GINANNI, Francesco
Nacque a Ravenna il 13 dic. 1716 dal conte Marco Antonio e da Alessandra Gottifredi. Trascorse la fanciullezza in un vivace ambiente culturale scientifico e letterario: erede di una tradizione familiare che vantava illustri studiosi, laici ed ecclesiastici, il padre riuniva nel palazzo avito l'Accademia degli Informi, di cui era principe, e lo zio Giuseppe Ginanni era impegnato nella raccolta di reperti naturalistici, il cui studio ne faceva corrispondente stimato di R.-A. de Réaumur, di P.A. Micheli e di S. Maffei. Vantando quella tradizione, il cugino Pietro Paolo Ginanni, che del G. sarà biografo, riferiva l'interesse con cui il giovinetto partecipava alle adunanze dell'Accademia raccolta intorno al padre e alle riunioni di quella dei Concordi, nel monastero di Classe.
Nel 1730 il G. fu inviato, a Parma, alla corte di Antonio Farnese, per ricevere l'educazione del giovane cavaliere. Tuttavia la passione per lo studio, forte quanto scarsa era l'inclinazione agli esercizi d'armi, convinse il maestro dei paggi, G. Magioli, a esonerarlo dalle discipline cavalleresche, consentendogli di dedicarsi alle materie preferite. Il G. iniziava, così, l'itinerario di studi che gli avrebbe fatto incontrare una pluralità di ottimi maestri: apprendeva le prime nozioni di poesia da C.I. Frugoni e poi, alla morte di Antonio Farnese (gennaio 1731), per interessamento della vedova, Enrichetta Maria d'Este, frequentava il ginnasio, appassionandosi soprattutto alla matematica, che apprendeva dal gesuita G. Belgrado. Quando la duchessa trasferì la corte a Piacenza, lo condusse seco e gli offrì la guida intellettuale del vescovo A. Chiappini, un eclettico altrettanto versato nella filosofia morale, nell'ottica e nella meccanica.
Concluso il soggiorno piacentino nel 1739, nel viaggio di ritorno a casa, il G. sostò a Modena per conoscere L.A. Muratori. Proseguì poi gli studi, perfezionando le conoscenze matematiche con G.E. Garratoni, e iniziò ad applicare le proprie conoscenze impegnandosi su una pluralità di terreni diversi: affrontò la catalogazione dei materiali naturalistici raccolti dallo zio, intraprese esperienze originali di fisiologia e patologia vegetale, si cimentò nella misurazione topografica del contado e della città. Partecipava, intanto, alla vita delle accademie romagnole e scrisse, assecondando un desiderio dell'amico C. Fantuzzi, un dialogo per guidare i fanciulli all'apprendimento della geometria.
Lo spirito versatile, la competenza dei maestri che aveva frequentato, la levatura degli studiosi con i quali, sulla scia dello zio, sviluppò fruttuose corrispondenze, gli assicuravano la padronanza di ciascun settore del sapere che affrontava: l'eterogeneità non mancava, peraltro, di esercitare la propria influenza sui risultati del suo impegno, sempre apprezzabili, mai autenticamente originali. Provvide, intanto, alla pubblicazione degli scritti naturalistici dello zio, che vedevano la luce, in due volumi, nel 1755 e nel 1757 a Venezia: Opere postume, Tomo primo nel quale si contengono centoquattordici piante che vegetano nel mare Adriatico, e Tomo secondo nel quale si contengono Testacei marittimi, paludosi e terrestri dell'Adriatico, e del territorio di Ravenna. La stampa dei due tomi lo distoglieva, però, dalle esperienze intraprese sulle malattie del frumento. Nel 1754 F. Séguier, allievo del Réaumur, che viveva a Verona nella cerchia di S. Maffei, verosimilmente a conoscenza di indagini analoghe in corso in Francia, lo sollecitava a pubblicare l'esito di quelle ricerche. L'invito cadde inascoltato: quando nel 1759 videro la luce a Pesaro, in veste elegante, Le malattie del grano in erba, M. Tillet aveva già pubblicato uno studio sull'argomento destinato a costituire una pietra miliare della fitopatologia.
Vergato con cura, corredato di belle tavole e di una carta geografica frutto delle triangolazioni effettuate dal G. stesso, il trattato sulle malattie del frumento è, comunque, un'opera significativa. Consta di tre parti: un'indagine storica e filologica sui vocaboli con cui quattro fitopatie del grano sono state designate nelle lingue antiche e quelli che le identificano in quelle moderne e nei dialetti italiani; la relazione delle indagini sperimentali che il G. aveva effettuato, in quattro annate successive, dall'autunno 1749 all'estate 1755; la valutazione delle osservazioni che ne erano derivate secondo i criteri della più aggiornata cultura naturalistica coeva.
Dotta e penetrante la prima parte, scrupolosa la seconda, nella terza il G. dà prova della dimestichezza con gli studi botanici ed entomologici contemporanei, comparando ognuna delle sue osservazioni con le scoperte dei grandi naturalisti del suo tempo, con la maggior parte dei quali (R.-A. de Réaumur, J.T. Needham e M. Tillet) era personalmente in corrispondenza. Nonostante la conoscenza diretta, mancava di cogliere, tuttavia, il significato biologico della scoperta essenziale che le sue ricerche avrebbero dovuto integrare: la proprietà, individuata dal Tillet, della "polvere" del grano infetto da carie di trasmettere la malattia. Conoscendolo, menzionava con scrupolo lo scritto, ma sfuggendogliene il rilievo, era incapace di sospingere oltre di un solo passo le cognizioni fitopatologiche.
Paradossalmente, in un'opera naturalistica la parte più significativa risulta, così, l'introduzione erudita: un proposito di autentico rilievo naturalistico, poiché costituisce esigenza preliminare allo studio di fenomeni non ancora spiegati, fissare i vocaboli con cui essi sono definiti nelle lingue in cui siano stati descritti, e in quelle usate da coloro che ne stanno eseguendo, in paesi diversi, lo studio. Quando il G. affrontava il proprio impegno, gli animali e le piante superiori erano stati identificati, sulla base di una lunga serie di precedenti, dalla tassonomia di Linneo, imprecisa biologicamente ma sommamente funzionale; sui fenomeni che coinvolgono gli organismi inferiori la scienza europea mancava ancora, non che di conoscenze, anche di un lessico per formularle.
Compiuta l'opera di filologo, con la lucida distinzione delle quattro fitopatie, nei capitoli successivi il G. affrontava l'indagine biologica. Procedeva con padronanza: aveva concepito un piano di confronto in parcelle, sapeva usare il microscopio e il barometro, aveva seguito una messe di osservazioni interessanti, ma sul terreno fitopatologico non raggiungeva il traguardo segnato dal Tillet scoprendo l'infettività delle spore della carie (la Tilletis caries), su quello nematologico ripeteva un'osservazione pubblicata da G.T. Needham già nel 1743, su quello entomologico ricalcava Réaumur osservando che gli insetti parassiti sono vittime, a loro volta, di insetti predatori.
Tra le sessioni delle accademie di cui era membro, della Società letteraria ravennate di cui era fondatore, la composizione di poesie e di orazioni di soggetto sacro, le misurazioni topografiche e la costruzione di apparecchiature scientifiche, il G. continuava, intanto, la raccolta di materiali e di osservazioni sulle grandi piante comprese tra le campagne ravennati e il litorale.
Convinto che esse costituissero patrimonio naturale ed economico inestimabile, insofferente allo sfruttamento di rapina che ne vedeva perpetrare, si proponeva di realizzarne la descrizione componendo il quadro degli esseri vegetali e animali, superiori e inferiori conviventi in un equilibrio le cui regole intuiva essere stabilite dalla qualità del terreno, delle acque e del clima. Proseguiva, così, un progetto nel quale il naturalista moderno può riconoscere i temi più attuali dell'ecologia; la corrispondenza non si traduceva, peraltro, in precorrimento: se lasciava trapelare l'intuizione, lo svolgimento dell'indagine la sommergeva, immediatamente, nella dovizia di un'erudizione letteraria, geografica, medica, che affastellava, confondendole, nozioni scontate dei naturalisti classici a quelle più originali dei contemporanei.
Il G. non giunse, però, a vedere l'impegno tradursi in volume: come era avvenuto per l'opera dello zio anche i suoi manoscritti, preparati per compiere il disegno, avrebbero visto la luce dopo la sua morte, nel 1774 a Roma (Istoria civile e naturale delle pinete ravennati). Tra le opere inedite, da rilevare il Discorso filosofico sopra l'aria, che scorre nel sangue, le Poesie di Filindo Alethe pastore di Tribbia, lo pseudonimo con cui il G. scrisse i primi versi a Parma e Piacenza, e una serie di orazioni di soggetto sacro. Tra quelle edite, ha visto la luce il saggio De numeralium notarum minuscularium origine, scritto nel 1774 per contestare l'origine araba dei numeri correnti. Si può rilevare che nessuno dei manoscritti delle opere inedite risulta presente nelle biblioteche delle città che furono teatro dell'attività del G.: Ravenna, Forlì e Pesaro.
Mentre si accingeva a un viaggio all'estero per ampliare le proprie conoscenze, morì l'8 marzo 1766 a Ravenna.
Fonti e Bibl.: L'esame della biografia del G. propone il problema, preliminare e insolubile, delle relazioni tra i due scritti più completi sulla sua vita. Nel 1767 il tipografo Rizzardi di Brescia stampava un elogio in latino firmato da Petrus Parvus (De vita et scriptis comitis Ginanni patricii et philosophi Ravennatis commentarius), pseudonimo dietro il quale G. Melzi identificava V. Fassini, suggerendo, peraltro, il dubbio che esso potesse nascondere l'abate G.B. Rodella (G. Melzi, Dizionario di opere anonime e pseudonime…, II, Milano 1852, p. 318). Due anni più tardi, nel 1769, P.P. Ginanni, grande biografo dei ravennati illustri, includeva la vita del parente nelle Memorie storico-critiche degli scrittori ravennati, I-II, che vedevano la luce a Faenza, elencando gli elogi pronunciati dopo la morte, senza alcuna menzione di quello bresciano. La sorprendente affinità tra i due testi, che differiscono per il maggiore risalto, in uno o nell'altro, di dettagli, rende difficilmente credibile l'ignoranza del primo. Rende insolubile il problema la ricomparsa della prima biografia, nel 1774, nel volume in cui vide la luce, postuma, l'Istoria… delle pinete ravennati, che P.P. Ginanni incluse tra le opere manoscritte di cui attribuiva il possesso al fratello del G., il quale ignorava, per parte sua, la biografia del cugino. A entrambi i profili sono annessi elenchi completi delle opere edite e inedite.
Le biografie più recenti (per es. S. Fabri, Biografie e ritratti di XXIV illustri romagnoli, a cura di A. Hercolani, II, Forlì 1835, pp. 137-161; F. Mordani, Vita dei ravegnani illustri, Ravenna 1837, s.v.; A. Tarlazzi, Notizie genealogiche della nobile famiglia dei conti Ginanni di Ravenna, Pisa 1876, passim; V. Spreti, Enc. storico-nobiliare italiana, III, pp. 451 s.) ricalcano le prime due. M.L. Altieri Biagi e Bruno Basile (Scienziati del Settecento, Milano-Napoli 1983) analizzano con cura le opere di Giuseppe Ginanni, ma menzionano solo fugacemente il ruolo del G. per la pubblicazione delle opere dello zio. Il suo ruolo nella storia della letteratura naturalistica può essere valutato, sul terreno fitopatologico, attraverso G. Ainsworth, Introduction to the history of plant patology, Cambridge 1981, ad ind.; E. Baldacci, Origini e caratteristiche della fitoiatria, in Notiziario sulle malattie delle piante, s. 3, 1985, n. 33; A. Saltini, Storia delle scienze agrarie, II, Bologna 1987, pp. 127-138. Il valore dell'indagine sulle piante è sottolineato da P. Zangheri, Flora e vegetazione delle piante di Ravenna e dei terreni limitrofi tra queste e il mare, Forlì 1936, ad ind. (con ampia bibl. sull'argomento). Vedi anche P. Fabbri, Giuseppe e F. Ginanni, due naturalisti di fronte alla "scienza umana" illuministica, in Boll. economico della Camera di commercio… di Ravenna, XLVIII (1993), 1-2, pp. 83-92.