Francesco Gabrieli
Nel 20° sec. l’arabistica italiana ha prodotto numerosi studiosi di livello internazionale che hanno anche insegnato in università arabe e islamiche: tra questi uno dei più importanti, insieme a Carlo Alfonso Nallino e Giorgio Levi Della Vida, è Francesco Gabrieli, il quale, rivelando un’estrema ricchezza intellettuale, diede un contributo fondamentale alla conoscenza della cultura e della storia araba e musulmana, occupandosi di una vasta gamma di argomenti che spaziarono dalla letteratura all’astronomia, dalla mistica al pensiero politico.
Francesco Gabrieli nacque a Roma il 27 aprile 1904, da una famiglia di origini pugliesi trapiantata nella capitale perché il padre di Francesco, Giuseppe, svolgeva l’incarico di bibliotecario all’Accademia nazionale dei Lincei. Lo stesso Giuseppe Gabrieli (1872-1942) era arabista, autore a sua volta di opere di un certo rilievo come I tempi, la vita e il canzoniere della poetessa araba al-Khansa’ (1899) e amico di quel Leone Caetani di Sermoneta (1869-1935) che andava pubblicando una delle opere fondamentali per la conoscenza del primo islam, gli Annali dell’Islam (1905-1926) in dieci ponderosi volumi.
Francesco si abbeverò, dunque, fin da bambino di conoscenza semitica, pur essendo la sua formazione fortemente segnata dai classici dell’Occidente, soprattutto greci e latini, senza dimenticare poeti universali come Dante, Petrarca, Goethe. E assai precoce fu il suo inserimento nel mondo degli studi, avendo pubblicato già nel 1926 un articolo estratto dalla sua tesi di laurea dedicata al poeta al-Mutanabbi. Altrettanto rapida fu la sua carriera universitaria che lo vide, come incaricato di lingua e letteratura araba, insegnare prima (1935) all’Istituto universitario orientale di Napoli, per poi approdare (1938) all’Università di Roma, occupando la cattedra che già era stata di Michelangelo Guidi. A Roma rimarrà fino alla pensione dopo un quarantennio di fecondissimo lavoro di ricerca.
La vita di Gabrieli fu spesa interamente nella coltivazione degli studi, ma conobbe alcuni momenti di particolare visibilità: fu membro del Consiglio scientifico dell’Istituto della Enciclopedia Italiana e del Consiglio scientifico della seconda edizione dell’Encyclopédie de l’Islam; presidente dell’Istituto per l’Oriente (la prestigiosa istituzione fondata da Nallino) dal 1968 al 1979 e soprattutto, nominato accademico dei Lincei, divenne poi presidente dell’Accademia, dal 1985 al 1988. Insignito del premio Balzan per l’orientalistica nel 1983, Gabrieli morì a Roma il 13 dicembre 1996.
La sua produzione scientifica e divulgativa è stata sterminata. Scientifica e divulgativa, poiché alle doti di accademico egli affiancava quelle di alto volgarizzatore, espresse in una miriade di pubblicazioni rivolte al grande pubblico, oltre alla curatela di volumi collettanei, alla prefazione di volumi di altri autori. Egli stesso riconosceva questa vocazione:
Ciò rispecchia del resto la caratteristica e la vicenda di tutta la mia attività di studioso, quale ne sia il valore: abbastanza presto essa non si è più appagata del puro lavoro specializzato ed erudito, ma, anche quando lo ha trasceso in scritti di divulgazione e di sintesi, non ha mai perduto, spero, il contatto di prima mano con le fonti e col lavorio scientifico relativo (L’islam nella storia, 19842, p. 7).
Di fronte a questa massa sterminata di scritti, per dare un’idea del suo metodo e dei risultati scientifici da lui raggiunti non si può che operare una selezione oculata. Sarà innanzi tutto da notare che gli interessi di Gabrieli si sono rivolti essenzialmente a due campi: la storia letteraria degli arabi (senza trascurare l’heritage persiano, essendosi occupato di Nizami, di Omar Khayyam e di Firdusi) e la loro storia tout court, non solo evenemenziale ma anche intellettuale. E in entrambi i casi, l’attenzione dell’autore si è rivolta tanto al periodo classico, che, impropriamente per l’islam, si può definire medievale, quanto al periodo moderno-contemporaneo, sebbene si possa arguire che il periodo classico-medievale abbia riscosso una certa preferenza, sia dal punto di vista quantitativo sia dal punto di vista qualitativo.
Nel 1948, rimarcando anche che si trattava di un’impresa ‘civile’ dopo la bufera della guerra, Gabrieli dava alle stampe la prima traduzione italiana completa delle Mille e una notte, coordinando una valente équipe di traduttori tra cui spiccava Virginia Vacca (1891-1988). Nella sua Letteratura araba, su cui torneremo più in dettaglio, egli, inserendo il celebre ciclo di favole nel quadro della narrativa popolare del mondo arabo della decadenza, annotava che
una valutazione più propriamente artistica non può che assegnare un modesto valore a gran parte del libro. […] Dal caleidoscopio delle sue mille e più pagine il lettore non serba tanto memoria delle parti magiche […] né di quelle retoriche, galanti, descrittive, quanto di quelle [in cui …] l’ignoto rapsodo seppe veramente ‘hominem sapere’, l’uomo orientale o l’uomo tout court (La letteratura araba, 19673, p. 250-51).
Queste osservazioni minimizzavano il significato artistico delle Mille e una notte, ma al contempo, e per estensione, il loro significato antropologico e storico. La critica più recente, per es. di Aziz el-Azmeh, è incline a rivalutare la portata letteraria della raccolta così come a trovarvi infiniti spunti di ricerca e di conoscenza del mondo arabo-islamico, degli usi e dei costumi dei popoli vicino-orientali, financo della loro religiosità. Si tratta di una discrasia non casuale. Gabrieli, pur attentissimo agli aspetti tecnici e scientifici della critica letteraria, nutriva un atteggiamento eufemisticamente distaccato per il suo oggetto di studio o francamente critico, giudicandolo un po’ aprioristicamente alla luce delle categorie estetiche e anche filosofiche dell’Occidente. La sensibilità semitica – qui sul piano letterario – è diversa dalla sensibilità occidentale ed europea maturata alla luce della tradizione greco-latina, e cercare di valutarla, soprattutto esteticamente, ma anche contenutisticamente, sottoponendola a griglie di interpretazione allogene rischia di farne perdere non solo la freschezza, ma anche il sapore e il profondo significato. L’atteggiamento mentale con cui Gabrieli si accostava alle Mille e una notte risulta dunque esemplificativo dei pregi e delle problematicità del suo approccio esegetico. Leggiamo ancora questa breve notazione della prefazione alla raccolta:
Frutto, nella materia, d’una evoluzione plurisecolare, e d’una trasmigrazione da civiltà a civiltà; nella forma, d’una matura e ad un tempo impoverita cultura cittadina, prevalentemente popolareggiante, le Mille e una notte non possono dunque apparire a un giudizio storico come ‘monte di luce’ della sapienza e bellezza orientale, ma come un ampio e vario panorama che presenta plaghe ridenti, e aride lande e bassure. Il loro maggior pregio non è per noi nelle monotone sarabande del soprannaturale, nelle gesta infantili di stregoni, geni e folletti, ma là dove la pagina hominem sapit, indiano o iracheno o egiziano che sia (Le mille e una notte, 1° vol., 19764, p. XXXV, corsivo mio).
Da un lato, dunque, l’umanesimo, la chiave di accesso alla comprensione letteraria, ma anche antropologica e storica del testo; dall’altro, la ritrosia a riconoscerne il valore rispetto a categorie di interpretazione esegetica ritenute universali e ispirate alla cultura occidentale, a una sorta di soggettivismo categoriale («per noi») che poco spazio lascia all’espressione oggettivamente valoriale del testo. Lo stesso si può dire, oltre che per le opere letterarie, per un’opera sui generis come il Corano. Considerandone la struttura apparentemente disordinata, Gabrieli si spingeva a giudicarlo «un insopportabile guazzabuglio», laddove la critica più avvertita, non solo musulmana, vi reperisce i segni più evidenti dell’estetica semitica che, nelle sue regole e nei suoi modi di espressione, risulta molto diversa da quella europea e che deve essere come tale contestualizzata e applicata. Per citare direttamente Gabrieli, da una parte abbiamo il pathos e l’intenzione per cui «non c’è più ormai né Oriente né Occidente; c’è solo l’animo inquieto e assetato dell’uomo, philòkalos e philòsophos, soggetto ad ogni latitudine alle stesse passioni e agli stessi dolori» (L’Islam e l’Occidente nell’Alto Medioevo, in L’Occidente e l’Islam nell’Alto Medioevo, 1965, e Colella Tommasi 2002, in esergo). Dall’altra, abbiamo l’orgogliosa rivendicazione della superiorità della civiltà occidentale rispetto a quella ‘orientale’ e in special modo arabo-musulmana:
Per nostro conto, lo spirito con cui ci siamo sempre posti di fronte agli odierni eredi di quell’eredità gloriosa certo, ammettiamo, è una tavola di valori bollata oggi da taluni come eurocentrica. Padronissimi quei taluni di porre al centro della storia del mondo La Mecca o Baghdad, e magari Timbuktu; noi ci manteniamo fedeli all’asse di Atene e Roma, considerando la vicenda arabo-musulmana, al cui studio abbiamo consacrato la vita, come una preziosa, validissima integrazione, un complemento ineliminabile di quell’altro itinerario dell’anima, che pure rimane per noi fondamentale (premessa a Cultura araba del Novecento, 1983).
Ma, per tornare alla cifra umanistica, alla sua luce devono leggersi i numerosissimi contributi di Gabrieli sulle figure e sulle tematiche della letteratura araba classica. Hanno fatto storia le sue edizioni e traduzioni: da Shanfara, poeta-bandito della selvaggia vita del deserto preislamica, autore (presunto) di uno dei carmi più famosi della protoletteratura araba, la Lamiyyat al-‘arab, ode o qasida in rima ‘elle’, ad Abu Firas, eroe e cavaliere arabo del 10° sec., a quell’Abu Nuwas (748 ca.-813 ca.) la cui poesia bacchica e d’amore, palpitante di vita vissuta oltre e contro le convenzioni, è considerata uno dei frutti più alti della civiltà letteraria araba; dal Collare della colomba del teologo e giurista andaluso Ibn Hazm (994-1064), un trattato sull’amore e gli amanti ben noto anche nell’Occidente medievale, agli Studi su al-Mutanabbi, che si focalizzavano sulla figura forse più importante del cosiddetto neoclassicismo della matura età abbaside.
Così dell’ispido Shanfara (6° sec. d.C.), «Archiloco o Villon del deserto che come la più parte degli antichi poeti arabi trasfuse la sua vita nel canto», l’attenta cura filologica appaiata al senso estetico di Gabrieli apprezzava pienamente «l’aroma più aspro e autentico della vita e della poesia dell’Arabia pagana» (introduzione a Storia e civiltà musulmana, 1947). Era, infatti, la poesia come vita quello che più faceva vibrare le corde spirituali di Gabrieli. Raffinare e molare il linguaggio della traduzione è del resto il modo migliore per non tradire lo spirito dell’autore tradotto. Per fare solo un altro esempio, la traduzione italiana delle Quartine del celebre matematico e poeta persiano Omar Khayyam (m. 1124 ca.) fatta da Gabrieli è un pregevolissimo saggio di armoniosa utilizzazione della nostra lingua.
Così, nei tecnici e dotti saggi su al-Mutanabbi (915-965), egli inseriva lo studio letterario del canzoniere del poeta arabo nel più vasto quadro della storia politica e religiosa del tempo: essendo stato al-Mutanabbi poeta di corte sia presso l’hamdanide Sayf al-Dawla ad Aleppo sia presso l’ikhshidide Kafur in Egitto. Non è un caso, nella medesima ottica, che tra gli autori della letteratura araba contemporanea, uno dei più studiati e apprezzati da Gabrieli sia stato l’egiziano Mahmud Taymur (1894-1973). Taymur, novellista e romanziere, ritraeva la vita quotidiana della gente d’Egitto, soprattutto degli umili, in una bozzettistica sapida e intrisa di realismo: e questo realismo attento alla descrizione dell’uomo sollecitava l’attenzione di Gabrieli.
Negli Studi su al-Mutanabbi (1972) egli si poneva metodologicamente un problema serio:
se cioè e in qual misura sia possibile un giudizio estetico di noi occidentali su opere d’arte di popoli così profondamente differenti da noi, generate tra correnti intellettuali e sentimentali così lontane dalle nostre, e che noi possiamo solo in parte e a fatica storicamente ricostruire (p. 89).
Ora, a parte il giudizio proprio sul poeta arabo, che è fatto circoscritto e contingente, e a parte la preziosa notazione per cui la ricostruzione storica è utile a percepire il significato globalmente culturale e sentimentale financo di un’opera letteraria, una risposta generale al quesito la si può dedurre dalla valutazione complessiva che Gabrieli avanzava della produzione letteraria araba:
Nessun capolavoro a noi congeniale, diciamo subito, incontreremo nel nostro cammino, nessuna stella di prima grandezza nel firmamento della letteratura mondiale, quali allinea con Firdusi e Nizami, Sadi e Hafiz la cognata letteratura persiana, islamizzata nel midollo e pur serbante (ci sia concesso per un istante indulgere a caratteristiche etniche) qualche goccia di sangue di diversa origine, che basta a imprimerle una diversa fisionomia. La letteratura araba, benché vi abbiano posto mano come già notammo tante genti non arabe, serba caratteristiche proprie e non tutte felici, che la riconnettono alle sue origini semitiche e desertiche: l’incapacità a organizzare in un corpo coerente la visione lirica e fantastica, l’estrema cura del particolare a scapito dell’insieme, l’amor della parola come puro suono, l’assenza del greco e latino fren dell’arte (La letteratura araba, 19673, p. 18).
Nessun capolavoro a noi congeniale: si tratta di una frase significativa. È dunque in certa misura irriducibile il gusto artistico occidentale con quello arabo-islamico, sebbene afflati di ispirazione e di poesia si possano cogliere qua e là nei diversi singoli autori. E se è vero che, come molti critici hanno sottolineato, l’estetica di Gabrieli molto doveva a quella di Benedetto Croce, si comprende anche il modo con cui egli delimitava il campo di ricerca della letteratura araba:
Noi vogliamo ora ribadire che secondo il più rigoroso concetto di letteratura che qui teniam fermo, il nostro disegno si limiterà a quei campi dello Schrifttum arabo ove si manifesta esplicita o istintiva una volontà d’arte: poesia quindi e prosa d’arte anzitutto, in cui si esprime così tipicamente un aspetto dello spirito arabo, e poi prosa narrativa ed amena, e anche, almeno per la sua parziale pertinenza alla sfera dell’arte, prosa storica, etico-didattica, moralistica (La letteratura araba, 19673, pp. 7-8).
Se Gabrieli privilegiasse l’eccellenza estetica quale criterio di giudizio che gerarchizza in ordine discendente i vari autori e le varie opere, è questione che ha avuto risposte diversificate da parte dei critici. Noi ci limitiamo a sottolineare come egli tenesse a un tempo all’evidenza umanistico-storica dell’opera che esaminava, ma contemporaneamente esaltasse il valore estetico, di godimento del bello e del sublime, che ogni singola poesia o prosa comporta nel lettore attento e dotato dei necessari strumenti analitici.
Studiandone la storiografia etico-politica, Fulvio Tessitore individuava nel metodo di Gabrieli forti (e peraltro autoriconosciuti) influssi di Croce – e, diremmo, di Georg Wilhelm Friedrich Hegel. Questi influssi si esprimerebbero peculiarmente: da una parte,
la storia etico-politica non poteva arrestarsi e non si arrestò alla storia événementielle dello stato politico e delle conquiste militari arabe. Suggerì, specialmente in fedeltà al crocianesimo più rigoroso, l’interesse per la storia letteraria. E va ricordato che questa è intesa dal Gabrieli come rivolta ai ‘valori schiettamente estetici’ qui più che altrove ‘isolabili da quelli storico-culturali e soprattutto religiosi’. […] D’altra parte va rilevato come questi numerosi e tuttavia convergenti interessi tematici segnino la scelta del Gabrieli per quella che voglio chiamare anch’io la narratività della storia, favorita dalla nativa e coltivata maestria stilistica della prosa scientifica dello storico, non alieno dall’abbandonarsi a riuscite prove di prosa d’arte. Anche in ciò è certamente ravvisabile un’eredità crociana nel gusto per il libro di storia come racconto di tempi lunghi e di storiche personalità eminenti (Tessitore 1995, pp. 158-59).
Naturalmente, anche alla luce di una formazione crociana ed hegeliana, tutto ciò non significa che Gabrieli nutrisse una concezione teleologica della storia: era probabilmente troppo ‘laico’ per farlo (il suo interesse per gli aspetti religiosi della cultura arabo-musulmana è sempre stato minimo). Si trattava, tuttavia, di collocare tutte le fenomenologie umane all’interno della storia. In questa volontà di storicizzare l’uomo e i prodotti del suo ingegno (come la letteratura o l’arte in genere) sta un insegnamento di metodo, ovviamente, ma anche di visione complessiva della vita e della civiltà. E naturalmente ciò spiega anche l’interesse che Gabrieli nutrì non solo per la storia, ma anche per la storiografia, intesa nel senso migliore come autocoscienza filosofica della dimensione storica.
Proprio nella consapevolezza, tutta crociana, dell’importanza della storiografia per la storia, si giustifica l’invito rivolto da Gabrieli alla storiografia arabo-musulmana di ricercare nuove vie di espressione e di metodologia:
Chi non voglia rinchiudersi nell’esclusivismo confessionale islamico, o nei nazionalistici furori del panarabismo o paniranismo o panturchismo e così via, o nei mummificanti dogmi del marxismo, dovrà pure, anche in Oriente, accostarsi alla visione storiografica occidentale sotto l’una o l’altra forma di storicismo, e all’inviso concetto del pluralismo culturale, se vorrà fare opera storicamente valida a illuminare la sua propria tradizione su un piano weltgeschichtlich anziché meramente ‘regionale’ (L’Islam nella storia, 19842, pp. 191-92).
La volontà di contemperare insieme elementi disparati, ma comunque significativi dell’avventura umana è ravvisabile tanto in prove minori, come gli studi sul ‘flagello’ barbaresco, quanto in prove maggiori come gli studi sulla vita di Maometto e le conseguenti conquiste arabe. Da un lato, per es. negli studi sul mondo barbaresco, emergono le costanti del lavoro di Gabrieli: l’eurocentrismo (i turchi ottomani sono «barbari», gli italiani e i salentini in particolare sono «civili»); la positività della storia intesa come studio di sintesi di elementi apparentemente eterogenei come il commercio, la cultura, l’arte e la scienza; l’industriosa fatica della scienza moderna che sa consapevolmente ricostruire, da sparse testimonianze e segni, il disegno complessivo della civiltà. D’altro lato, l’approccio alla biografia del Profeta e alle origini dell’islam offre uno spaccato religioso e politico, etico e sociale dei primi passi e sviluppi della civiltà musulmana. Il giudizio su Maometto è ovviamente soppesato alla luce di uno spirito critico che non si fa abbacinare dalle suggestioni spirituali e religiose, ma mantiene un distacco ‘scientifico’ dall’oggetto della sua analisi. Se confessa di non comprendere pienamente il fascino esercitato da Maometto sui suoi contemporanei anche a causa delle asperità, delle ambiguità e durezze del carattere del Profeta, Gabrieli ammette che
alcuni punti almeno possono oggi considerarsi acquisiti: anzitutto l’assoluta sincerità di Maometto nel sentirsi oggetto di uno speciale contatto col divino, e nel farsi trasmissore di un messaggio, agli inizi almeno, infinitamente più alto d’ogni sua personale ambizione o interesse; e poi la dipendenza di questo suo messaggio monoteistico dalle due grandi religioni del Vicino Oriente storicamente precedenti e condizionanti quella del Profeta d’Arabia (Maometto e le grandi conquiste arabe, 1967, p. 21).
Il giudizio sulle conquiste ed espansioni arabe dopo la morte del Profeta è altrettanto soppesato, ma quasi venato dalla nostalgia della grandezza dei ‘primi’ arabi rispetto al miserando, a suo avviso, stato del mondo arabo all’epoca in cui Gabrieli scriveva (siamo negli anni Cinquanta-Sessanta):
Ciò che dodici secoli fa erano le tribù, forze centrifughe nell’effimero impero [arabo], oggi sono le singole nazioni, pronte a parole a proclamarsi ‘arabe’, ma punto disposte a rinunziare alla loro ristretta sovranità nazionale. […] Resta, esaltante o deprimente secondo l’intelligenza e l’animus con cui lo si considera, il confronto tra quel grande passato di potenza e di civiltà e il torbido presente dei popoli arabi, che della conquistata indipendenza non sembrano saper fare buon uso, logorati come sono da piaghe economiche, da un complesso di frustrazione e xenofobia, da sterili rancori nazionalistici. Una volta constatati irrealizzabili i sogni di rinnovata potenza, dovrebbe agire su di essi l’aspirazione a risalire, in modo degno di quel passato, le pacifiche vie della cultura e della civiltà (Maometto, cit., pp. 240-41).
In queste parole traspare la valutazione nel complesso negativa – e a mio avviso ingenerosa – sul risorgimento o risveglio arabo dell’età della decolonizzazione cui pure Gabrieli dedicò un libro per quei tempi pionieristico. In questo libro, Il risorgimento arabo, scritto nel 1958, nel pieno del fervore panarabistico e dell’ascesa di quel nasserismo che, comunque, avrebbe cambiato il volto del Medio Oriente, Gabrieli annotava:
Si ripete anche qui in Oriente lo stesso processo involutivo che conobbe l’Occidente dopo il compimento delle unità nazionali, la degenerazione del patriottismo in nazionalismo, della sete di libertà e indipendenza in quella di espansione e sopraffazione. Ma ciò che distingue, e non vantaggiosamente, l’Oriente arabo e non arabo dall’Occidente in questa involuzione, è il fatto che mentre l’Occidente di fine Ottocento e poi di tutto il Novecento ha conosciuto accanto alla spinta nazionalistica il freno liberal-democratico e socialista, un tal freno si cercherebbe invano nell’odierna esplosione del nazionalismo orientale. La democrazia è oggi in tutto l’Oriente arabo una tenue facciata per ricoprire più o meno confessati regimi autoritari, reggentisi sulla pura forza (p. 111).
Analisi in qualche modo condivisibile, ma che non tiene in debito conto il retaggio coloniale.
Accanto a questi esercizi di sintesi, Gabrieli ha ovviamente sviluppato una ricca attività di ricerca specialistica ed erudita. I suoi studi sul secolo omayyade sono precoci (anni Venti-Trenta) e rimangono una pietra miliare, ancor oggi istruttiva, della storiografia sulla dinastia musulmana ‘araba’ per eccellenza (cfr. la raccolta Studi storici sul secolo Omayyade, 1993). Saggi come Il califfato di Hisham. Studi di storia omayyade del 1935 si segnalano per l’acribia dello studio delle fonti, la maestria nel trattare la lingua araba, l’acutezza nel formulare giudizi storici. Lo studioso manifestò sempre maggiore interesse per gli Omayyadi che per gli Abbasidi, nonostante scrivesse un saggio su al-Ma’mun e gli alidi che anticipava un filone di studi più attuale e contemporaneo nell’analisi di una delle problematiche peculiari e storicamente significative dell’epoca del califfo figlio del celebre Harun al-Rashid, il cui regno rappresentò una vera svolta della storia musulmana.
Quanto più volte detto sulla precisa volontà di Gabrieli di non sussumere Oriente e Occidente in una medesima griglia interpretativa e in una medesima funzionalità esthétique e civilisationelle non ha ostacolato un’impresa che è riconosciuta tra le più importanti di Gabrieli, quella di pubblicare una silloge degli Storici arabi delle crociate, tradotta anche in altre lingue (1957). L’importanza della silloge sta innanzi tutto nella cura con cui vengono studiate e rese in idioma moderno le opere coeve degli storiografi musulmani su quell’episodio così gravido di conseguenze per le relazioni tra Europa e mondo islamico. Ma ciò non sarebbe bastato, se non fosse che Gabrieli, per la prima volta in modo sistematico, coscientemente dà voce agli storici musulmani delle crociate per apprendere e far apprendere il loro punto di vista, il loro sguardo, ora compartecipe ora scettico ora ostile, sul mondo latino e franco che aggrediva il Vicino Oriente arabo. Un esercizio su cui nella letteratura successiva, anche di vari decenni, si sono impegnati autori così diversi e irriducibili come Amin Maalouf e Carole Hillenbrand. Di costoro, Gabrieli può essere considerato un precursore.
Come misurare l’eredità di Francesco Gabrieli? Egli è stato un anticipatore di molte vie di ricerca e ha aperto la strada a studi successivi. Alcune delle sue indagini e delle sue analisi risultano tuttavia datate alla luce della storiografia più recente. Questo mi sembra soprattutto più vero per i saggi strettamente storici, mentre nei saggi relativi alla letteratura araba il suo retaggio appare più duraturo. Il suo ruolo nell’orientalistica e arabistica italiana emerge comunque cospicuo, soprattutto per la consapevolezza con cui ha coltivato la scienza. Il suo messaggio di approccio agli studi storici conserva una sua validità umanistica, sia pure inficiata dagli idola cui abbiamo fatto cenno. Il magistero di cultura da lui rappresentato stimola a un rinnovato sforzo di comprensione della storia e della civiltà arabo-musulmana.
Al-Ma’mūn e gli Alidi, Leipzig 1929.
Estetica e poesia araba nell’interpretazione della “Poetica” aristotelica presso Avicenna e Averroè, «Rivista degli studi orientali», 1929-1930, 12, pp. 291-331.
Il califfato di Hisham. Studi di storia omayyade, Alexandrie 1935.
Narratori egiziani, Milano 1941.
Omar Khayyam, Le Rubaiyyat, traduzione di F. Gabrieli, Firenze 1944, Roma 19732.
Storia e civiltà musulmana, Napoli 1947.
al-Shanfara, Il bandito del deserto, a cura di F. Gabrieli, Firenze 1947.
Le mille e una notte, 4 voll., Torino 1948, 19764.
Ibn Ḥazm, Abū Muḥammad ‘Alī ibn Aḥmad ibn Sa‘īd, Il collare della colomba, a cura di F. Gabrieli, Bari 1949.
Storia della letteratura araba, Milano 1951, Firenze-Milano 1967.
al-Fārābī, Abū Naṣr Muḥammad, Alfarabius. Compendium legum Platonis, edidit et latine vertit F. Gabrieli, Londinii 1952.
Dal mondo dell’Islam. Nuovi saggi di storia e civiltà musulmana, Milano-Napoli 1953, 19542.
Gli Arabi, Firenze 1957, nuova ed. accresciuta 1975.
Storici arabi delle crociate, Torino 1957, 19632.
Il risorgimento arabo, Torino 1958.
Saggi orientali, Caltanissetta-Roma 1960.
L’Islam e l’Occidente nell’Alto Medioevo, in L’Occidente e l’Islam nell’Alto Medioevo, Settimane di studio del Centro italiano di studi sull’Alto Medioevo, Spoleto (2-8 aprile 1964), 1° vol., Spoleto 1965, pp. 15-36.
Maometto e le grandi conquiste arabe, Milano 1967.
Firdūsī, Il Libro dei re, a cura di F. Gabrieli, Torino 1969.
Studi su al-Mutanabbi, Roma 1972.
Viaggi e viaggiatori arabi, Firenze 1975.
Abu Firàs, poeta ed eroe arabo del X secolo, Roma 1977.
Cultura araba del Novecento, Roma-Bari 1983.
L’Islam nella storia. Saggi di storia e storiografia musulmana, Bari 1966, 19842.
Abū Nuwās, Antologia bacchica, traduzione e introduzione a cura di F. Gabrieli, Alpignano 1990.
Studi storici sul secolo Omayyade, Napoli 1993.
R. Traini, Francesco Gabrieli ‘uomo intero’, «Oriente moderno», 1999, 3, pp. 3-17.
F. Tessitore, La storiografia etico-politica di Francesco Gabrieli, in Id., Schizzi e schegge di storiografia arabo-islamica italiana, Bari 1995.
U. Colella Tommasi, Lo sguardo che unisce. Occidente e Oriente arabo-islamico nel pensiero di Francesco Gabrieli, Galatina 2002.
L’Oriente di un umanista. Omaggio a Francesco Gabrieli a dieci anni dalla scomparsa, a cura di M. Ruocco, S. Pagani, Roma 2012.