ho l’ambizione della scienza – scriverà Fiorentino in una lettera a Bruno Chimirri – ho una ambizione più alta, quella della virtù»); successivamente frequenta il seminario di Nicastro. Pur avendo seguito all’università studi giuridici, non pratica l’attività forense, ma si dedica alla filosofia, leggendo Pasquale Galluppi, Victor Cousin e Vincenzo Gioberti, la cui opera lo fa innamorare dei Padri della Chiesa, di cui traduce alcune opere. Contestualmente, frequenta un cenacolo di coetanei presso l’Istituto degli Scolopi e rinsalda la sua passione per l’Italia, tanto da imbracciare il fucile al passaggio delle truppe garibaldine. Nel 1860, su proposta di Carlo Poerio assume l’incarico di professore di filosofia al Liceo di Spoleto; ottiene poi il trasferimento a Maddaloni, da cui ogni giorno si reca a Napoli per studiare nelle biblioteche. Il suo carattere polemico e ardimentoso lo porta, da giobertiano, a contrastare Bertrando Spaventa e la sua filosofia; ma l’incontro con le opere di Spaventa si rivelerà fatale, contribuendo a modificare assetti apparentemente saldi.
Nel 1861 scrive, in 28 giorni, un saggio dedicato a Il panteismo di Giordano Bruno che gli vale la chiamata all’Università di Bologna, dove è talmente apprezzato da essere promosso ordinario su istanza della facoltà dopo solo due anni. Nel 1870 viene eletto in Parlamento nel Collegio di Spoleto e siede sui banchi della Destra con Silvio Spaventa; l’anno dopo ottiene il trasferimento all’Università di Napoli, per contrasti con il mondo culturale e universitario bolognese (rimane memorabile uno scontro con Giosue Carducci), giudicato corrotto e demagogico. Dal 1875 al 1880 insegna all’Università di Pisa e lavora all’edizione nazionale delle opere latine di Giordano Bruno. Anche questo periodo è punteggiato da polemiche, una con l’antico amico Francesco Acri per un articolo dedicato alla filosofia italiana, la seconda con Alessandro D’Ancona a proposito dei critici meridionali, Francesco De Sanctis su tutti, biasimati dal grande filologo. Quest’ultima polemica degenera fino alla minaccia fisica con un bastone, si allarga ad altri membri della facoltà e induce Fiorentino a ritornare a Napoli, dove nel 1883 ricopre la cattedra di Bertrando Spaventa. Nell’antica capitale collabora a varie riviste, il «Giornale napoletano di filosofia e lettere», di cui è direttore, e il «Giornale napoletano della domenica» e raccoglie attorno a sé antichi allievi, come Donato Jaja e Felice Tocco. Muore di colera il 22 dicembre 1884 a soli cinquant’anni, lasciando la moglie Restituta Trebbi e i figli Pasquale, Giulia, Ada e Luisa.
La biografia intellettuale di Fiorentino è particolarmente ricca, ma nello stesso tempo singolarmente compatta; la sua ricerca, infatti, si sviluppa in modo organico dai primi studi sui Padri della Chiesa fino alle ultime ricerche sul Quattrocento italiano, seguendo alcune linee precise: la teoria della conoscenza e il rapporto con la dimensione sensibile, la formazione dell’autonomia pratica dell’uomo, il rapporto fra uomo e Dio, al di fuori e al di là dell’istituzione religiosa. Vi sono alcuni testi nei quali Fiorentino teorizza la sua posizione filosofica, che viene poi verificata e misurata attraverso la ricerca storiografica: si tratta, in modo particolare, dell’articolo Del positivismo e del platonismo in Italia pubblicato sulla «Rivista bolognese di scienze e lettere» nel 1867 e della prolusione Positivismo e idealismo che legge a Pisa nel 1876. Ciò che emerge è che il filosofo, sebbene entusiasticamente aperto all’influenza di autori e di tematiche molto diverse, matura un profilo originale al quale rimane sempre fedele. Bene ha scritto Giovanni Gentile, in pagine poco frequentate ma per molti versi significative, che Fiorentino
se mutò alla superficie […] non mutò mai nel carattere essenziale della sua personalità. Fu sempre lo stesso Fiorentino con una individualità di pensatore così distinta da quella de’ suoi contemporanei da riuscire inconfondibile, unica; com’è proprio di tutti gli ingegni originali, capaci di esercitare una grande influenza sull’educazione del loro tempo e di conquistare un loro posto nella storia del pensiero (G. Gentile, Appendice a F. Fiorentino, Ritratti storici e saggi critici, 1935, p. 346).
Gentile allude soprattutto alla grande riflessione condotta attorno alla ricostruzione della storia della filosofia italiana; e lo stesso si può dire dei metodi che Fiorentino applica alle sue ricerche, che non maturano, come a volte semplicemente si è illustrato, dalle suggestioni giobertiane per approdare prima a quelle di Spaventa e poi alle ultime sirene del positivismo.
Al contrario, vi sono alcuni capisaldi, caratteri specifici, cui Fiorentino rimane sempre ancorato: la necessità della ricerca d’archivio, di trovare documenti e testi ignoti o dimenticati di cui si fa brillante e rimpianto editore; e, lontano dal rischio di cadere nell’erudizione fine a se stessa, l’opportunità di leggerli sullo sfondo ampio dei movimenti epocali che si rifrangono, a saperli decifrare, anche nelle esperienze più minute: da qui nasce l’assillo teorico del rapporto fra l’idea e il fatto, fra l’eterna inquietezza dello spirito e la cristallizzazione del documento.
I fatti storici, come spiega nell’articolo del 1867, sono effetto del mutamento spirituale, non causa; l’unico modo per spiegare le leggi dello spirito è quello di studiare lo spirito stesso, e ciò può avvenire solo attraverso la filosofia, il cui contenuto non può però essere ridotto alla scientificità storica, come pretendono i positivisti. Senza idealità, insomma, non si può comprendere se non la nuda fattualità, limitando l’ambito della conoscenza umana; questa convinzione non implica, però, che Fiorentino aderisca al platonismo allora diffuso in Italia e i motivi della distanza da Platone non sono solo filosofici, ma anche etico-politici: il filosofo greco, secondo Fiorentino, ritorna attuale ogni volta che c’è bisogno di una conciliazione tra il mondo nuovo e quello vecchio. Platone ha conciliato l’orfismo e la dottrina di Socrate, ha scritto il Timeo, ma anche il Parmenide; in Italia, attraverso Platone, si cerca di accompagnare la filosofia con la teologia, nella ricerca di una mediazione fra i preti e i filosofi. Ma Fiorentino si oppone a questo programma filosofico: mentre un mondo sta rovinando, quello nuovo ancora non si mostra interamente. I preti sanno quel che sono, i filosofi sanno quel che vogliono, sanno cioè di avere una ragione adulta, che non ha bisogno di tutele esterne: dopo aver rifiutato il diritto divino in politica, lo rifiutano anche in filosofia. Gli ambiti filosofico e religioso devono essere radicalmente distinti, e non confusi; il platonismo che cerca di conciliarli è un fattore di regressione, è la mano del passato che trattiene e condiziona le forme del nuovo. Se il positivismo non può dare delle risposte soddisfacenti alle domande dello spirito, svalutando il momento ideale, nemmeno la filosofia platonica è in grado di cogliere la ricchezza della vita. La sfida aperta dall’esigenza scientifica dell’età moderna può dunque essere raccolta attraverso un ripensamento della filosofia kantiana, come Fiorentino vede molto presto, già a metà degli anni Sessanta.
Quasi dieci anni dopo, nel 1876, Fiorentino leggendo la prolusione pisana, intitolata Positivismo e idealismo, ritorna in modo più netto sul problema del rapporto fra fatto e idea, sostanzialmente riproponendo la soluzione intravista nel 1867, ma con maggiore rigore e ampiezza di riferimenti: se prima parlava di Pasquale Villari e Terenzio Mamiani della Rovere, poi tratta di Auguste Comte, John Stuart Mill, Immanuel Kant e Galileo Galilei; inoltre, nella prolusione si affievolisce e sfuma il problema della contrapposizione fra filosofia e religione, trovando un punto di equilibrio fra diverse prospettive della conoscenza umana che desidera sia cogliere i nessi profondi fra le cose, sia godere della ricchezza dell’arte, della religione. All’interno di questa riflessione, che si apre con sobrietà a quelli che sono gli aneliti più profondi della mente umana, si staglia, come già due anni prima nella lunga ricerca dedicata all’idea di natura nel Rinascimento, la figura di Galilei, il vero fondatore del metodo positivo, che però
sapeva quasi a mente l’Orlando Furioso dell’Ariosto, il creatore di quelle gaie fantasie, tanto discoste dal mondo reale […] A noi il senso del reale e della vita non tolse mai né menomò gli splendori della fantasia e le speculazioni profonde dell’intelletto (F. Fiorentino, Positivismo e idealismo, in Id., Ritratti storici e saggi critici, cit., p. 20).
L’orizzonte civile abbraccia fin dall’inizio l’attività filosofica di Francesco Fiorentino e si intreccia variamente con la sua riflessione più specificamente storiografica, la quale, al di là della pluralità dei temi affrontati, mantiene una sostanziale unità di argomenti e di problemi. Tale coerenza, ottenuta attraverso un alacre lavoro erudito attorno agli autori più significativi – significatività che per Fiorentino, va subito sottolineato, non coincide con fortuna critica – dell’Umanesimo e del Rinascimento e un’attenzione curiosa per le esperienze di lettura e di analisi dell’opera di Platone da una parte e di Kant dall’altra, può essere compresa all’interno del ripensamento della prospettiva spaventiana della ‘circolazione’ del pensiero italiano nell’età moderna. Ma Fiorentino, e in ciò si può riconoscere uno degli elementi di originalità rispetto al maestro Spaventa, allarga l’ambito cronologico di indagine sul pensiero italiano, coinvolgendo anche autori delle età precedenti al Cinquecento e ciò avviene per un motivo strettamente dipendente dalla sua prospettiva civile.
Il progetto del filosofo, infatti, non è soltanto quello di riconoscere nella filosofia italiana del Rinascimento il nucleo vitale della filosofia moderna, che si sviluppa e si arricchisce attraverso la peregrinatio europea; ma è anche quello di definire quali siano i caratteri più specifici della nazione italiana che, nella seconda metà dell’Ottocento, sta vincendo la sua battaglia per l’unità territoriale: la vicenda storica dei popoli della penisola rappresenta il compimento di quel movimento di forze che, prendendo le mosse nel 16° sec., è culminato nella definizione dei grandi Stati europei, come la Spagna, l’Inghilterra, la Francia. In base a questo assunto, Fiorentino può affermare che in Italia vi sono state due età del Risorgimento: la prima culturale, con rappresentanti Bruno, Tommaso Campanella e Galilei; la seconda politica, con rappresentanti Camillo Benso conte di Cavour e Vittorio Emanuele II (ai due importanti uomini politici Fiorentino dedica un ricordo in occasione della morte, celebrandone l’invitta fermezza nel perseguimento dell’unità dell’Italia ed evidenziando del primo il contemperamento dell’ardire con la prudenza, del secondo, «pensoso più d’altrui che di se stesso», la generosa capacità guerriera a favore di tutto il popolo italiano).
Nelle lettere a Silvio Spaventa, pubblicate originariamente nel 1876 sul «Giornale napoletano di filosofia, lettere, scienze morali e politiche», Fiorentino illustra chiaramente la sua posizione, partendo dalla definizione di Stato moderno. Esso si differenzia sia dallo Stato religioso, come quello della teocrazia giudaica, sia dallo Stato guerriero, come quello egizio o persiano, sia dallo Stato greco e romano, produzione libera dell’uomo. Lo Stato moderno innanzitutto acquista il suo nome dal riferimento al luogo in cui si impianta; esso, poi, si appropria di tutta la dimensione spirituale, che nell’età medievale era appannaggio della Chiesa, affrancandosi così da ogni ingerenza esterna nel promuovere i registri civili, le scuole popolari, le università pubbliche. Lo Stato moderno non è più dunque una forza cieca e senza confine, ma una «potestà» che ha come limite ciò che la determina. Fiorentino passa in rassegna le teorie dello Stato, da Luigi XIV, a Thomas Hobbes, a Jean-Jacques Rousseau, criticando la concezione dello Stato come aggregazione atomistica di individui, come garante assoluto, e quindi arbitrario, dei diritti dei singoli. Lo Stato moderno ha una propria dimensione etica che gli deriva dalla nazione, cioè dal vincolo naturale e morale che forma l’insieme della cultura, espressa attraverso l’unità del linguaggio. La fondazione del nuovo Regno d’Italia ha rappresentato un momento essenziale in questo processo: con essa il principio della costituzione nazionale dello Stato si è affermato in modo definitivo. In ciò l’Italia è stata precorritrice, promuovendo l’unione di un popolo che aveva già acquistato la coscienza politica, la consapevolezza della sua autosufficienza (il senso di autarchia, la chiama Fiorentino). Lo Stato in cui ora viviamo, scrive il filosofo,
è il risultato di tutta la nostra storia, della coscienza collettiva di tutta la nazione, non in un giorno solo della sua vita, ma in tutti i secoli […]. L’essere stato il nostro suolo corso e ricorso da conquistatori stranieri non ci ha mai fatta smarrire questa coscienza: i nostri statisti, i nostri storici, i nostri poeti ne hanno gelosamente custodita la tradizione, ed avvivata la speranza […] il nostro Stato, vissuto cinque secoli occulto ne’ penetrali della nostra coscienza, come puro ideale, passò pieno e vigoroso nella realtà della storia (Lo stato moderno, in Id., Ritratti storici e saggi critici, cit., pp. 41-42).
Dalle pagine indirizzate a Spaventa emerge con chiarezza il ruolo dello Stato come fautore di civiltà, un punto cui Fiorentino, che nel 1860 si era aggregato ai garibaldini agli ordini del generale Francesco Stocco, dedica un’attenzione prioritaria. L’uomo che si trova fuori dello Stato, spiega, può vivere libero, ma in modo selvaggio, e l’aggettivo descrive tutta l’illusoria libertà che caratterizza forze prepotenti, insubordinate, reclinate ottusamente su di sé. Per favorire l’incivilimento e limitare l’eccentricità di forze soggettive incontrollate, lo Stato deve comprendere l’importanza della scuola, che è una sua funzione essenziale. E questo per un motivo preciso: lo Stato moderno, cioè il nuovo Stato italiano, s’impianta sulla nazione, ossia sulla moltitudine portata a divenire individualità grazie alla comunanza di arte, di religione, di scienza, ma soprattutto di linguaggio. Conoscere in modo approfondito la cultura della nazione diventa dunque indispensabile per comprendere come i singoli individui siano membra vive dello Stato, canali di trasmissione di quella forza antica che lo anima, dapprima in una dimensione ideale, poi nella realtà storica: l’educazione pertanto deve essere appannaggio dello Stato.
Quando Fiorentino parla di cultura intende in questo caso sia quella letteraria che quella scientifica: la letteratura, la cui importanza è rilevante soprattutto nel passato, si è dimostrata fondamentale per il mantenimento dell’ideale di una patria; mentre la cultura scientifica «mutate le condizioni storiche, è quella che è necessaria a mantenere ed a fortificare il presente Stato italiano» (F. Fiorentino, L’educazione politica e l’università, in Id., Ritratti storici e saggi critici, cit., pp. 51-52), dal momento che l’incivilimento è, per Fiorentino, la capacità di mettere in relazione la conoscenza con la vita, la capacità di stampare sulla natura la forza della propria attività e «le forze selvaggiamente indipendenti far servire a consapevoli disegni» (p. 52).
Fiorentino accompagna la profonda passione civile e l’entusiasmo per l’opera di ricostruzione dello Stato italiano su basi laiche a un intenso lavoro di ricerca storiografica, che anima la sua attività di insegnante nelle università del Regno, fra Bologna, Pisa e Napoli. Le origini della sua ricerca prendono le mosse dall’influenza di Gioberti, filosofo definito di ingegno potente e splendida fantasia, ma soprattutto artefice di un pensiero che voleva cooperare con il risorgimento politico dell’Italia, di
una scienza battagliera e politica, dove la storia dei sistemi era costruita a servigio della nostra nazionalità, con lo scopo manifesto di risuscitare nella nostra coscienza il sentimento della grandezza passata (F. Fiorentino, Considerazioni sul movimento della filosofia in Italia dopo l’ultima rivoluzione del 1860, in Id., Scritti varii di letteratura, filosofia e critica, 1876, p. 7).
Il merito di Gioberti è tutto nel suo patriottismo, nel cantare il primato degli italiani, ma Fiorentino mette in chiaro i limiti della posizione giobertiana, che isola, come un malato, il pensiero italiano dal grande movimento europeo, la cui diffusione è causa della corruzione e della decadenza filosofica della penisola. Fiorentino è pronto dunque ad abbandonare la «bambina illusione» di Gioberti e ad accogliere le osservazioni di Spaventa e il suo progetto di ricostruzione della nostra tradizione filosofica, fatta iniziare con il movimento del «Risorgimento» dei secc. 15° e 16°.
La grandezza di Spaventa viene vista da Fiorentino nella capacità di riportare il pensiero italiano nel cuore dell’Europa, ricostruendone la genesi e la circolazione, rompendo con quella tradizione patriottica asfittica che non leggeva i testi, non conosceva le lingue e rinchiudeva come una «Cina filosofica» la migliore cultura italiana. Spaventa, invece, secondo Fiorentino si è comportato come fanno «i cittadini veramente grandi»: ha messo in risalto le lacune dei filosofi, è ritornato alle origini della schietta filosofia italiana attraverso le figure di Campanella e soprattutto di Bruno, e ha riconosciuto nella loro opera il nucleo di quella che sarà la filosofia di René Descartes da una parte, di Baruch Spinoza dall’altra; Giambattista Vico, inoltre, anticipa e precorre la filosofia kantiana. Ribaltando l’assunto dei primi pensatori patrioti, che la filosofia italiana sia stata imbastardita e fiaccata dalle influenze straniere, Spaventa riconosce nella moderna filosofia europea proprio lo sviluppo e la realizzazione chiara e storicamente matura del pensiero italiano più originale e fecondo.
Fiorentino non solo aderisce all’impostazione spaventiana, ma anzi la arricchisce, da una parte riflettendo sul nesso fra Medioevo e Rinascimento (o Risorgimento), dall’altra delineando la storia della filosofia italiana come storia di libertà. Si tratta di due aspetti significativi, che dimostrano il problema che anima la ricerca di Fiorentino e lo stile con cui lo affronta. Quando Spaventa si è accinto a ricostruire la storia della filosofia moderna ha iniziato la sua indagine dal pensiero rinascimentale, per dimostrare che il nucleo più vivo della filosofia moderna era già operante nel pensiero italiano del Rinascimento. In questa ricostruzione l’obiettivo di Spaventa non è tanto quello di dimostrare l’originalità della filosofia italiana, e quindi ciò che la separa e la rende unica rispetto al resto della speculazione europea, quanto quello di riconoscere in essa, seppure allo stato germinale, i tratti propri della filosofia europea più matura: se un patriottismo mal interpretato irrigidiva e ossificava la filosofia italiana fino a renderla impermeabile rispetto a ogni influenza esterna, Spaventa la fa scorrere e la diluisce in molteplici rivoli che si mescolano ad altre esperienze, in luoghi diversi. Alla contrapposizione geografica, e dunque orizzontale, ‘filosofia italiana fonte di purezza’-‘filosofia non italiana origine di corruttela’, Spaventa risponde con un legame cronologico fra filosofia italiana rinascimentale-filosofia europea moderna, sostituendo a un’alternativa radicale un processo di sviluppo. La partita non si gioca dunque più in ambito territoriale – il campo previsto da Spaventa è infatti l’Europa –, quanto in ambito temporale: ciò che si presenta prima nell’orizzonte europeo si rapporta a ciò che viene dopo secondo una modalità che va indagata con particolare attenzione, non trattandosi di sovrapposizioni o di accostamenti estrinseci.
Fiorentino, giobertiano d’origine, spaventiano d’elezione, attento alle nuove esigenze del positivismo e buon lettore degli autori stranieri, rimescola le carte ripensando in modo diverso i caratteri della filosofia italiana. Complicando le relazioni fra premoderno e moderno, fra età della scolastica ed età del Rinascimento, non individua i loro caratteri solo in rapporto alla prospettiva temporale del prima e del dopo, ma li rintraccia attraverso un minuto lavoro di scavo e li mette in evidenza nella loro irriducibilità a ogni altra esperienza filosofica, che viene intesa da Fiorentino in senso ampio, coinvolgendo Bruno, ma anche Luigi Tansillo (di cui cura una raccolta delle liriche edite e inedite nel 1882); Pietro Pomponazzi, ma anche Dante Alighieri; Bernardino Telesio, ma anche Francesco Petrarca.
Degno di nota è quanto scrive Fiorentino in due interventi del 1875 a proposito di Petrarca (La filosofia di F. Petrarca. Studio e La filosofia della storia nel Petrarca), sottile indagatore dei contrasti della vita, capace di metterli in evidenza in tutta la loro drammaticità. Petrarca è filosofo, dunque, meritevole di attenzione non perché autore di un sistema, ma perché capace di creare le condizioni del filosofare attraversando il dubbio, il contrasto nei confronti dell’autorità. In questo, Petrarca è stato la voce della sua età:
il contrasto – scrive infatti Fiorentino – non tormentava solo l’anima del poeta, ma la coscienza umana in quel secolo, che succedeva alla fede viva del medio evo, e precorreva la critica indipendente del Risorgimento (Scritti varii, cit., p. 102).
L’Italia con Petrarca è stata la prima nazione a risvegliarsi alla ricerca del senso della vita, la prima a mettere in discussione l’autorità che voleva determinare tutti gli spazi umani, ma il tentativo di risveglio non avvenne grazie all’ausilio della ragione, bensì attraverso il sentimento rivestito d’arte. Il primo risorgimento italiano, afferma Fiorentino, è stato dunque artistico; il secondo, scientifico. Bruno è preceduto da Petrarca, il 16° sec. dal 14°: piuttosto che incidere una frattura netta fra Medioevo e Rinascimento, Fiorentino distingue dunque nell’esperienza dei cosiddetti secoli bui figure che, allontanandosi dalla scolastica, si trovano direttamente di fronte alla realtà «per trattarla, valutarla, comprenderla; non credere ma conoscere; non ubbidire, ma esaminare, ma discutere, ma resistere» (p. 103).
Nel pensiero di Petrarca, oltre a una prospettiva filosofica che spinge la sua apertura oltre il sapere ossificato delle classificazioni e dei tecnicismi scolastici, Fiorentino ritrova una prospettiva politica che si può riassumere nell’immagine di Roma – altrove definita «città fatale» (p. 455) –, centrale sia quando si prepara la crociata che deve mantenere salde le tradizioni romane, sia quando occorre dare corpo all’idea di impero:
dell’ideale politico del medioevo non rimane più in lui altra fiducia, che in Roma; rimangono le antiche mura che ancor teme ed ama, e che diedero nascimento al Papato e all’Impero (p. 145).
L’ideale politico della città eterna rimane vivo, grazie alla canzone “All’Italia”, attraverso i secoli e rende Petrarca nostro contemporaneo:
tutti i canti del Petrarca – osserva Fiorentino – non valgono questo solo […] e fu il più moderno, che avesse scritto il poeta, e quello, pur troppo, che per le non mutate nostre condizioni parve sempre a proposito (p. 156).
Il richiamo alla concordia, la prospettiva di collaborazione e di solidarietà fra le città italiane, il disprezzo per gli stranieri rendono Petrarca più moderno di Dante
al quale la salute d’Italia pareva dipendere più dal concorso di circostanze estrinseche, che dalla virtù propria degl’Italiani […] l’Italia moderna è nata storicamente dai ruderi del papato e dell’impero; com’era nata idealmente nella mente di Francesco Petrarca (pp. 158-59).
Se pure il sogno dantesco di una monarchia universale si è consumato, mentre l’ideale petrarchesco è ancora vivo, ciò nonostante anche l’Alighieri ha dato un contributo fondamentale all’unità d’Italia, sia attraverso l’unificazione della lingua e la valorizzazione del volgare, osserva Fiorentino nel 1865 (Dell’armonia del concetto di Dante come filosofo, come storico, come statista), sia attraverso la difesa dell’autonomia dello Stato nei confronti del potere spirituale:
per questo verso l’Alighieri precorre i tempi, e rivive ora tra noi […] come rivivrà in ogni popolo che uscito di fanciullezza vorrà francarsi dalla troppo rigida e molesta tutela dei sacerdoti (Scritti varii, cit., p. 227).
La lettura che Fiorentino compie dei due grandi uomini del Trecento è strettamente intrecciata con il problema politico che lo anima sempre, ma fa anche ben vedere come categorie ritenute consolidate – in questo caso, l’opposizione netta fra Medioevo e Rinascimento – non reggano alla verifica dell’analisi lungimirante dei testi: l’interesse filologico non è proprio solo degli umanisti, ma Dante ne è sommo maestro; la riflessione sulla dimensione fisica non contrapposta alla spirituale è già presente in Petrarca; e, soprattutto, non è Niccolò Machiavelli il primo teorico dell’unità d’Italia ottenuta grazie a un principe non sottomesso alla Chiesa.
Ma vi è un altro aspetto – ed è il secondo punto di originalità rispetto a Spaventa – che da queste letture emerge con evidenza e troverà conferma negli altri testi di storia della filosofia di Fiorentino: piuttosto che concentrarsi sulla fortuna del pensiero italiano del Rinascimento e sulle forme metamorfiche della sua circolazione, egli preferisce analizzarne la storia a ritroso, riandare alle sue fonti, ridefinire minuziosamente dibattiti e ambienti per delineare quello che egli intende essere il carattere più proprio del pensiero italiano, un pensiero di libertà e di liberazione. Se le condizioni storiche avverse, infatti, hanno permesso solo la tarda realizzazione dell’autonomia politica dell’Italia, tutti gli uomini migliori che sono nati nella penisola hanno guardato alla libertà, declinata nelle sue varie forme, come a un ideale da tenere sempre vivo e da perseguire anche a costo della vita. E questo è vero per Paolo Sarpi, al quale dedica un profilo molto attento nel 1869 in cui celebra l’umile frate che «vale più come cittadino, che come scienziato, benché come tale fosse grandissimo» (p. 83): la sua grandezza si è dimostrata in modo particolare in occasione dell’interdetto, quando ha suggerito al doge un comportamento grazie al quale la Curia romana «sentì la prima volta la punta aguzza e tagliente delle armi della ragione e del dritto umano» (p. 91). Evitando le provocazioni vaticane e senza cadere nelle trappole tese dai cardinali, Sarpi si è tenuto come deve tenersi lo Stato: senza ira, senza furori, senza vendette, «ei voleva soltanto, ma voleva potentemente, ed irrevocabilmente» (p. 91). Quella di Sarpi è stata figura complementare a quella di Machiavelli: questi ha dimostrato come si fanno e si dissolvono i principati e quanto sangue richiedano i conquistatori; quegli, come consultore di Venezia e come storico del Concilio di Trento, ha stracciato il velo che nasconde gli inganni della Curia romana e la sua conquista è ancora attuale:
Screditate quelle vecchie arti per le rivelazioni audaci del Sarpi [...] il nostro Parlamento può dire al Capo dello Stato, che, qualunque sia l’evento delle radunanze che si fanno su le rive del Tevere, i nostri destini si compiranno (pp. 97-98).
Gli esempi e le citazioni si potrebbero facilmente moltiplicare, ma quello che vale la pena sottolineare è un punto che risulta essenziale per Fiorentino: la cittadinanza attiva si è estrinsecata negli autori italiani attraverso l’attività storiografica che da luogo di erudizione asettico si è trasformato in campo vivo di confronto e di battaglia di idee. E questo è vero per il frate servita, ma anche per lo stesso Spaventa che ha fatto opera di cittadino riportando l’attenzione sulla tradizione filosofica dell’Italia: come Ferdinando Magellano compie il giro del mondo scoperto prima da Cristoforo Colombo, così Bertrando ha saputo ridisegnare l’infinita varietà dei tratti fondamentali della storia dell’età moderna, dando un disegno preciso a quello che sembrava un labirinto ricco di episodi, ma privo di unità, e lo ha fatto nel momento in cui «la vita nuova cominciava a rifluire nel cuore e nel cervello italiano» (p. 308) e la corrispondenza di eventi, chiosa Fiorentino, solo a «spiriti leggeri» può parere fortuita.
Da una parte, dunque, si combatte con le armi, dall’altra con i libri, se, come scrive già nel 1867 nell’Avvertenza al volume dedicato a Pomponazzi, è vero che la storia è la coscienza di un popolo «e chi non vi attende, non può partecipare a quella vita comune, che sola può ingagliardire, e quasi moltiplicare le forze dell’individuo» (Pietro Pomponazzi. Studi storici su la scuola bolognese e padovana del secolo XVI, 1868, p. 7). Studiare la propria storia, allora, non significa fare cronaca più o meno umile, ma riportare i fatti, hegelianamente, all’altezza dell’universale che riposa direttamente nello spirito umano; per questo può fieramente scrivere quello che potrebbe essere il suo motto: «chiarire ed assodare il compito del Risorgimento [cioè, del Rinascimento] nella Storia della filosofia mi parve perciò opera di buon cittadino» (Bernardino Telesio, ossia Studi storici su l’idea della natura nel Risorgimento italiano, 2° vol., 1874, p. 2 dell’introduzione).
Con il suo problema e con il suo stile Fiorentino si dedica pertanto a un’indefessa opera di indagine sulla storia della filosofia italiana, con la consapevolezza di dover adempiere al compito etico di restituzione della verità: anche per questo forse la sua simpatia va a personaggi appartati, all’epoca poco e mal studiati come Telesio, Tansillo, Pomponazzi al quale dedica un volume di oltre 500 pagine, recuperando materiali inediti. Fiorentino apprezza di Pomponazzi il libro sugli incantesimi, in quanto contiene la critica ingegnosa e sottile, sebbene ancora acerba, al ricorso all’intervento soprannaturale per spiegare la causa dei fenomeni, anche dei più curiosi:
Quei primi tentativi, rozzi e infantili quanto vuoi, contengono il germe di un’impresa grave e seria, di spiegare cioè i fatti non per cause fantastiche, ma per cause reali (Pietro Pomponazzi, cit., p. 408).
Pur valorizzando la rinnovata prospettiva di indagine naturale, Fiorentino concentra la sua attenzione in modo particolare soprattutto sulla critica alle tendenze averroiste che Pomponazzi avanza nella sua riflessione sull’immortalità dell’anima, rifiutando la distinzione fra infinito e ambito umano. Certamente per Pomponazzi l’uomo non può conoscere l’universale puro, ma è altrettanto vero che egli ha «stremata di molto la trascendenza in filosofia, considerato l’intelletto umano come sviluppato dalla potenza della materia» (p. 181). Attraverso un’analisi minuta, Fiorentino dimostra come l’opera di Pomponazzi mantenga solo una reliquia di trascendenza, pur rimanendo fedele alla tripartizione delle anime in umane, separate e divine. Anzi, proprio il recupero della dottrina aristotelica gli permette di mettere in luce il carattere tutto umano della conoscenza, che parte da noi e finisce in noi: le intelligenze separate, infatti, sono «oziose verso di noi, e non turbatrici delle nostre cognizioni»; Dio
contento di sé, non si briga di dardeggiare sopra di noi i soliti raggi […] il nostro intelletto per Pomponazzi è un’ombra di intelletto, ma non richiede maggior luce a scapito della sua natura; è un vestigio, ma che si sviluppa con soli sussidi naturali (p. 170).
Non è però tanto nella teoria della conoscenza che si palesa il vero carattere della filosofia di Pomponazzi, quanto in quella della virtù: è l’attuazione del bene il fine ultimo dell’uomo, attuazione che non ha speranza di essere premiata. In questa prospettiva, Pomponazzi porta un contributo fondamentale all’intuizione della filosofia moderna: se l’anima è mortale, come egli ritiene, e se il fine ultimo dell’uomo è una virtù slegata da ogni ragionamento premiale, allora il divino non ha luogo in questo mondo. L’importanza di Peretto Mantovano viene individuata da Fiorentino proprio nell’esaltazione, seppure limitata, umbratile e alla fine tragica, dell’autonomia della dimensione umana, passaggio fondamentale per aprire il varco a quella che egli ritiene la conquista più solida dell’età moderna, cioè il riavvicinamento della realtà umana e dell’infinito:
La conquista del pensiero moderno è appunto cotesta intimità dell’infinito; conquista annunziata la prima volta da Cartesio, ma preparata di lunga mano dalle pazientissime ricerche, e dalle lotte accanite del Risorgimento italiano (p. 481).
Fiorentino dedica molta attenzione al rapporto fra la filosofia e la scienza, come dimostrano sia le importanti ricerche dedicate a Telesio e all’idea di natura nel Cinquecento, sia la cura, fra il 1879 e il 1884, dei testi latini di Giordano Bruno nel primo volume dell’edizione nazionale: si tratta – oltre alle orationes tenute in Germania e al De monade – dell’Acrotismus camoeracensis e del poema De immenso, cioè di due testi fondamentali per comprendere le critiche al sistema del mondo aristotelico e la fondazione di un universo infinito.
Bruno è un autore di riferimento per Fiorentino: nel 1861 gli aveva già dedicato un lavoro, la sua prima opera scientifica composta occasionalmente in vista di un concorso dal 19 settembre al 17 ottobre del 1861; ma non si tratta di un’opera improvvisata, malgrado la veloce composizione: infatti, l’autore da qualche tempo stava compiendo, come risulta dai materiali inediti, un minuzioso lavoro sulle fonti e su testi come il De la causa, il De immenso e il De monade.
Il saggio, dedicato al panteismo del Nolano, si apre sull’idea di dialettica in Bruno e Fiorentino prende le mosse dal mito, di matrice giobertiana, dell’antica filosofia italica: non a caso, il primo capitolo è dedicato alla dialettica «considerata nelle tre scuole di Crotone, di Elea e di Alessandria». Il problema teorico che qui si affaccia è l’interrogazione sulla natura dell’infinito e del suo rapporto con il mondo (tema che rimarrà uno dei fili conduttori della ricerca storiografica di Fiorentino), mentre l’ultimo capitolo del volume è dedicato alla condizione della filosofia in Italia: il panteismo ritrovato in Bruno è presente, in altre vesti, anche nella seconda metà dell’Ottocento. Dopo aver osservato che il panteismo rappresenta il carattere specifico di quei momenti che stanno realizzando la via di uscita da un’età di mezzo – «il panteismo [è] il sistema in cui s’imbatte lo spirito umano nell’uscire di un evo mezzano» perché, spiega, il panteismo è «mistura e confusione di tutti gli elementi che compongono il mondo, la scienza, e la storia» (Il panteismo di Giordano Bruno, 1861, p. 163) – Fiorentino sottolinea che la confusione di fronte alla quale si trovano i suoi contemporanei è quella fra Stato e Chiesa, in quanto le due istituzioni non riescono a trovare un modo di rapportarsi per cui rimangano distinte, seppur connesse; ciò crea una condizione per cui «il panteismo sorgente di ogni sofistica viene subito fuori, e vizia la vita dell’intelletto, o il pensiero» (p. 163) con riflessi anche nella vita civile.
Nell’anno dell’unità d’Italia, dunque, Fiorentino studia Bruno non sotto la suggestione di quello che diventerà un luogo comune della fortuna nolana nella seconda metà dell’Ottocento – il filosofo campione della libertas philosophandi – ma attraverso le lenti giobertiane:
Scrissi allora il Saggio su Giordano Bruno. Gioberti era ancora il mio Ideale […]. Senonché il Gioberti mio non era sagrestano, era battagliero: era cattolico, sì, ma non si sarebbe curvato alla viltà del Sillabo; ed io fui cattolico a modo suo, scrivendo contro i papi, ed a favore dell’indipendenza del pensiero (La filosofia contemporanea in Italia, risposta di Francesco Fiorentino al professore Francesco Acri, 1876, p. 151).
L’attenzione a Bruno risulta dunque una conseguenza: Fiorentino, impegnato in quegli anni a combattere Spaventa, dopo averlo letto si rende conto della profondità del suo pensiero e decide di dedicarsi al filosofo di Nola, per mettere alla prova, in un certo senso, la teoria spaventiana della circolazione della filosofia italiana attraverso un tema complesso e all’epoca dibattuto come quello del panteismo, di cui venivano accusati Friedrich Wilhelm Joseph Schelling e Georg Wilhelm Friedrich Hegel. Ecco allora che Bruno viene individuato come il primo panteista sistematico, punto di raccordo fra il panteismo antico eleatico e quello dei filosofi tedeschi. Se il panteismo antico ha teorizzato la medesimezza di pensiero ed essere, escludendo la dimensione sensibile, considerata come illusione, Bruno, Spinoza e Schelling ripensano la dimensione naturale cercando fuori del pensiero il centro dell’unità, «onde costituiscono quella serie di panteisti che nella Storia della filosofia si dicono obbiettivi» (Il panteismo di Giordano Bruno, cit., p. 141) e il cui corifeo è Hegel. Ma vi è un’altra tradizione, che fa capo a Pitagora e attraverso Niccolò da Cusa giunge a Nicolas de Malebranche, Vico e Gioberti.
Si tratta di due strade diverse, la prima difficilmente recuperabile all’interno del pensiero cattolico, dal momento che approda alla confusione del mondo attuale con il potenziale; la seconda, invece, in grado di dialogare con la dottrina dei Padri e con la tradizione cristiana, dal momento che, secondo l’insegnamento di Cusano, «il mondo […] è un Dio contratto, perché ogni partecipazione inchiude l’alterità, o la negazione» (p. 161). Pertanto, per Cusano e Gioberti, il mondo è perfettibile all’infinito e non è infinito in atto; per Hegel, invece, la perfettibilità va esclusa, dal momento che egli pone l’infinità attuale. La nostra scienza, spiega Fiorentino, riflette sì l’opera della creazione, ma non produce: solo Dio può iniziare da un astratto, perché può renderlo concreto; la nostra logica, invece, e la nostra cosmologia sono nate assieme, ma non possono confondersi e «non si possono scambiare l’una con l’altra» (p. 162).
Fiorentino attraverso lo studio del panteismo bruniano, delle sue fonti e della sua fortuna, individua le due grandi correnti della filosofia contemporanea, quella della creazione e quella della identità, il cattolicismo e il razionalismo, come le chiama, che si realizzano rispettivamente in Italia e in Germania. Attraverso quest’analisi comparativa, giunge a individuare nella supremazia dell’atto il fondamento della filosofia italiana, mentre quella germanica si basa sulla precedenza della potenza:
onde se all’essere astratto e potenziale dell’Hegel si sostituisce il vero e concreto essere; se all’indefinito si contrappone l’infinito, ed al divenire la causalità, noi avremo la formola cattolica, e scientifica (Il panteismo di Giordano Bruno, cit., p. 160).
È Gioberti, a suo giudizio, che coglie con maggior profondità il legame fra l’antichissima filosofia e la dottrina dei libri sacri: la sua dialettica distingue l’operazione della creazione, attraverso la quale l’infinito determina se stesso, dall’operazione attraverso la quale Dio attua il mondo «il quale in quanto è contenuto in Dio è infinito, perché è Dio stesso; ed in quanto è fuori di lui è essenzialmente limitato» (p. 160).
Questa lunga disamina, che non si può annoverare fra le più riuscite, permette a Fiorentino di rispondere alla teoria della circolazione di Spaventa sostenendo che dopo Gioberti non vi è stata una vera filosofia italiana, limitandosi questa a copiare gli autori germanici, a «intedescarsi» generando solo pallide copie. Il panteismo che turba l’Italia appena nata è il riflesso nella scienza della condizione sofistica che ammorba la vita civile, cioè quella lotta fra Stato e Chiesa che, pur affaticando gli animi, è passeggera:
l’Italia è, e vuole, e deve rimanere cattolica; e noi tutti facciamo voti che in Roma l’odierno conflitto finisca con un inno, che il Pontefice rinsavito scioglierà quandochesia dal Vaticano, benedicendo di cuore al trionfante Re d’Italia (p. 164-65).
Ci vuole, afferma Fiorentino, una nuova filosofia, che sia tutta italiana, libera dai condizionamenti dei sistemi foresti, scevra da miscredenze, capace di muovere gli uomini migliori: una filosofia operosa, «che avvezzi gl’intelletti a profonde speculazioni, ed il cuore a nobili voti» (p. 168).
Già in questo primo saggio agisce uno schema cui Fiorentino rimarrà fedele: la lezione spaventiana viene accolta e discussa, ma nel contempo ampliata; la tradizione italiana viene analizzata su un arco temporale ampio; la storia della filosofia viene individuata nelle sue molteplici sfumature e spinte contrapposte, valorizzando, attraverso la figura di Cusano, l’esperienza filosofica del 15° sec. sulla quale ritornerà nella sua ultima opera, uscita postuma. E agisce, bruciante e vivo, il problema doloroso del rapporto con la Chiesa di Roma.
Per quanto riguarda lo studio della dimensione naturale, Fiorentino ripensando la storia della filosofia italiana trova autori importanti che precedono il gran nome di Galilei, non genio isolato, ma preparato sulla via della scienza dalla riflessione di Telesio, soprattutto, ma anche di Antonio Persio e di Campanella, di Bruno e altri:
Il Risorgimento italiano mirava ad inaugurare la nuova filosofia, nella quale le scienze naturali dovevano staccarsi dalla ricerca speculativa, e suggellare così quella piena indipendenza dell’idea della natura, al cui affrancamento aveva lavorato l’età precedente (Bernardino Telesio, cit., 2° vol., p. 254).
Se per Spaventa nel periodo compreso fra l’età di Bruno e Campanella e quella di Vico non vi è in Italia un filosofo veramente originale, Fiorentino con le sue ricerche dimostra invece quanto sia complessa l’eredità della filosofia naturale rinascimentale e di Galilei in particolare, il cui metodo diede origine a due indirizzi opposti, e perciò imperfetti: da una parte quello di Francesco Bacone, cui bastava la semplice osservazione, e dall’altra quello di Cartesio che si limitava alla speculazione.
La riflessione storiografica di Fiorentino dunque, pur tenendo in gran conto l’importante lavoro di Spaventa, cui lo legherà un lungo rapporto anche d’affetto come testimoniano le lettere, procede secondo linee originali, che intendono da una parte valorizzare sia le fonti che la fortuna del pensiero italiano dell’Umanesimo e del Rinascimento, dall’altra studiarlo nelle sue componenti molteplici, dall’eredità platonica a quella aristotelica, alla ricerca naturale, al difficile rapporto con le dottrine dei concilii. Gli esiti dei suoi lavori vennero letti da Cousin, soprattutto il testo bruniano del 1861, e apprezzati da altri studiosi stranieri, fra i quali Karl von Prantl ed Eduard Zeller, a conferma della novità e dell’importanza di un lavoro di ricerca storiografica che è capace di aprire prospettive ampie e significative per la cultura europea.
Nasce a Catanzaro l’11 settembre del 1845. Scolaro di Spaventa a Napoli dal 1862 al 1865, si laurea con Fiorentino a Bologna. Nel 1868 insegna filosofia in un liceo de L’Aquila; poi passa a Cremona. Nel 1869 inizia a collaborare con la «Rivista bolognese di scienze, lettere, arti e scuole», dove scrive anche Fiorentino con il quale lo lega una lunga consuetudine quotidiana (il maestro lo chiama Felicetto). Nel 1871 viene chiamato alla cattedra di antropologia a Roma, dove rimane fino al 1873 quando si trasferisce a Pisa per insegnare storia della filosofia. Nel 1876 pubblica le Ricerche platoniche che gli permettono di vincere il trasferimento a Firenze all’Istituto di studi superiori. Nel 1882 sposa Cristina Ponzani dalla quale ha 5 figli maschi e una femmina. È membro di molte accademie (dei Lincei, di Napoli, dell’Istituto lombardo, della Cosentina). Rimane a Firenze fino alla morte, sopravvenuta il 6 giugno del 1911 per arteriosclerosi.
Tocco è molto amato per il suo carattere mite, che spesso bilancia l’irruenza di Fiorentino, e per la giovialità e serenità e gli scolari ricordano con entusiasmo e affetto le bellissime lezioni ordinate, lucide, analiticamente definite: ammirate sono le immagini che di Tocco insegnante ci lasciano personaggi come Gaetano Salvemini, Gentile e Giovanni Papini. Tocco ha svolto un’intensa attività sulle riviste internazionali, mantenendo solidi contatti con i colleghi soprattutto tedeschi: già dalla fondazione, dal 1888, entra a far parte della rivista «Archiv für Geschichte der Philosophie», mentre nel 1906 entra a far parte della redazione di «Kantstudien».
L’attività di Tocco si svolge secondo linee molto definite: i primi studi di antropologia e psicologia, le ricerche sulla cronologia dei dialoghi platonici, su san Francesco e il suo movimento, sull’eresia medievale, su Giordano Bruno e Kant. La molteplicità dei lavori, nei quali ottiene risultati di assoluto rilievo e validi in molti casi ancora oggi, è retta da un solido impianto metodologico, consegnato a pochi scritti degli anni Settanta, fra i quali si segnala la prolusione tenuta a Pisa nel 1876 e pubblicata sul «Giornale napoletano di filosofia e lettere, scienze morali e politiche» l’anno successivo.
Il fatto storico non può essere ripetuto, come quello naturale. Per studiarlo, dunque, senza alterarlo è necessario che lo storico lo riproduca mentalmente facendo attenzione che non ci siano documenti o testimonianze che urtino tale ricostruzione: ma l’esperimento storico mentale difficilmente può essere asettico. Eppure ogni tensione valutativa deve essere abbandonata, per lasciare il campo a un’analisi interna al sistema che si vuole studiare fondata sullo studio critico dei particolari, rappresentati dai rapporti con le singole scienze e con le condizioni sociali e religiose dell’età in cui esso ha visto la luce. La filosofia non sorge dal nulla, ma dialoga con gli altri saperi e con la sua storia: Hegel aveva ragione a ritenere che la storia della filosofia fosse un sistema organico e coerente e non un’accozzaglia di opinioni; aveva però torto quando pretendeva di determinare secondo uno schema logico preconcetto gli elementi del sistema. In modo particolare la filosofia vive della comunione con la vita morale che la circonda: «la filosofia venne detto il frutto più maturo di quel grande albero, che è l’attività spirituale di un popolo» (Pensieri sulla storia della filosofia, «Giornale napoletano di filosofia e lettere, scienze morali e politiche», 1877, 5, p. 9). Il pensiero nazionale, continua Tocco, si esprime dapprima nelle forme culturali diverse, poi si riflette nel pensiero filosofico attraverso il quale acquista chiarezza e precisione: «per dirla con termini tecnici il contenuto di tutte queste manifestazioni del pensiero nazionale è lo stesso, ma la forma muta» (p. 9). Ma va sottolineato un aspetto importante: l’orizzonte in cui Tocco colloca la sua riflessione non è quello nazionale, pur se da esso prende le mosse; vi sono infatti sistemi filosofici che, anche riflettendo la coscienza della nazione, la portano a un’altezza ideale tale da renderla specchio della storia del mondo. Per questo, per poter cogliere il valore di una dottrina, oltre il suo valore speculativo, è necessario considerarla in rapporto alle altre scienze, alle istituzioni giuridiche, etiche e religiose non di una singola dimensione nazionale, ma di «tutta la vita intellettuale e morale dell’Umanità» (p. 15).
Se questa è l’impostazione di Tocco, non meraviglia che egli si dedichi direttamente ad alcuni studi scientifici (antropologia, psicologia) che vanno nel senso di meglio definire quello che è lo studio storico di particolari esperienze culturali; ma Tocco, e va sottolineato, si tiene lontano dalle forme spinte di materialismo; aderisce invece alla corrente neokantiana, di cui è un importante esponente e senza dubbio ai massimi livelli europei nell’ultimo scorcio dell’Ottocento.
Su Tocco, come su Fiorentino d’altronde, è pesato il giudizio negativo di Benedetto Croce (che ha bollato il primo come un diminutore di Spaventa, ultimo guizzo di un pensiero morente e filosoficamente depresso), e di Gentile, che accusava entrambi di essere storici della filosofia troppo legati al metodo filologico per poter comprendere il senso interiore della storia. I fatti culturali, che i due studiosi calabresi vogliono mettere al centro della loro indagine, non vengono colti, a giudizio di Gentile, all’interno del processo generale dello spirito, ma sono trattati semplicemente come i fatti naturali.
Nel caso di Fiorentino però, e si tratta di un mutamento trascurato dalla critica, Gentile ripensa a metà degli anni Trenta il giudizio precedentemente formulato: nell’Appendice alla raccolta Ritratti storici e saggi critici, infatti, ne rivaluta il ruolo attraverso una riflessione che mette in primo piano l’intreccio individuato tra il forte carattere etico-politico del lavoro di Fiorentino e la costituzione della prospettiva spirituale e morale del nuovo Stato, che ora Gentile chiama ‘Patria’. Fiorentino ha avuto un preciso problema filosofico che è stato quello di delineare i tratti della storia della filosofia italiana come storia di unità, indipendenza e libertà in cui si tenevano assieme esigenze di autonomia per il pensiero filosofico ed esigenze di autonomia politica, ricostruzione di una via peculiare italiana al mondo moderno e richiamo forte e solenne all’identità statale. La riflessione di Fiorentino risulta, in questo ripensamento gentiliano, il pensiero che non ha nulla sopra di sé e nulla di fronte, il pensiero che è l’autorità suprema:
il pensiero, a cui la stessa religione infine aspira come a suo più autentico interprete, e che, investendo tutta la vita e governando liberamente […] tutte le istituzioni a cui dà luogo, è in sostanza la forza essenziale anche dello Stato (G. Gentile, Appendice, in F. Fiorentino, Ritratti storici e saggi critici, cit., p. 347).
Questo carattere fortemente accentuato manca invece in Tocco, come, a giudizio di Gentile, gli manca un’adesione piena e umana all’oggetto del suo studio: quello di Tocco non è un problema di difetto d’ingegno, ma di metodo, che prevede una pura constatazione di fatti di pensiero, al di fuori di ogni valutazione. Tocco, insomma, risulta privo di quell’ampia prospettiva spirituale, morale, che rende vivo e vibrante, ancorché non del tutto convincente, il lavoro di Fiorentino. E qui forse Gentile coglie un punto di verità: Fiorentino e il suo allievo Tocco hanno poco più di dieci anni di differenza, ma fra loro corre una differenza sostanziale, quella fra chi si è trovato a combattere per lo Stato, e chi invece lo ha trovato già formato; inoltre, il clima culturale in quegli anni è in rapido mutamento, dalla crisi dello spiritualismo prima, dell’hegelismo poi di fronte all’avanzare delle prospettive positiviste. La forte carica patriottica in Tocco non è presente, come manca anche la calda vena militante che ha portato il suo maestro a ricordare Cavour e Vittorio Emanuele II, Giuseppe Garibaldi e il generale Stocco. Quei motivi in Tocco risultano piuttosto sfocati attraverso il filtro dell’erudizione e soprattutto attraverso un interesse preciso per le vicende religiose, che Fiorentino invece ha voluto tenere rigorosamente separate dalle vicende filosofiche italiane, almeno fino agli ultimi studi sui concili del Quattrocento: per un lungo periodo, infatti, ha considerato il rapporto tra filosofia e religione solo dal punto di vista della dimensione conoscitiva e per rafforzare l’autonomia della prima nella ricerca della verità si è trovato costretto ad allontanarla sempre di più dalla seconda, intesa e combattuta come istituzione.
L’interesse di Tocco per l’esperienza religiosa è invece articolato e si snoda dalle ricerche sui francescani a quelle sull’eresia medievale, dall’ansia di rinnovamento di Girolamo Savonarola alla centralità del concordismo in Bruno. Tocco, che di Bruno con Carlo Maria Tallarigo, Vittorio Imbriani, Fiorentino e Girolamo Vitelli è stato sommo editore nonché insuperato studioso delle fonti e dei rapporti fra le opere latine e quelle volgari, nella Conferenza dedicata al Nolano tenuta al Circolo filologico di Firenze nel 1886 riflette sulla religione bruniana, proponendone un’immagine che si stacca da quella ispirata dall’immagine agiografica del Nolano vittima dell’Inquisizione e martire del libero pensiero: Bruno nei confronti della religione ha sempre cercato un punto di conciliazione, dagli anni ginevrini del contrasto con la Cena calvinista fino a quelli veneziani del processo inquisitoriale. In Svizzera e nella città della laguna ha riconosciuto nella religione un potente strumento di educazione popolare. Bruno, dunque, per Tocco non è un moderno critico della religione, come saranno Voltaire o i deisti inglesi: piuttosto è un seguace di Machiavelli e sa bene che senza vincoli religiosi nessuna riforma, nemmeno quella da lui sostenuta, si sarebbe attuata.
Tocco scrive la monografia bruniana due anni dopo aver dato alle stampe la raccolta di scritti sull’eresia medievale, nella quale studia i rapporti fra questa e la filosofia scolastica, in un periodo in cui la fede e la ragione sembravano destinate a un dissidio incolmabile, anche perché i filosofi non erano ancora «usi a infingersi», a dissimulare come invece accadrà nel 17° sec. (L’eresia nel Medio Evo, 1884, p. 6). L’esito della sua indagine è che non vi sia stato rapporto tra la filosofia scolastica e l’eresia: sia sul piano della conoscenza, sia su quello politico che sull’idea dell’uomo, gli eretici svolsero riflessioni che solo incidentalmente si intrecciarono con quelle dei filosofi. Continuando per certi versi la riflessione svolta due anni prima, Tocco nota che Bruno conosceva bene i razionalisti medievali (Giovanni Scoto Eriugena, i maestri di Chartres, David di Dinant, Pietro Abelardo, Raimondo Lullo), ma, al pari di essi, non sviluppa un discorso che va nella direzione di quella che è la nuova forma ereticale, cioè la Riforma. Per Bruno, scrive Tocco, la religione rappresenta dal punto di vista spirituale un grado inferiore: la sua bontà si verifica attraverso la valutazione delle opere che promuove, essendo il suo scopo individuato nella creazione di un vincolo d’amore fra tutti gli uomini. L’utilità e la grandezza della religione si palesano pertanto nella dimensione civile, per la quale essa è necessaria:
quello solo, che qui e altrove desidera il Bruno, è che cessi la superstizione, né più oltre si confonda colla sana religione, e colla superstizione cessi anche l’ignoranza e l’odio contro il sapere (Giordano Bruno, 1886, p. 60).
Secondo Tocco, insomma, Bruno lavora per costruire un rapporto non conflittuale fra religione e sapere, distinguendone rigorosamente gli ambiti: Bruno non è pertanto un sostenitore della contrapposizione tra fede e scienza. Su questo punto, il Nolano, Nicola Copernico e Galilei s’inseriscono nella stessa prospettiva, e Bruno, in particolare, ritiene che la fede e la ragione possano guardare verso lo stesso oggetto, la divinità, seppure in modi diversi: la religione si occupa della verità soprannaturale, la filosofia di quella che si trova entro la natura. Ma la concordanza fra religione e filosofia non deriva per Bruno solo dalla netta separazione di ambiti. Vi sono infatti alcuni argomenti, come gli attributi divini, l’immortalità dell’anima, comuni alla religione e alla filosofia; in questo caso, le due discipline insegnano le stesse cose, ma in modi diversi perché rivolte a pubblici diversi: alla moltitudine delle genti, la religione; alla ristretta comunità dei dotti, la filosofia. Se la critica alla religione non è un tema che sta a cuore al Nolano, quello che è il nucleo della sua riflessione è piuttosto l’interesse scientifico, che primeggia anche sul metafisico: osserva Tocco che fra le opere bruniane solo due hanno un carattere schiettamente metafisico, il dialogo volgare De la causa, principio et uno e la Summa terminorum metaphysicorum, mentre le altre opere hanno un carattere scientifico o etico. E qui sta la sua grandezza, a giudizio di Tocco, che ha sempre ritenuto fondamentale per la filosofia confrontarsi con gli altri saperi, e le scienze in modo particolare. Bruno inoltre non è fautore della doppia verità: pur definendo ambiti diversi per filosofia e religione, ammette alcuni sconfinamenti della prima nell’ambito della seconda e pensa che sia possibile interpretare razionalmente il dogma come hanno insegnato Lullo e poi Cusano. Non dissimula, insomma, e in questo sbaglia, non comprendendo che il clima favorevole al ripensamento filosofico del dogma è definitivamente tramontato: da questo punto di vista Tocco osserva che il processo romano «avrebbe potuto continuare indefinitamente, perché i contendenti pensavano e parlavano, come se fossero vissuti in età affatto diverse e ben lontane fra loro» (p. 87). Con l’età moderna la possibilità del rapporto fra religione e filosofia si assottiglia fino a venire meno: ci vorrà una nuova risposta, che già Fiorentino aveva individuato nella filosofia della religione di Vico, e non nel sincretismo e nel concordismo bruniano che poteva vedere attraverso il metodo allegorico in ogni forma religiosa un concetto profondamente filosofico.
L’opera di Tocco continua e allarga l’ambito della riflessione di Fiorentino, ma nello stesso tempo fa scaturire temi diversi e diversamente considerati, facendo giocare un ruolo molto accentuato alla tecnica filologica, alla ricerca rigorosa, al confronto dei documenti e dei dati: nel volumetto dedicato a Bruno, ad es., ripetutamente ricorda di non voler giustificare o spiegare la condotta del filosofo, quanto di rendere ragione dei fatti, senza mutilarli o contorcerli. Tocco non si pone l’obiettivo di ricostruire la storia della filosofia italiana, non vede in essa quella storia di libertà che aveva animato ed esaltato Fiorentino; gli interessa piuttosto determinare storicamente e con precisione testi (la cronologia dei dialoghi platonici), autori (Bruno e le sue fonti) e i loro rapporti specifici (la filosofia scolastica e il pensiero ereticale) riuscendo a realizzare una storiografia che si tiene lontana da ardite sintesi speculative. Su un altro aspetto la ricerca di Tocco assume un carattere peculiare: il totale disinteresse per quella che è la dimensione intima del filosofo. Se Fiorentino si interroga sulle vite degli autori, ne segue le vicende, Tocco invece non indulge in ritratti psicologici: interpreta i documenti, le opere, senza cercare dietro di essi il noumeno che le ha create.
Vi è un testo di Tocco, però, che Fiorentino (autore a sua volta di un fortunato manuale di storia della filosofia ristampato e ripubblicato molte volte, anche dopo la morte dell’autore, a cura prima di Armando Carlini e poi di Augusto Guzzo) ha definito «un vero servigio alla istruzione liceale» e alla nazione (Scritti varii, cit., p. 71), quelle Lezioni di filosofia pubblicate a Bologna nel 1869. Il libro di Tocco non è una storia, ma contiene un avviamento allo studio filosofico destinato a sostituire i precedenti compendi buoni soltanto, secondo le parole di Spaventa, a educare gli eunuchi del pensiero. Strutturate tutte le lezioni per argomenti, le ultime tre riguardano i doveri etici, i doveri giuridici e la famiglia e lo Stato. A proposito di quest’ultimo, Tocco ne nega il carattere contrattuale e afferma che esso è «ai cittadini, ciò che è l’uomo ai suoi diversi bisogni e tendenze» (Lezioni di filosofia ad uso dei licei, 1869, p. 491). Solo nello Stato il singolo può perseguire la propria perfezione, e senza di esso l’uomo ritorna a una dimensione inorganica: lo Stato è per l’individuo ciò che il cuore è per il corpo umano. Oltre a garantire l’uscita dalla dimensione puramente naturale, garantisce anche l’unità del popolo: un popolo senza Stato non avrà mai piena consapevolezza di sé. Si tratta di alcuni accenni che ritornano nel corso della lezioni: di essi però non si troverà più traccia significativa nelle opere di Felice Tocco.
Il panteismo di Giordano Bruno, Napoli 1861.
Bernardino Telesio, ossia Studi storici su l’idea della natura nel Risorgimento italiano, 2 voll., Firenze 1872-1874.
La filosofia contemporanea in Italia, Napoli 1876.
Scritti varii di letteratura, filosofia e critica, Napoli 1876.
Manuale di storia della filosofia ad uso dei licei, 3 voll., Napoli 1879-1881.
Jordani Bruni Nolani Opera latine conscripta, recensebat F. Fiorentino, 1° vol., tt. 1-2, Neapoli 1879-1884.
Il risorgimento filosofico nel Quattrocento [opera postuma a cura di V. Imbriani], Napoli 1885.
Studi e ritratti della Rinascenza, a cura di L. Fiorentino, Bari 1911.
Ritratti storici e saggi critici, raccolti da G. Gentile, Firenze 1935.
D. Bosurgi, Francesco Fiorentino, «Logos», 1932, pp. 278-87.
R. Mondolfo, Francesco Fiorentino, in Id., Da Ardigò a Gramsci, Milano 1962, pp. 45-97.
G. Gentile, Il neokantismo e Francesco Fiorentino, in Id., Storia della filosofia italiana, a cura di E. Garin, 2° vol., Firenze 1969, pp. 443-60.
P. Landucci Ruffo, Note su Francesco Fiorentino storico della filosofia del Rinascimento, in Ricerche sulla cultura dell’Italia moderna, a cura di P. Zambelli, Roma-Bari 1973, pp. 255-71.
L. Malusa, La «scuola» di Bertrando Spaventa e Francesco Fiorentino, in Id., La storiografia filosofica italiana nella seconda metà dell’Ottocento, I, Tra positivismo e neokantismo, Milano 1977, pp. 71-244.
L. Lo Bianco, Fiorentino Francesco, in Dizionario biografico degli Italiani, Istituto della Enciclopedia Italiana, 48° vol., Roma 1997, ad vocem.
F. Cacciapuoti, Bruno nelle ricerche sul Rinascimento di Francesco Fiorentino, in Brunus redivivus. Momenti della fortuna di Giordano Bruno nel XIX secolo, a cura di E. Canone, Pisa-Roma 1998.
S. Ricci, Bruno e il panteismo: Fiorentino tra Gioberti e Spaventa, in Id., Dal “Brunus redivivus” al Bruno degli italiani. Metamorfosi della nolana filosofia tra Sette e Ottocento, Roma 2009.
Lezioni di filosofia ad uso dei licei, Bologna 1869.
Studi sul positivismo, «Rivista contemporanea nazionale italiana», 1869, 57, pp. 329-39.
Ricerche platoniche, Catanzaro 1876.
Studi antropologici, «Giornale napoletano di filosofia e lettere, scienze morali e politiche», 1876, 3, pp. 381-419; 4, 533-65.
Pensieri sulla storia della filosofia, «Giornale napoletano di filosofia e lettere, scienze morali e politiche», 1877, 5, pp. 1-15.
L’eresia nel Medio Evo, Firenze 1884.
Giordano Bruno. Conferenza, Firenze 1886.
Jordani Bruni Nolani Opera latine conscripta, curantibus V. Imbriani, T. Tocco, C.M. Tallarigo, H. Vitelli, 1° vol., t. 3-3° vol., Florentiae 1886-1891.
Le opere latine di Giordano Bruno esposte e confrontate con le italiane, Firenze 1889.
Le opere inedite di Giordano Bruno, Firenze 1891.
Le fonti più recenti della filosofia del Bruno, Roma 1892.
Studi francescani, Napoli 1909.
Studi kantiani, Palermo 1909.
Lezioni su Kant di Felice Tocco. Studio ed edizione, a cura di G. Raio, Napoli 1988.
Savonarola profeta e ribelle, a cura di F. De Giorgi, Genova 1998.
R. Mondolfo, La filosofia di Giordano Bruno e la interpretazione di Felice Tocco, «La cultura filosofica», 1911, 5, pp. 450-82.
G. Gentile, Lo svolgimento della filosofia bruniana, in Id., Giordano Bruno e il pensiero del Rinascimento, Firenze 1920, pp. 67-85.
G. Gentile, Felice Tocco, in Id., Storia della filosofia italiana, a cura di E. Garin, 2° vol., Firenze 1969, pp. 461-75.
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L. Malusa, Felice Tocco, in Id., La storiografia filosofica italiana nella seconda metà dell’Ottocento, I, Tra positivismo e neokantismo, Milano 1977, pp. 247-396.
N. Urbinati, Felice Tocco e la psicologia scientifica, in Studi sulla cultura filosofica italiana tra Ottocento e Novecento, a cura di W. Tega, Bologna 1982, pp. 11-39.
G. Landucci, Studi su Herbart: un inedito di Felice Tocco, «Atti e memorie dell’Accademia toscana La Colombaria», 1983, 48, pp. 87-146.
Trattato elementare di psicologia. Un manuale inedito di Felice Tocco, a cura di N. Urbinati, «Atti e memorie dell’Accademia di scienze e lettere La Colombaria», 1984, 49, pp. 181-255.
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