GHISILIERI, Francesco
Nacque a Bologna intorno al 1265 da Jacopo, detto Squarasse, figlio di Bonaparte e da Placidia, della quale si ignora il casato. Ebbe un fratello, Palamidosio (Dosio), e tre sorelle, Costanza, Nicoletta e Agnesina (o Aiclina).
Per ascendenza, legami di sangue e ricchezza la famiglia era considerata nobile e i suoi membri erano tenuti a prestare servizio come cavalieri nelle milizie del Comune. Il padre Jacopo, membro dell'Ordine di S. Maria Gloriosa, detto dei frati gaudenti, era proprietario di terre nel contado, a Cadriano in particolare, e praticava, con discrezione ma per impegni non irrilevanti, l'attività creditizia. Di parte geremea, cioè guelfa, non assunse peraltro posizioni di rilievo nella politica cittadina. Ciò non lo salvò dalle conseguenze degli scontri delle fazioni nelle quali la parte era divisa, come la sovrastima dei beni a fini fiscali. Dei due figli, Dosio ne seguì l'esempio sia nell'attività praticata, sia nella posizione politica sempre defilata, mentre diverse furono le scelte del Ghisilieri. Incline ad ambizioni politiche e in virtù di un carattere fortemente battagliero, il G. assunse infatti posizioni di rilievo nelle file della fazione guelfa intransigente, distinguendosi in particolare quando la politica imposta a Bologna da questa fazione condusse la città ad affrontare un vero e proprio stato di guerra. Meno ricchi di contrasti, anche se non particolarmente sereni, gli aspetti privati della sua vita.
Poco più che ventenne sposò Bartolomea, figlia di Francesco da Ignano. Da essa ebbe quattro figli: Bertoluccio, Loderingo, Giovanni e Bonaparte (o Parte). I primi tre scomparvero presto: Loderingo morì adolescente, Giovanni e Bertoluccio in età ancora giovane, lasciando il solo Bertoluccio un figlio chiamato Francesco. Il quarto, Bonaparte, visse più a lungo, condividendo anche le vicende del padre.
Nell'anno 1300 il G. venne emancipato insieme con il fratello Dosio. Col fratello e, dopo la morte di questo, con i nipoti Jacopo e Vinciguerra mantenne stretti rapporti per proprietà terriere indivise e per comunanza di abitazione nella stessa casa posta nella "cappella" di S. Prospero, nel quartiere di Porta Stiera. Alla gestione del patrimonio il G. dovette dedicare le sue maggiori attenzioni nel corso dei primi anni del secolo XIV e con risultati più che discreti, a quanto si deduce dalla consistenza dei beni posseduti, che nell'anno 1309 raggiunsero il ragguardevole valore di 700 lire. Non mancò peraltro di accogliere i primi inviti ad assumere incarichi pubblici. Nel 1302 fu podestà a Piacenza, ma si trattò di un'esperienza isolata.
Le cose mutarono nel secondo decennio del secolo, quando, disceso in Italia Enrico VII, incoronato re a Milano il 6 genn. 1311, i contrasti fra i guelfi e i partigiani dell'Impero assunsero i toni di uno scontro a livello nazionale: contro l'imperatore, i signori e le città ghibelline si erano schierate le città guelfe unite nella "lega guelfa della Toscana e di Bologna". In Bologna aveva assunto la prevalenza fin dal 1306 la fazione guelfa intransigente, strettamente collegata ai neri fiorentini ed essa si mantenne saldamente al potere per l'intera durata del conflitto. Di conseguenza, la città venne coinvolta in tutte le fasi dello scontro in atto, fino a conoscere pesanti crisi militari e finanziarie. Proprio in questo periodo di forte instabilità l'apporto del G. alle iniziative della politica cittadina si manifestò in misura evidente.
Nel febbraio del 1312 il G. fu ambasciatore a Ferrara per ricercarne l'appoggio o, almeno, la neutralità nel conflitto che si stava riaccendendo con Modena e i ghibellini di Romagna. Tra il maggio e l'ottobre dello stesso anno fu capitano del Popolo a Perugia, perno meridionale della "lega guelfa". Il suo fervore guelfo ne provocò l'inclusione nella lista dei 400 bolognesi che, unitamente alle autorità cittadine, vennero citati l'8 maggio 1313 da Enrico VII per i numerosi atti di ostilità perpetrati nei suoi confronti. La citazione non dovette peraltro impensierire troppo né le autorità né i singoli cittadini, al riparo, al momento, dalle minacce imperiali in quanto sudditi della Chiesa. Gli atti di ostilità contro l'imperatore e i suoi seguaci vennero anzi inaspriti. Agli attacchi portati nel maggio 1313 dagli Imperiali alle città guelfe della Versilia e della Lucchesia Bologna rispose inviando 150 cavalieri a difesa di Lucca. In tale circostanza il G. fu designato capitano del contingente tratto dal quartiere di Porta Stiera.
L'improvvisa morte di Enrico VII il 24 agosto di quello stesso anno pose fine, favorevolmente per la "lega guelfa", al conflitto che si protraeva ormai da quattro anni. In Bologna ciò comportò un accresciuto prestigio per la fazione che aveva condotto la lotta e il G., ormai esponente affermato della fazione, ebbe parte in alcune iniziative di spicco della politica cittadina. Nel 1316 fu inviato al conte di Romagna e alle città della regione per trattare i termini dell'alleanza con Bologna; fu quindi inviato in aiuto della città di Ferrara, alla testa di un contingente di 300 cavalieri.
A queste affermazioni in campo pubblico faceva peraltro riscontro una situazione economica non altrettanto brillante. La dichiarazione d'estimo presentata dal G. nel 1315 mostra aspetti contraddittori e soprattutto un patrimonio meno florido rispetto a quello di sei anni prima. All'attivo il G. denunciava una consistente proprietà fondiaria di 25 ettari a Cadriano, un vigneto nelle vicinanze della città, un altro a Borgo Panigale e alcuni appezzamenti, quasi tutti incolti, in varie località del contado. In città risultava proprietario di una decina di lotti di terreno con edifici per artigiani e depositi di merci. A essi si accompagnavano crediti per 400 lire. Ancora poste attive, ma in realtà segni e strumenti del prestigio sociale del G., erano l'ampia casa di abitazione nella cappella di S. Prospero, la proprietà di una torre nella cappella di S. Fabiano e di una casa con corte, orto e giardino a Cadriano, utilizzata per il soggiorno in villa della famiglia. All'attivo la dichiarazione del G. segnalava anche la proprietà di altri quattro appezzamenti di terra aratoria e a vigneto nelle vicinanze di Casalecchio di Reno. Ma questi beni, come risulterà da una riformagione del Consiglio del Popolo del 28 maggio 1324, non erano del G., bensì di Bartolomea Ludovisi. Costei, rimasta vedova, temendo di non essere in grado di difendere i propri diritti su tali beni, li aveva fatti iscrivere nell'estimo del G., il quale ne aveva comunque attestato la reale proprietà con una dichiarazione segreta che verrà esibita dalla Ludovisi nel maggio del 1324. Di contro, la dichiarazione d'estimo del G. riportava due forti esposizioni debitorie per complessive 950 lire, somma che pare superasse il valore di tutte le poste attive, ivi comprese quelle solo apparentemente sue. Anche il figlio Giovanni, che nel 1309 aveva dichiarato beni per un valore di 160 lire, nel 1315 si dichiarava nullatenente e lo stesso faceva l'altro figlio, Parte. Le cause dell'indebitamento del G. non sono note; ma che la sua situazione economica fosse in qualche modo compromessa appare anche dal rifiuto, dichiarato il 3 maggio 1315, di adire l'eredità del padre Jacopo, eredità che venne invece accettata da suo figlio Parte. Ed era lo stesso Parte che due anni dopo pagava a nome del padre un debito da questo contratto col banchiere Romeo Pepoli.
La vita del G. conobbe una drastica svolta nel giugno del 1319, quando fu accusato di essere stato il mandante dell'uccisione di un certo Zeno Rovisi. I motivi di questo fatto di sangue sono ignoti, ma la responsabilità del G. doveva essere certa. Sembra anzi che egli avesse indotto i sicari all'omicidio garantendo loro che li avrebbe successivamente accolti nella sua casa e protetti. Se le cose andarono effettivamente in questi termini - abbiamo peraltro in merito solo la testimonianza del fratello dell'ucciso - significa che il G. aveva presunto un po' troppo della propria posizione, tanto più che l'ucciso, i suoi congiunti e i suoi ascendenti erano tutte "persone privilegiate", ossia persone iscritte alle società popolari e munite di un attestato atto a tutelarle dalle offese che potevano essere loro arrecate in particolare da nobili e magnati. E il G. era sicuramente nobile e magnate. Egli dovette ben presto rendersi conto di non poter affrontare la reazione dei parenti dell'ucciso e delle autorità cittadine preposte alla difesa delle organizzazioni e dei privilegi dei popolari e si pose al sicuro con la fuga.
Il 22 giugno 1319 il tribunale del podestà emise contro il G. sentenza di bando e di decapitazione se fosse caduto nelle mani della giustizia; decretò nel contempo a suo carico la pena di 1000 lire, la confisca dei beni e la distruzione della casa in Bologna. E mentre il G. iniziava il suo esilio, probabilmente a Ferrara, il piccone delle società popolari trasformava in pietre e legname la grande casa in cappella di S. Prospero con una furia tale da danneggiare seriamente anche le case vicine. Gli altri suoi beni, compresi la torre in città e la casa a Cadriano, trovarono interessati affittuari a vantaggio delle casse comunali. Qualche anno dopo anche il figlio Parte, che aveva sostenuto il tentativo di Romeo Pepoli di insignorirsi della città, venne posto al bando. Della famiglia restò quindi in città soltanto il giovane nipote Francesco.
L'esilio del G. durò una decina d'anni. Ebbe termine il 17 marzo 1328 a seguito di un decreto del cardinale legato Bertrando del Poggetto che l'anno precedente aveva assunto la signoria su Bologna. Per pacificare gli animi e rianimare le energie della città egli vi richiamò molti facoltosi cittadini, fra i quali il G., espulsi per vari motivi negli anni precedenti. Ordinò nel contempo la restituzione dei beni loro confiscati e di conseguenza l'annullamento delle locazioni alle quali erano stati assoggettati.
L'elenco dei riammessi in città comprendeva anche il G.; ma l'uomo che fece ritorno era ben diverso da quello che era fuggito. Tornava aggravato, oltre che dagli anni, da una forte podagra, che gli rendeva penosa la deambulazione. Anche i beni dei quali il G. rientrava in possesso erano solo un pallido ricordo di quelli che gli erano stati confiscati. Al posto della grande casa in cappella di S. Prospero trovava un terreno ingombro di detriti e macerie; la casa a Cadriano praticamente distrutta; il vigneto vicino alla città, solo terra incolta; i lotti di terreno con edifici per artigiani e depositi di merci, occupati da persone che si rifiutavano di corrispondergli il canone dovutogli; un credito nei confronti di un congiunto, di fatto inesigibile. L'unico degli antichi beni che aveva superato pressoché indenne gli anni d'esilio era la torre in cappella di S. Fabiano e il G., pressato dalle necessità, l'aveva però subito ceduta in affitto.
Gli anni, la malattia, le difficoltà economiche non dovevano tuttavia aver spento ogni energia del Ghisilieri. Nella dichiarazione d'estimo presentata l'8 febbr. 1329, oltre ai vari aspetti, tutti negativi, già ricordati, compare anche una voce nuova: una possessione di 12 ettari di prato a Sala degli Aigoni, del valore di 100 lire. Era forse il risultato della cessione di quanto rimasto della possessione a Cadriano e degli altri minori appezzamenti nel contado, tutte voci che non compaiono più nel suo patrimonio. La possessione di Sala degli Aigoni costituiva il pezzo forte dei beni del G., la stima dei quali raggiungeva globalmente il valore di 178 lire.
Sembra peraltro che egli avesse calcato troppo la mano sulle tinte fosche della sua situazione. Nella stima accertata ufficialmente l'anno successivo, il valore dei suoi beni risulta infatti quasi triplicato. Purtroppo non abbiamo elementi per giudicare quale delle due valutazioni rispecchiasse più da vicino la realtà, né sappiamo se vi fossero state, come non è affatto escluso, ulteriori iniziative del G. che ne avessero rialzato la situazione economica.
La stima ufficiale di suoi beni è altresì l'ultima testimonianza diretta che lo concerne; morì infatti poco dopo, presumibilmente a Bologna, in una data imprecisata, ma comunque avanti il dicembre 1332.
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