Francesco Giuseppe e le guerre mai volute
A un secolo dalla morte, la figura del sovrano d’Austria e Ungheria, uomo di pace costretto suo malgrado a difendere l’onore del suo impero, riacquista una drammatica attualità. Oggi come allora l’Europa rischia di sfaldarsi per l’incapacità delle sue classi dirigenti.
L’imperatore si spense dolcemente alle 9 e 5 minuti di quella sera, il 21 novembre del 1916. Le procedure di preparazione della salma e d’imbalsamazione andarono per le lunghe e furono condotte in modo alquanto maldestro. Solo 10 giorni dopo, il 30, si presentò dinanzi alla porta della Kapuzinergruft di Vienna.
Gelido, disfatto a causa dell’imbalsamazione mal riuscita, chiuso nella sua candida alta uniforme, invisibile a tutti.
Bussarono per lui alla porta, una volta. Alla domanda del padre guardiano all’interno, chi fosse a chiedere ultimo asilo, risposero per lui secondo il rito: Sua Maestà Cesarea il Kaiser Francesco Giuseppe, imperatore d’Austria, re apostolico d’Ungheria, re di Boemia, di Dalmazia, di Croazia, di Slavonia, di Galizia, di Lodomiria e d’Illiria, re di Gerusalemme, arciduca d’Austria, granduca di Toscana eccetera. Non lo conosciamo, si sentì rispondere da dentro. Secondo appello: chi bussa? Francesco Giuseppe, semplicemente. Identica risposta: ancora una volta, come il perentorio Zurück! che respinge il principe Tamino alle soglie del Tempio della Saggezza nel secondo atto della Zauberflöte di Mozart. Terzo appello. Chi bussa ancora? Ein armer Sünder, «un povero peccatore». Quello, Dio lo conosceva: e anche i fedeli frati custodi della cripta di famiglia degli Asburgo. La porta si aprì ed egli poté scendere a riposare con i suoi avi e con la sua Sissi.
Intanto, sui campi di battaglia, l’Europa stava agonizzando. Francesco Giuseppe morì in buona compagnia. Con lei.
Quell’uniforme candida nella quale ormai avrebbe riposato per sempre era forse la stessa con la quale poco più di 2 anni prima, nel fatale 1914, egli aveva seguito a piedi, 84enne, la processione del Corpus Domini nella sua capitale. Quel gesto di regale umiltà – uno dei tantissimi dei quali era capace – aveva commosso profondamente papa Pio X, ch’era nato nel Veneto ancora sotto il suo regno e che non dimenticava mai di pregare per il ‘suo’ imperatore. Ma pochi giorni dopo, il 28 giugno, c’era stata la tragedia di Sarajevo: e tutto era precipitato.
Non l’aveva voluta, quella guerra.
E anche delle 3 che prima di quella gli era toccato di vedere – nel ’48, nel ’59, nel ’66 – non ne aveva voluta nessuna. Aveva trascorso la vita intera in uniforme, come si conveniva al «primo funzionario dello Stato», com’era fiero di definirsi: ma era, e sempre rimase, un uomo di pace. Già all’indomani dell’annessione della Bosnia-Erzegovina, mentre ormai si stavano presentando – nell’Austrungheria e non solo – le prime spinte oltranzistiche, aveva quasi aggredito il nipote e successore designato al trono, l’arciduca Francesco Ferdinando, con queste parole: «Hai mai visto la guerra, tu? No! Ma io l’ho vista, e perciò ti dico che prima di avventurarcisi bisogna rifletterci ancora tanto a lungo fino a trovare un mezzo per evitarla». E alla figlia Maria Valeria, una delle poche persone con cui amasse confidarsi, aveva dichiarato una volta ch’è sempre difficile trovare delle ragioni per fare una guerra, anche perché in realtà non ce ne sono mai.
Alla notizia della morte del nipote Francesco Ferdinando nell’attentato di Sarajevo, l’imperatore non apparve in fondo né troppo scosso né eccessivamente addolorato; anzi, dalle sue immediate dichiarazioni pare quasi di capire ch’egli pensasse che le cose avevano avuto il loro necessario esito. Tutto era andato, dal ’67 in poi, contro la volontà di Dio che gli aveva affidato i suoi popoli: era stato solo nel nome e in vista della sopravvivenza della monarchia che egli aveva dovuto accettare contro la propria coscienza tanto l’Ausgleich austroungarica prima quanto il sistema costituzionale poi. Ma la prospettiva presentatagli dall’arciduca Francesco Ferdinando, quella di una nuova riforma che aggregasse anche gli slavi, doveva sembrargli in realtà eccessiva e intollerabile.
Certo, egli non avrebbe mai potuto opporsi: ma era accaduto che, proprio per mano di uno slavo, ci aveva pensato la Provvidenza.
All’indomani dell’attentato l’imperatore si schierò con il primo ministro, l’ungherese István Tisza, dichiarandosi contrario a qualsiasi tipo di azione di rappresaglia contro la Serbia: anche perché essa avrebbe comportato con ogni probabilità un intervento russo e quindi una guerra di più ampie e terribili proporzioni. Ma tutti gli altri ministri, a cominciare da quello degli esteri Leopold Berchtold, erano dell’avviso che ai serbi si dovesse impartire una lezione indimenticabile. Nel medesimo giorno dell’inizio della guerra contro la Serbia, l’imperatore firmò un proclama diretto a tutti i suoi popoli: «Sarebbe stato il mio più ardente desiderio dedicare gli anni che ancora mi sono concessi a opere di pace e a risparmiare ai miei popoli i pesanti sacrifici e gli oneri della guerra. La Provvidenza ha deciso altrimenti. Le macchinazioni di un avversario pieno di odio mi costringono a impugnare la spada per tutelare l’onore della mia monarchia, per difendere il suo prestigio e la sua posizione politica, per assicurarne la stabilità dopo tanti anni di pace». E se all’immediata vigilia del conflitto il sovrano era sembrato preso da una sorta di abulico fatalismo, come se tutti i suoi 84 anni gli fossero arrivati addosso d’un balzo tutti assieme, ora egli sembrava, se non rinvigorito, per lo meno divenuto più lucido e determinato, quasi più sereno: era come se ormai solo la guerra lo interessasse; era come se la sua stessa tarda età lo facesse sentire già fuori dalla vita e che, senza passato e senza futuro, solo il giudizio immediato delle armi avesse conservato per lui un qualche valore.
Intanto, la guerra stava al di là della sua volontà valorizzando l’elemento germanico in un’Austria che si andava sempre più appoggiando alla potente fraterna potenza vicina; e se gli ungheresi restavano fedeli a quella monarchia che per tanto tempo avevano pur avversato, gli slavi davano segni di volersene andare, come fecero i nazionalisti ‘cechi’, cioè boemi, che ormai stavano preparando la loro repubblica e molti dei quali disertavano per passare al nemico. Gli eventi dell’estate del ’14, il tragico Totentanz che di ultimatum in ultimatum e di mobilitazione in mobilitazione coinvolse tutta l’Europa e quindi – con l’ingresso nel conflitto del Giappone e degli Stati Uniti – il mondo intero, configurarono una situazione del tutto nuova: il processo di globalizzazione, avviato con le scoperte e le conquiste che dal 16° secolo in poi avevano gradualmente sottomesso l’intera ecumène all’Europa, giungeva con la Prima guerra mondiale al suo fatale compimento, che si sarebbe del resto prolungato con la Seconda e quindi con le successive crisi che, dall’Estremo Oriente asiatico attraverso le successive tappe in Asia, in Africa e in America latina, sarebbero sfociate nei drammi delle migrazioni e del terrorismo: esiti ultimi del resto dello ‘scambio asimmetrico’ che fin dal Cinquecento ha caratterizzato l’economia-mondo e del conseguente, progressivo, gigantesco processo di concentrazione della ricchezza e d’impoverimento delle masse subalterne del pianeta. Ma, se per le avanguardie rivoluzionarie marxiste come quella russa era evidente che la guerra fosse l’esito necessario della tensione tra paesi imperialisti soggetti all’egemonia delle élite capitalistiche e colonialiste, nessuno tra i governi europei – nonostante l’inasprirsi delle rivalità e il moltiplicarsi dei motivi di scontro – sembrò al momento rendersi conto dell’abisso nel quale tutta l’Europa stava precipitando e al fondo del quale stava l’irreversibile e irrecuperabile perdita del suo ruolo egemonico sul pianeta. Fino a pochissimi anni prima era sembrato che la Terra fosse ormai unita, stretta nei legami dei mezzi di comunicazione che, grazie al vapore e all’elettricità, stavano unendo i punti più lontani di essa: ora, mentre il petrolio e l’aviazione stavano per sconvolgere economia, finanze, comunicazioni e tecniche militari – ma era ancora troppo presto per rendersene conto –, si credette di esser giunti alla definitiva resa dei conti; e non si comprese che quello era, viceversa, l’avvio di una nuova fase di crisi che non si sarebbe conclusa nemmeno con la fine della Seconda guerra mondiale e che invece proprio in questi nostri tempi si deve definitivamente affrontare.
E se alla fine del ’15 le sorti del conflitto erano oscure e incerte, il ’16 non si aprì in modo positivo: tra il maggio e il giugno, la nuova offensiva austroungarica contro le linee italiane fallì; alla fine della primavera si ebbe una controffensiva russa tra Polonia e Galizia; il 18 agosto, ottantaseiesimo compleanno dell’imperatore, la Romania – che a suo tempo si era avvicinata alla Triplice, ma che ormai mirava a strappare all’Ungheria la Transilvania e che considerava d’altronde la Bulgaria, alleata degli imperi centrali, come il suo grande nemico – scelse l’alleanza con le potenze dell’Intesa. Era un tradimento in tono minore, rispetto a quello italiano: ma ormai altrettanto atteso. Oltre all’andamento del conflitto, Francesco Giuseppe era deluso e prostrato per il comportamento mediocre dei politicanti che egli era costretto a far avvicendare nel suo governo: per fortuna il nuovo erede al trono, Carlo, per il quale il sovrano provava un affetto che non esitava – contrariamente alle sue abitudini – a dimostrare, si stava comportando bene.
Il 20 novembre, a Schönbrunn dove ormai si era trasferito da tempo, l’imperatore si lamentò esplicitamente del suo stato di salute: da tempo la sua vecchia bronchite era degenerata in polmonite ed era molto debole.
La fedele figlia Maria Valeria si allarmò e i medici, chiamati immediatamente, espressero un parere ormai disperato.
Nonostante ciò egli volle alzarsi, indossare l’uniforme e sedere alla scrivania: l’aiutante di campo gli guidò la mano mentre vergava la firma su una domanda di grazia, quella di un’infelice infanticida ch’era stata condannata alla pena capitale. Fu uno dei suoi ultimi atti sovrani. Al mattino successivo, di nuovo in piedi e al lavoro in uniforme, ricevette l’erede al trono e prese i sacramenti; aveva la febbre molto alta. Cercò verso mezzogiorno di sorbire una tazza di brodo, tentò di lavorare ancora, e tornò a letto verso le 7 di sera. Come sappiamo, avrebbe concluso 2 ore dopo la sua giornata terrena.
Una vita da imperatore
- 1830, il 18 agosto nacque a Schönbrunn da Francesco Carlo, secondo figlio dell’imperatore Francesco I, e dalla principessa Sofia di Baviera. Ebbe 3 fratelli (Massimiliano, Carlo Ludovico, Ludovico Vittorio) e una sorella (Maria Anna).
- A 13 anni intraprese la carriera militare e venne nominato colonnello, indossando così quell’uniforme grigioverde che lo caratterizzò in molti dei suoi ritrattiufficiali e di vita quotidiana.
- 1848, il 2 dicembre, divenne imperatore in seguito all’abdicazione dello zio Ferdinando I. Nello stesso anno conobbe a Innsbruck la cugina Elisabetta di Baviera che sarebbe divenuta sua moglie.
- 1853, il 18 febbraio, fu aggredito dal nazionalista ungherese János Libényi che intendeva così vendicare le centinaia di martiri della rivolta magiara.
- 1854, il 24 aprile, sposò Elisabetta di Baviera, dalla quale ebbe un solo maschio, Rodolfo, e due femmine, Gisella e Maria Valeria.
- 1898, la moglie Elisabetta di Baviera venne uccisa dall’anarchico italiano Luigi Lucheni.
- 1916, il 21 novembre, morì a Schönbrunn.
Popoli ed etnie di un impero multinazionale di Vincenzo Piglionica
Un crogiolo di lingue e culture, un composito puzzle di etnie e nazionalità distribuite in un vasto territorio che nel 1914 superava i 676.000 km2, estendendosi dal Trentino alla Transilvania, dalla Dalmazia fino alla Slesia, secondo per dimensioni nel Continente solo al grande Impero russo e con una popolazione, nel 1910, di circa 51 milioni di abitanti. Proprio le statistiche del censimento del 1910 offrono una delle testimonianze più autentiche della complessità etnico-demografica dell’Impero degli Asburgo: a livello linguistico, il 23,36% della popolazione dichiarava di parlare il tedesco, il 19,57% l’ungherese, il 16,37% il ceco o lo slovacco, il 9,68% il polacco, l’8,52% il serbo o il croato, il 7,78% la lingua rutena dell’Ucraina, il 6,27% il rumeno, il 2,44% lo sloveno, l’1,5% l’italiano e la restante parte altre lingue. Una tale articolazione rende conto di una eterogeneità assai pronunciata, la cui gestione era ulteriormente complicata dal fatto che – come i numeri rivelano – non era possibile individuare una nazionalità nettamente predominante come nel caso, per esempio, dell’Impero russo. In tale contesto, la principale ‘istanza unificatrice’ era inevitabilmente rappresentata dalla Corona, la dinastia asburgica.
Dopo le rivoluzioni del 1848, che scossero profondamente le monarchie europee e rappresentarono un momento di radicale espressione delle forze di ispirazione nazionalista, l’Impero provò a promuovere un processo di centralizzazione, ma il contesto internazionale e le sconfitte nella Seconda guerra d’indipendenza italiana (1859) e nel successivo conflitto austro-prussiano (1866) costrinsero a una correzione di rotta. In questo quadro, a trarre i maggiori vantaggi fu la nazionalità ungherese, con la concessione nel 1867 dello storico Ausgleich («Compromesso») che conferiva all’Ungheria uno status di parità con l’Austria e divideva di fatto l’Impero in 2 Stati distinti, uniti dal vincolo dinastico con il sovrano asburgico che diventava imperatore d’Austria e re d’Ungheria.
La ‘complessità sistemica’ continuò tuttavia a essere pronunciata, anche per una sostanziale difficoltà dell’Impero a riformarsi: in Ungheria, le élite al potere avviarono un processo di ‘magiarizzazione’ non di rado poco propenso ad accogliere le istanze di altri gruppi etnici culturalmente distinti, in territori tanto articolati da accogliere nazionalità come quella serba, quella slovacca e quella rumena. Nella parte austriaca dell’Impero poi, risultava altrettanto difficile conciliare richieste e aspirazioni delle diverse nazionalità, da quella ceca, a quella ucraina, a quella polacca, fino a quella rumena. C’era infine l’esplosiva questione degli slavi del sud, che con la sua marcata complessità trans - frontaliera valicante i confini dell’Impero ebbe un peso assai importante nello scoppio del primo conflitto mondiale. Dopo la fine della guerra, del glorioso Impero non restavano che le ceneri: i suoi territori davano vita alle nuove Austria e Ungheria, alla Cecoslovacchia, contribuivano alla formazione della Polonia, del Regno dei serbi, dei croati e degli sloveni che sarebbe poi diventato Iugoslavia, all’espansione dei confini dell’Italia e della Romania.
A quasi un secolo da quei fatti e dopo tanta storia passata – Cecoslovacchia e Iugoslavia non esistono più – ma di quell’impero resistono ancora tracce diffuse nella cultura mitteleuropea; inoltre, gran parte di quei popoli un tempo uniti sotto la monarchia asburgica si trovano oggi a condividere il progetto sovranazionale dell’Unione Europea. Grandi sono le differenze tra i 2 soggetti politici e assai diversi sono i contesti in cui si sono trovati a vivere la loro parabola storica, ma in un certo senso – ha scritto il diplomatico inglese Robert Cooper – le 2 realtà presentano anche alcune analogie: tra queste, quella di aver ‘ospitato’ o di ‘ospitare’ ancora al loro interno un crogiolo di popoli, alcuni dei quali difficilmente avrebbero resistito alle pressioni esterne – nel caso asburgico, quelle degli imperi tedesco e russo – senza far parte di ‘qualcosa di più grande’.
La coesistenza dei popoli europei all’interno di una grande casa comune è adesso minacciata da una crisi economico-finanziaria che stenta a passare e dall’incapacità di affrontare insieme problemi come la gestione dei flussi migratori. Nei giorni nostri non ci sono spettri di guerra, e questo è un grande vantaggio, ma perché il destino dell’UE sia diverso da quello dell’Impero asburgico sarà necessario che i popoli e le istituzioni dell’Europa uniscano le loro forze. E che la tenuta del progetto europeo possa subire un colpo pesante proprio dalla brusca virata ‘nazionalista’ dell’Austria, un tempo cuore – pur con tutte le sue problematicità – di un impero multinazionale e oggi tenace nella sua difesa di un tanto utopico quanto anacronistico ‘splendido isolamento’, pare quasi un paradosso della storia.