FOSCARI, Francesco
Nacque a Venezia, nei primi mesi del 1460, da Alvise del procuratore Marco (fratello del doge Francesco) e da Orsa Lippomano di Nicolò.
Poco si sa del padre; certo non fu personaggio di spicco: divenne senatore, fu tra gli elettori del doge Nicolò Marcello e non visse a lungo; del resto la precaria salute afflisse quasi tutti i membri della famiglia, perlomeno nei secoli XV e XVI: l'unico fratello del F., Domenico, morì nel dicembre 1501, molto probabilmente in giovane età.
Sicuramente alla data dell'8 ott. 1481 il F. era già orfano - secondo quanto appare da una lite che lo vedeva contrapposto allo zio paterno, il cardinale Pietro -, ma ricco, dal momento che il 18 ag. 1483 acquistava per 5.610 ducati, in unione con un altro zio, Giovanni, la gastaldia di Santa Croce nel Trevigiano, già appartenuta ai da Romano e posta in vendita dalla Repubblica nelle emergenze della guerra di Ferrara: vasta e fertile proprietà che, dopo esser stata parzialmente alienata ad Andrea Bragadin di Girolamo per 2.840 ducati (15 ott. 1487), risultava pur sempre superiore ai 2.300 campi.
Furono probabilmente gli altri esponenti della famiglia, con cui il F. conviveva nel palazzo a S. Simeon Piccolo, a decidere queste operazioni, quali forme d'investimento dei proventi della loro attività commerciale (nel 1499 anche il F. risulta titolare di una nave da carico della portata di 300 botti); egli infatti preferì occuparsi prevalentemente della carriera politica, alla quale si accostò non appena ebbe conseguito l'età prevista, ricoprendo il saviato agli Ordini nel 1485 e poi ancora l'anno successivo.
Nel 1486 il F. sposò Elisabetta Vendramin, nipote del doge Andrea, dalla quale ebbe tre figlie (tutte accasate presso cospicui personaggi: Chiara con Francesco Pesaro di Marco; Maria con Fantino Corner Piscopia di Girolamo; Bianca con Marco Grimani, che fu procuratore di S. Marco e, rimasto vedovo nel 1526, patriarca di Aquileia) e un unico maschio, Alvise, morto nel 1509, dopo che nello stesso anno era stato presentato alla Balla d'oro e si era sposato (senza frutto) con Maria Badoer di Benedetto.
Dopo il brillante esordio, il curriculum del F. proseguì con cariche minori, di puro ambito cittadino e ricoperte saltuariamente: il 5 marzo 1488 entrava uditore alle Sentenze Vecchie (ma ne usciva anzitempo il 5 ottobre), e il 21 ott. 1490 provveditore alla Camera d'imprestidi: in tale veste, nell'aprile 1496, insieme con i colleghi Pietro Francesco Barbarigo e Giacomo Venier, denunciava un ammanco di ben 15.000 ducati nel deposito del Monte Vecchio.
A quella data, peraltro, il F. era già stato eletto ambasciatore presso l'imperatore Massimiliano (18 febbr. 1496): la nomina, consentendogli di mettere in evidenza notevoli capacità diplomatiche, avrebbe costituito una svolta decisiva per la sua carriera, così da collocarlo tra i principali responsabili della politica veneziana.
Sembrava infatti imminente una discesa dell'imperatore in Italia, auspicata soprattutto da Ludovico il Moro, timoroso dell'influenza veneziana su Pisa; quanto alla Repubblica, anch'essa ne sollecitava la presenza al di qua delle Alpi, ma per opposte ragioni, ossia in funzione antifrancese: la posta, in questo caso, era rappresentata dai porti pugliesi. Per la primavera del 1496 Massimiliano aveva indetto una Dieta a Francoforte, nella quale sperava di riuscire a convincere i principi tedeschi ancora avversi all'avventura italiana, che prevedevano pericolosa a motivo dell'atteggiamento degli Svizzeri, e costosa, nonostante i contributi promessi tanto da Milano quanto da Venezia; in considerazione dell'aprirsi di una nuova fase della politica imperiale, l'ambasciatore accreditato presso Massimiliano, Zaccaria Contarini, aveva chiesto e ottenuto il rimpatrio, e al suo posto era stato nominato il Foscari.
La missione ebbe inizio il 23 maggio 1496 e il successivo 13 giugno il F. era già a Landsberg, presso Ulma, dove due giorni dopo otteneva udienza da Massimiliano, insieme col Contarini; di lì entrambi si portarono ad Augusta per incontrare l'arciduca Filippo, al quale il F. rivolse l'orazione di rito. Congedatosi dall'imperatore il Contarini, toccò al F. continuare l'opera, facilitato in questo da un primo esborso, effettuato tramite il podestà di Rovereto, di 18.000 ducati nei forzieri imperiali; seguì dunque Massimiliano alla volta del Tirolo e con lui valicò le Alpi. Alla fine di luglio l'imperatore si recò a Bormio dove l'attendeva il Moro, da cui ricevette altri 30.000 ducati e la promessa di un contingente di 1.000 uomini. Questi soccorsi tuttavia non valsero a risolvere le perduranti difficoltà; a leggere i dispacci del F. si ha infatti l'impressione che l'imperatore fosse incerto sull'opportunità dell'iniziativa (pur mascherata dal desiderio di farsi incoronare a Roma). Ne derivarono tempi difficili per il F., che aveva seguito la corte in Valtellina: la Signoria infatti aveva negato (quantomeno nell'immediato) ulteriori soccorsi, temendo di giovare alla causa del duca di Milano, perché una spedizione di Carlo VIII in soccorso dei Francesi rimasti a Napoli era ormai giudicata del tutto improbabile, mentre il Moro sembrava ora aspirare all'infeudazione di Pisa, minacciata dai Fiorentini. Il 18 agosto da Tirano il F. comunicava alla Signoria che Massimiliano era visibilmente irritato dalle tergiversazioni dei Veneziani. Il 5 settembre, giunto ormai a Vigevano, l'imperatore proibì al F. di frequentarlo e lo stesso fece con Marco Dandolo, ambasciatore della Repubblica presso Ludovico il Moro dicendo - scrive il Malipiero - "che 'l non vuol compagnia; e 'l Foscari ghe ha domandà come 'l saverave dove trovarlo quando l'havesse da negociar; e ghe ha resposo che 'l lo saverà da Ludovigho: in modo che tutti do è fatti suspetti". La spregiudicata condotta dell'imperatore, tuttavia, alla fine risultò premiata e Venezia si accollò le spese della "liberazione" di Pisa.
A fine mese, dunque, Massimiliano si portò a Genova e di lì sulle rive dell'Arno, mentre i Francesi, alleati a Firenze, mandavano rinforzi a Livorno; in Toscana l'azione diplomatica del F. subì forzatamente un ridimensionamento, per il prevalere delle esigenze militari: a Pisa la Repubblica aveva da tempo dislocato una squadra navale sotto il comando di Domenico Malipiero, e alcune compagnie di stradiotti agli ordini dei provveditori Domenico Dolfin e Giustiniano Morosini; pertanto divennero soprattutto costoro gli interlocutori di Massimiliano, le cui modeste truppe non apportarono tuttavia gran giovamento alla campagna in atto.
Questa situazione di stallo - rispecchiata nei dispacci del F. al Senato, brevi e possibilisti, assai lontani dall'incisiva chiarezza di un tempo - finì per risolversi negativamente con la sconfitta inflitta dai Francesi agli Imperiali il 29 ottobre; niente più che una scaramuccia, pure bastò per porre termine alla spedizione in Italia di Massimiliano, che riprese subito la via della Germania.
Il F. prese congedo dall'imperatore (che lo creò cavaliere) a Pavia, il 10 dicembre, passando le consegne all'esperto segretario Giovan Pietro Stella; accusando cattiva salute aveva infatti ottenuto il rimpatrio, secondo quanto sappiamo dal Sanuto, giacché i suoi dispacci si interrompono alla data del 4 novembre. Il 24 il F. era a Venezia e due giorni dopo leggeva la relazione; era rimasto accanto all'imperatore cinque mesi, dunque abbastanza poco e per di più nel corso di una congiuntura non facile, eppure era davvero riuscito a guadagnarsene la fiducia, come prova una lettera confidenziale di qualche tempo dopo, in cui Massimiliano lo pregava di procurargli un leopardo, da esibire a corte.
Nei mesi che seguirono, il F. badò soprattutto ai suoi interessi domestici: dal momento che egli aveva ormai alcuni figli (e così pure il cugino Agostino, mentre un altro, Marco, era a sua volta in procinto di sposarsi), l'unità della famiglia andava rendendosi problematica; pertanto tra il 1497 e il 1498 i congiunti procedettero a una separazione dei beni sino allora goduti in comune, e in seguito - in un periodo compreso tra il 1507 e il 1515 - il F. lasciò il palazzo a S. Simeon Piccolo per trasferirsi a S. Marina, nel sestiere di Castello.
Eletto senatore e quindi revisore sopra i Banchi, il 5 apr. 1498 il F. accusò di truffa Antonio Rizzo, "maistro deputado a la fabricha dil palazzo", provocandone l'esilio ad Ancona, e un mese dopo accettava la nomina di podestà a Vicenza.
Rimase colà sino all'estate del 1499, occupato ad approntare le 500 "lanze" richieste dalla Signoria per le truppe che continuavano a operare in Toscana, a fianco dei Pisani; e sempre per la stessa ragione nel febbraio 1499 si era recato a Ghedi, nel Bresciano, a prelevare il comandante delle milizie venete, Niccolò Orsini conte di Pitigliano, per scortarlo fino a Ravenna.
Di nuovo a Venezia, il F. fu impegnato in incarichi di rappresentanza presso diplomatici stranieri o personalità illustri; poi, dopo aver mancato più volte la nomina alla legazione romana, il 12 luglio 1499 fu eletto ambasciatore presso Luigi XII.
L'incarico cadeva in un momento delicato: i Francesi erano in Lombardia e le commissioni prevedevano la stipula di un'alleanza francoveneta in funzione antisforzesca e antiturca. Il F. si mosse tardi, però, quando il re aveva ormai ripassato le Alpi; lasciata Venezia il 30 sett. 1499, agli inizi di novembre giungeva a Tours, dove il predecessore Benedetto Trevisan gli passò le consegne e dove, un mese dopo, incontrò il sovrano, insieme al quale si portò poi a Blois e a Parigi.
Fu una missione breve (il F. rimase in Francia poco più di un anno, e forse per tal ragione l'ambasceria venne ignorata da cronisti quali il Malipiero e da moderni storici come il Firpo), ma intensa, dal momento che nel corso di essa ebbe a verificarsi il trattato di Granada, che portando in primo piano la rivalità francoispana nel Meridione, sollevava un poco la Signoria dall'incalzante dinamismo del potente vicino nella Padania, ma nel contempo ne vanificava la sperata utilizzazione contro i Turchi.
Per questo di lì a non molto Francesco Cappello fu chiamato a sostituire il F., eletto podestà e capitano di Ravenna il 26 ott. 1501; il 6 genn. 1502 egli era nuovamente in patria; ottenuto il gradimento del principe per quanto operato, presentò subito il conto, consistente nel rifiuto del reggimento di Ravenna: un posto davvero scomodo, date le insidie di Cesare Borgia, duca del Valentino.
L'atto, per quanto sgradito al Maggior Consiglio, non ebbe conseguenze negative per il F., che anzi l'8 aprile venne eletto savio di Terraferma sino a tutto settembre; dovette però accettare un nuovo rettorato, ossia il capitanato di Brescia, dove rimase dal dicembre 1502 all'aprile dell'anno successivo, a occuparsi, ancora una volta accanto al Pitigliano, delle opere di rafforzamento della rocca di Asola e a cercare di rintuzzare le mene di Cesare Borgia, il quale mirava a colpire sin lassù i superstiti delle fazioni orsina e colonnese, che avevano trovato scampo nelle terre della Repubblica.
Fu anche questa una missione breve, anzi brevissima, come si è accennato; il Sanuto riferisce che il 7 marzo 1503 il F. chiese la revoca del mandato "per sue facende occorrenti"; doveva trattarsi di motivi seri e comprovati (non si dimentichi che il F. era l'unico esponente di quel ramo della famiglia), dal momento che non solo fu prontamente accontentato, ma venne anche chiamato a far parte del Consiglio dei dieci, sino a settembre.
Fu poi savio di Terraferma dall'aprile 1504 e in tale veste, il 12 settembre, combatté in Senato la proposta di aumentare lo stipendio ad Antonio Fracanzani, professore di filosofia a Padova; quindi un altro rettorato: luogotenente a Udine dall'estate 1505, stavolta a cimentarsi con i feudatari della Patria, tenacemente riottosi in tema di tassazione. Però la precarietà di salute che sempre ne minò il fisico indusse il F. ancora una volta a sollecitare un rimpatrio anticipato, e così il 1° maggio 1506 si presentava in Collegio, "etiam non riferì - precisa il Sanuto - per non esser ben sano".
Dal 2 agosto entrava consigliere ducale per il sestiere di Santa Croce; fu nominato al Consiglio dei dieci nell'ottobre 1507 e ne era capo quando fece inquisire per intelligenza con l'imperatore il veronese Gian Pietro Dal Verme, l'8 dic. 1507; il 15 maggio 1508 era eletto podestà a Padova e contemporaneamente ambasciatore presso Massimiliano, che allora si trovava a Trento, per trattare la tregua dopo la vittoriosa campagna condotta da Bartolomeo d'Alviano in Cadore e nel Carso.
Il F. avrebbe dovuto avere come collega Zaccaria Contarini; ma mentre questi accettò, il F. ancora una volta riuscì a giocare la carta della debolezza fisica, elencando un'infinità di acciacchi, "et non poter cavalchar - registra puntualmente il Sanuto - et convegnir andar a li bagni in Veronese, et convien andar per la egritudine… che ha, et a questo bastava sollo sier Zaccaria Contarini". Gli andò bene una volta di più, ma il 7 agosto venne dichiarato decaduto dal Consiglio dei dieci a causa delle troppe assenze e a fine mese dovette comunque recarsi a Padova; qui, nell'aprile 1509, prese alcuni provvedimenti contro una paventata pestilenza e qui lo sorprese, qualche settimana più tardi, il disastro di Agnadello. Il F. non aveva certo l'animo del combattente, per cui il primo pensiero che ebbe fu di mettere in salvo le sue cose; quindi, di fronte ai rimproveri del Collegio, il 3 giugno radunò il Consiglio cittadino, esortando alla difesa. Con magro frutto, però, giacché gli toccò di constatare che quegli infidi sudditi "mai, quando si nominava la Signoria, feno di bareta chome erano soliti"; di fronte a tali espliciti segnali, due giorni dopo s'imbarcava per Venezia insieme al collega Girolamo Donà, "dubitando di la vita".
Naturalmente il F. non trovò buone accoglienze tra le lagune: l'8 luglio gli fu negata l'elezione a consigliere ducale "per non esser in bona gratia con la terra"; addirittura, neppure riuscì a entrare in Senato il successivo settembre. L'emarginazione durò più di un anno ed ebbe termine solo con l'elezione al Consiglio dei dieci, nell'ottobre 1510, quando l'orizzonte politico della Repubblica si era alquanto rasserenato.
Il 16 giugno 1511 il F. passava intanto a nuove nozze con Chiara Morosini di Antonio (la prima moglie era scomparsa nell'ottobre 1499), che era stata promessa a Vettor Pesaro di Leonardo; costui però era morto a Cipro e il F., benché avesse ormai più di cinquant'anni, pensò di approfittare della circostanza per assicurarsi quel successore la cui mancanza, dopo la recente scomparsa senza eredi dell'unico figlio maschio, gli amareggiava la vita; purtroppo per lui, questo secondo matrimonio sarebbe rimasto infruttuoso, condannando all'estinzione il ramo della famiglia.
Il F. stava per abbandonare il Consiglio dei dieci, allorché (29 sett. 1511) venne eletto ambasciatore a Roma; il predecessore Girolamo Donà - che aveva concluso l'alleanza tra la Serenissima, Giulio II e Ferdinando d'Aragona in funzione antifrancese - era moribondo (sarebbe spirato l'indomani), donde l'urgenza di inviare presso l'energico pontefice un nuovo diplomatico, "qual bisogna l'habi pacientia e desterità".
Il F. giunse a Roma il 1° genn. 1512, con 20.000 ducati quale primo contributo per la guerra contro i "barbari" (altri 30.000 si sarebbero aggiunti qualche mese dopo) e la facoltà di concludere con l'imperatore una pace onorevole.
Fu proprio questo punto a costituire per il F. la fonte dei maggiori travagli, poiché Venezia mirava a recuperare tutta la Terraferma, mentre Massimiliano non intendeva affatto cedere Verona e Vicenza, già degli Scaligeri e per le quali la Repubblica non aveva mai potuto ottenere l'investitura feudale; il contrasto naturalmente irritava Giulio II, dal momento che indeboliva la coalizione, e così il 6 nov. 1512, dopo la battaglia di Ravenna e il ripiegamento dei Francesi, insofferente di ulteriori indugi, il papa decideva di risolvere a modo suo la questione. Convocate le controparti, Giulio II propose che alla Repubblica toccassero Padova e Treviso, all'imperatore Vicenza e Verona: i rappresentanti veneziani rifiutarono però questa proposta, provocando l'irrigidimento del pontefice. Ne derivò un monitorio contro la Repubblica, e il calvario del F. continuò in un alternarsi di speranze e delusioni che la scomparsa di Giulio II e l'ascesa al soglio di Leone X, nel marzo del 1513, valse ad attenuare solo in parte.
La Repubblica infatti non intendeva rinunciare ad alcuna città veneta e con l'aprirsi del nuovo anno si schierò con la Francia, né mutò condotta dopo la vittoria degli Inglesi a Enguinegatte sopra il nuovo alleato (16 ag. 1513); alle rimostranze pontificie il F. rispondeva agitando di volta in volta lo spauracchio di un ipotetico accordo con i Turchi o rammentando la compiacente presenza dei prelati e teologi veneti alle sessioni del V concilio lateranense, allora in corso: una partecipazione resa possibile dalla buona volontà dimostrata dal governo marciano, che aveva apertamente sconfessato le assise di Pisa e Milano.
All'inizio dell'estate le condizioni di salute del F. subirono un grave deterioramento, al punto che egli fu costretto a delegare al segretario le sue funzioni; quindi, appena giunto il successore Pietro Lando, il 10 ottobre poteva lasciare Roma e il 28 era in Senato a leggere la relazione.
Non avrebbe lasciato più la sua città, nella quale trascorse gli ultimi anni ricoprendo le cariche di maggior prestigio: savio alle Tanse per i sestieri de citra (29 dic. 1513, e poi ancora 17 apr. 1515), savio del Consiglio per i primi sei mesi del 1514 (poi prolungati di altri tre per le urgenze della guerra in corso), membro del Consiglio dei dieci dall'ottobre dello stesso 1514 sino a tutto settembre del 1515, ancora savio del Consiglio per gli ultimi due mesi del 1515 e poi dall'aprile al settembre del 1516 e quindi nel secondo semestre dell'anno seguente; sempre dimostrandosi - a detta del Sanuto - di volta in volta uomo "de inzegno", "dignissimo" autore di "bona renga", di "savia renga", e sempre incline a sostenere i Francesi, talora "con gran colora".
Era ammalato il 25 maggio 1516, allorché acquistò per 12.000 ducati la dignità procuratoria, e la salute andò peggiorando di continuo, costringendolo a casa per periodi sempre più lunghi; il Sanuto se ne occupò per l'ultima volta il 16 apr. 1518: "In questa note a hore 10 morite sier Francesco Foscari… di anni 58, optimo patricio et bon senator, et si 'l viveva era doxe…. Fo sepulto a dì 17… honoratissimamente, vestito d'oro con speroni in pè, a Santo Job".
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Venezia, Misc. codd., I, Storia veneta 19: M. Barbaro - A.M. Tasca, Arbori de' patrizi veneti…, III, cc. 504, 513; Venezia, Bibl. del Civico Museo Correr, Cod. Cicogna 3782: G. Priuli, Pretiosi frutti…, II, cc. 19v-20v; Arch. di Stato di Venezia, Archivio Gradenigo rio Marin, b. 333: P. Gradenigo, Lavoro storico cronologico biografico sulla veneta famiglia Foscari, pp. 72-75 (la fonte è tuttavia poco attendibile, perché talora confonde i dati relativi al F. con quelli spettanti a due suoi omonimi e pressoché coetanei: l'uno [1441-1530] figlio del procuratore Filippo di Francesco, l'altro [1468-1534] di Nicolò di Giacomo).
Per la carriera politica: Ibid., Segretario alle Voci. Misti, regg. 6, cc. 56r, 105r, 117r, 134v; 7, c. 2r; 9, cc. 4r, 6v, 11v, 15r, 17r, 19r, 20v, 21v, 24r; 15, c. 102r; Segretario alle voci. Elezioni in Pregadi, reg. "A", cc. 5v-6r, 7rv, 13v, 51v, 52v, 55v; Senato. Terra, regg. 11, cc. 28v, 120v e passim; 19, cc. 26r, 67v, 82v, 112r e passim; per la nomina e le commissioni dell'ambasceria a Roma: Senato. Delib. Secreta, reg. 44, cc. 70v, 88rv; sullo svolgimento della stessa: reg. 45, passim; Capi del consiglio dei Dieci. Lettere di ambasciatori, b. 20, nn. 113-121, 124 s., 128-132; b. 21, nn. 1-13.
Per la situazione patrimoniale e l'attività economica: Ibid., Archivio Gradenigo rio Marin, b. 340/I: Catastico Foscari, pp. 6-10, 158 s.; b. 373/I: Catastico Foscari, ad Ind.; Venezia, Bibl. del Civ. Museo Correr, Mss. P.D. C 2575/I (a), c. 2r (acquisto della gastaldia di Santa Croce); C 1386/I (f); C 1297/5, c. 45r e passim; C 2245/9, 12-14.
Cfr. inoltre: D. Malipiero, Annali veneti dall'anno 1457 al 1500…, a cura di F. Longo - A. Sagredo, in Arch. stor. ital., VII (1843), 1, pp. 280, 464, 468, 470, 532, e VII (1844), 2, pp. XXVII-XXXVIII, 699, 723-948 (per i dispacci inviati dal F. al Senato nel corso dell'ambasceria presso Massimiliano nel 1496); M. Sanuto, Diarii, Venezia 1879-1889, I-XXV, ad Ind.; Calendar of State papers… relating to English affairs, existing in the archives… of Venice, II, a cura di R. Brown, London 1867, pp. 78, 83, 130 s., 136 ss., 142 s., 303; I libri commemoriali della Repubblica di Venezia. Regesti, a cura di R. Predelli, VI, Venezia 1903, pp. 28, 115, 129; J. Burchardi Liber notarum…, a cura di E. Celani, in Rer. Ital. Script., 2ª ed., XXXII, 1, vol. II, p. 409; B. Dovizi, Epistolario, a cura di G.L. Moncallero, I, Firenze 1955, pp. 293, 387 s., 478, 480, 482 s.; P. Bembo, Rerum Venetarum historiae…, in Degl'istorici delle cose veneziane…, II, Venezia 1718, pp. 103, 441; P. Paruta, Dell'historia vinetiana…, ibid., III, ibid. 1718, pp. 13, 55; G. Degli Agostini, Notizie istorico-critiche intorno la vita, e le opere degli scrittori viniziani…, II, Venezia 1754, p. 221; E.A. Cicogna, Delle inscrizioni veneziane, IV, Venezia 1834, pp. 16, 18; VI, ibid. 1853, pp. 561 s., 676; S. Romanin, Storia documentata di Venezia, V, Venezia 1856, pp. 88-92, 274, 280, 282; V. Lamansky, Secrets d'État de Venise…, Saint-Pétersbourg 1884, p. 44; L. von Pastor, Storia dei papi…, III, Roma 1912, p. 693; IV, 1, ibid. 1908, pp. 31, 40 s.; F. Seneca, Venezia e papa Giulio II, Padova 1962, p. 166; Relazioni di ambasciatori veneti al Senato, a cura di L. Firpo, II, Germania (1506-1554), Torino 1970, p. III; A. Poppi, La teologia nell'università e nelle scuole, in Storia della cultura veneta, 3, Dal primo Quattrocento al concilio di Trento, III, Vicenza 1981, p. 17; D. Calabi - P. Morachiello, Rialto: le fabbriche e il ponte. 1514-1591, Torino 1987, pp. 192 s., 196; P. Litta, Le famiglie celebri italiane, s.v., tav. I; G. Moroni, Diz. di erudiz. stor.-ecclesiastica…, XCII, pp. 293 ss.; Dict. d'hist. et de géogr. ecclés., XXII, col. 258.